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10/02/2016 | Gabriele Gruppo (thule-italia.org)

 

 

 

L'abuso del termine per aspiranti avventurieri che poi finiscono in sventura quando scoprono che la realtà non è un film

 

 

 

Il nostro destino è quello d’essere nella posizione di non poter proprio fare a meno di criticare certe storture che, dalla nostra altana d’osservazione, ci balzano agli occhi in modo evidente.
Riteniamo un dovere essere duri, a volte anche sgradevoli, ma la verità non è sempre morbida, ed il voler omettere le sue asperità è per noi uno dei grandi mali di questa bolsa società dell’Italia contemporanea, perbenista e moralista.
Domanda “banale”:
Se una persona decidesse, consapevolmente, di lanciarsi da un aeroplano senza paracadute, come lo definireste; un “eroe” o un “pirla”?
Dubitiamo che la risposta possa essere diversa da quel che immaginiamo, ed è per noi quindi maggiormente incomprensibile che, in circostanze diverse ma dalla medesima filosofia di fondo, si preferisca optare per altri aggettivi più nobili, facendo passare per gesto eroico un comportamento a dir poco irresponsabile.
Eppure, secondo una certa vulgata mediatica e non solo, andare in nazioni straniere, con la faccia tosta di chi è nato e cresciuto in un contesto di bambagia borghese, e “giocare” a salvare il Mondo (d’altri) senza essere stati interpellati, correndo rischi (propri) di non poco conto, sembra legittimare quel che in precedenza abbiamo definito: “un comportamento a dir poco irresponsabile”.
Non intendiamo certo speculare su fatti tragici, questo è poco ma sicuro, bensì affermare l’ovvio che, per quanto sgradevole, resta veritiero.
A parer nostro è ora di finirla con questi rampolli del progressismo italico, svezzati culturalmente con la favoletta del “bene” che vince ed il “male” che perde, per dirla un po’ alla Verdone, in cui tutto il Mondo è paese, anzi, spesso il Mondo è soltanto pieno di avvincenti avventure esistenziali da vivere con slancio (e con pochissimo sale in zucca), meglio di qualsiasi realtà virtuale, o social, o centro social. Intanto, anche se l’avventura si facesse dura, c’è sempre il “bene” che protegge i vari cooperanti, studentelli a tempo perso, apologeti del politicamente corretto e del terzomondismo d’accatto, che sovente vanno a ficcare il naso (e le terga) in situazioni in cui c’è chi spara davvero, o dove il regime cui stiamo dando fastidio non è presieduto da un Renzi o da un Berlusconi qualsiasi, ma da un generale non certo sensibile a temi che qui, in Italia, sono sacri come le vacche in India.
Si possono fare tanti bei discorsi su questa generazione di “cittadini del Mondo”, di “curiosi”, di “idealisti”, di anime belle, pane, nutella e buoni propositi verso gli sfigati della terra, o meglio, di coloro che loro ritengono sfigati degni da soccorrere. Perché se lo sfigato è siriano, congolese, egiziano, o qualsiasi altra etnia che non sia la propria, va bene, rispetta certi canoni d’illuminata provenienza, ed è giusto anche buttarsi da un aereo senza paracadute, mentre se lo sfigato è magari vicino a casa propria, del proprio ceppo etnico… per carità! Mamy e papy non hanno mica fatto studiare cotanti rampolli, per obiettivi di così basso profilo!
Eppure, fattore spesso sottovalutato, l’esotica avventura del “bene” fattosi generazione Erasmus non sempre finisce “bene”. C’è chi si fa un soggiorno obbligato in una capanna sperduta, con un mitra puntato alla testa, quando le questioni ruotano attorno ai dollari, per poi rincasare con tanto di picchetto governativo. C’è chi invece, per sua sfortuna, incappa in un ingranaggio più grande di lui; e lì non ci sarà nessun mediatore prezzolato pronto a mercanteggiare il rilascio dello sprovveduto per un bonifico, bensì una stanza dalla quale non ci sarà ritorno.
Per questo motivo sarebbe ora di sfatare un tipo di malsano eroismo, e chiamare certi atteggiamenti con il loro nome.