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O ancora perché mi sono lasciato sedurre troppo dal paradosso situazionista  per il quale “nella società dello spettacolo la verità è sempre l’opposto di come appare”.
E sarà pure un paradosso ma quando mai è risultato inesatto?
Fatto sta che questa rissa a distanza, in questo preciso contesto, mi convince ben poco.
La mia impressione – che può venire smentita dai fatti – è che gli iraniani stiano giocando la carta dell’egemonia locale e guardino agli uomini (e ai pozzi) sciiti. Per questo, io penso, stanno provando a scaldare gli animi.
Ma non con la chiara fermezza degli iracheni o dei siriani o degli egiziani di ieri: di Saddam, Nasser o Addad. Questi sono (o erano) nazionalisti, sociali e laici, dunque gente che crede nelle cause dei popoli e non le strumentalizza ai fini dei fondamentalismi teocratici. Lo stesso non mi sembra potersi dire per i dirigenti di Teheran.  Né credo che questi ultimi siano davvero nemici degli Stati Uniti e di Israele, da cui peraltro presero a lungo le armi contro Baghdad. Ho l’impressione che stiano invece adattando all’area la vecchia logica di Yalta. Che abbiano assunto, insomma, lo stesso ruolo che fu dell’URSS: quello di rivale e complice della superpotenza.
Un complice oggettivo e un rivale relativo; che potrebbe, per una serie di contingenze, divenire un giorno anche un reale nemico (e quindi una vittima). Ma questo non è sicuro (all’URSS non accadde mai) né dipende da altri che dalla volontà americana; non certo da quella del comprimario; che oscilla sempre fra la determinazione e la recitazione senza mai scaturire però nella sfida piena.
Così si spiegherebbe anche l’apparente sventatezza delle esternazioni iraniane, che mettono in una condizione un po’ insidiosa lo stesso Iran ma fanno tanto comodo agli americani. E rilanciano prepotentemente – complici i servi nostrani di ogni partito – la teoria artificiale dello “scontro di civiltà”.
In questa forbice fra due opposti fondamentalismi viene compresso ogni possibile risveglio nazionale e sociale. In quest’opposizione viene stritolato ogni accordo politico o energetico che tanto servirebbe all’Europa, al mondo arabo e alle cause dei popoli.
Accettare quest’impostazione ideologica, anche capovolta (ovvero mettendosi dalla parte del fondamentalismo più debole, quello islamico) significa cadere nella trappola che ci hanno preparato.
Questa la lettura “politica” e “contingente” della diatriba. Quanto alla questione della Palestina è, ovviamente, tutt’altra cosa. Ma non nasce adesso e non mi par elegante fare di quell’epica tragedia un pretesto dialettico per interessi oligarchici di qualsiasi origine e natura.

 

 

Noreporter Novembre 2005