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“Odio tutto quello che non è del mio colore e del mio odore” questo dovrebbe essere il motto del Front National così come ci viene dipinto. È invece una frase di Alfred Hitchkok, il quale, da buon Inglese, aggiungeva anche “tutto quello che non è del mio sesso”.
Le cose in casa lepenista non stanno affatto così. Nel denunciare l’immigrazione, la violenza delle periferie, il degrado urbano e quello della pubblica istruzione, il vicolo cieco della produzione, la sudditanza alla tecnocrazia di Bruxelles e del Fondo Monetario, Jean-Marie Le Pen ha sempre fatto attenzione a distinguere tra gli immigrati, che ha sempre considerato come vittime, come due volte vittime (nel Paese di origine ed in quello di accoglienza) e le lobbies dell’immigrazione.
E non si tratta di una distinzione formale, dialettica. Fedele a chi è fedele alla Francia, Le Pen è stato il solo a presentare in lista gli Harkis, ovvero gli Algerini che si batterono sotto il tricolore transalpino, tanto che il primo deputato arabo della storia francese fu eletto nelle liste del Front National.
E nei quartieri arabi di molte città, prima fra tutte Marsiglia, il voto della prima generazione di immigrati è andato in parte proprio a Le Pen.
Le Pen si batte a spada tratta contro Maastricht e l’euromondialismo, cosa, questa, che ha fatto gridare allo scandalo, alla miopia, alla reazione bieca e cieca, alla scelta puerilmente estremistica.
In realtà Le Pen è sempre stato per l’Europa da molto prima che la UE fosse concepita ma è per un’altra Europa che non rinunci alle identità nazionali, alla sovranità sui suoi territori, alla sovranità dei suoi popoli a vantaggio di una cricca di funzionari senza patria, così come sta, ad esempio, avvenendo in Argentina dove il Fondo Monetario ha reclamato una sorta di sovranità su parte della Patagonia. E dunque, per cercare d’impedire che si arrivi a questo, ha deciso di dare battaglia; per rafforzare l’Europa.
Se passa Le Pen, ci dicono gli isterici intellettuali di tutte le parrocchie, sarà il trionfo della violenza, il ritorno del bellicismo, l’avvento dell’avventurismo guerrafondaio.
Con l’unica eccezione del socialista Chevenement, Le Pen è stato il solo uomo politico francese a battersi, fin dal 1990 contro la guerra in Iraq. È stata la sua mediazione che ha permesso la liberazione degli ostaggi europei. Nel 2001 è stato assolutamente l’unico a condannare il bombardamento dell’Afghanistan. Eppure l’Iraq e l’Afghanistan sono Paesi islamici, zeppi di Arabi: Le Pen dovrebbe odiarli e, se non li odia lui, dovrebbe odiarli il suo elettorato. Ma quest’ultimo non è rimasto turbato dalla sua scelta assennata, umana e logica; il che dimostra ampiamente che le cose non stanno affatto come ce le dipingono.
Malafede, ignoranza, dogmatismo ed isteria impongono agli scriba della plutocrazia progressista, agli untori del politicamente corretto di dipingere il fenomeno lepenista in questa maniera grossolana e talvolta immonda.
Quando scoppiò l’epidemia dell’Aids, in ambienti socialisti giunsero a dire che se Le Pen fosse mai andato al governo avrebbe trovato il modo di far morire gli emofiliaci. Si erano dimenticati che lo stavano facendo loro, perché, per ragioni economiche e di ordine pubblico, avevano mantenuto in circolazione il sangue infetto per le trasfusioni. Fu un piccolo genocidio.
In quest’aneddoto è emblematicamente racchiuso il senso profondo di quanto accade.
Da una parte abbiamo una finta élite scellerata,  ideologizzata, irreale,  asservita fino al moralismo ai grigi funzionari del Dio Dollaro, divenuta malvagia e capace di ogni obbrobrio contro la natura e l’umanità, dall’altra chi mantiene il buon senso, dei sentimenti semplici e spontanei, il rispetto e la dignità. I primi non tollerano nemmeno di guardare ai secondi perché questi, nella loro semplice nudità, nella loro dimostrazione che si può vivere senza essere schiavi o perlomeno rendendosi conto di essere stati schiavizzati senza mascherare questa condizione dietro paraventi artificiali o  parole d’ordine del tipo “non si può fare altrimenti” o “i tempi lo impongono”, sono la prova evidente del loro fallimento, della loro virtualità. Li devono perciò diffamare, li devono sporcare, debbono scaricare su di essi tutta la loro propria sporcizia in un’espulsione catartica tipica degli insoddisfatti, dei privi di centralità, dei tristi, dei morti viventi.
Di chi, “è morto ma non sa di esserlo”  o più probabilmente di chi non vuole ammetterlo.
Dall’altra parte la tenacia ma anche l’allegria, la gioia di vivere.
Il 1 Maggio a Parigi, al tradizionale raduno lepenista si contrapporrà una sfilata unitaria, che chiamerà a raccolta la CGT, le bande della periferia urbana, i notabili di centro, di destra e di sinistra e che sfilerà con rabbia, con angoscia, con rancore.
All’Opéra si terrà una festa della vita, tra canzoni, gioia, vino e sorrisi.
Lo scontro tra due Francia, due Europa, due modi di essere; anzi: tra un modo di essere e uno di sopravvivere stancamente, dal codice fiscale alla bara .