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 Il coraggio di un popolo asservito, oggetto di violenza quotidiana e di sopraffazione ininterrotta.
Palestina: il valore incommensurabile di un popolo votato alla morte: o per mano di chi lo calpesta o addirittura per scelta propria, nell’ultima, dignitosissima quanto tragica, affermazione sacrificale.
Palestina: popolazioni che hanno abitato per millenni il deserto e che sono state private di tutto, persino dei granelli di sabbia agitati dai venti notturni sotto lo sguardo lucido e freddo della madre luna, da un’orda improvvisa di colonizzatori che aveva deciso che quella era la sua Terra Promessa.
Palestina: ragazzi che s’avanzano spavaldi, incoscienti, temerari, con le pietre contro i fucili che ne fanno regolarmente strage.
Palestina: centinaia di migliaia di persone che vivono nei campi profughi, affamate, assetate, lerce, private della dignità sociale e di qualsiasi domani, ma che conservano negli occhi la fierezza e la determinazione di chi sa che riuscirà a prevalere perché nessun dio e nessuna giustizia umana può permettere che sia altrimenti.
Palestina: strisce di sangue che si perdono in una scia infinita di morte e di disperazione, ultima traccia atroce ed orribile dei vegliardi, dei bimbi, delle madri, delle spose che hanno terminato la vita con le ossa stritolate e le carni dilaniate sotto i cingoli dei carri dell’Irgun o nell’orgia di sangue compiuta dai mercenari di Addad, agli ordini di Sharon, a Sabra e Chatila, ultima, famigerata, orribile rappresentazione del dramma di nome genocidio già andato in scena in anteprima tanti e tanti anni fa a Deir Yassin, piccola località del deserto resa famosa dal martirio di povera gente inerme.

Israele

Israele: un lembo di terra promessa per pochi milioni di nomadi o seminomadi. Di uomini e donne uniti da riti, costumi, credenze, che li rendono speciali rispetto ai popoli sedentari presso i quali sono cresciuti.
Israele: rifugio mitico e lontano per uomini e donne inchiodati al dramma di un singolare destino, quello di sentirsi diversi e di volersi uguali, uguali agli altri, alle maggioranze di credo cristiano che popolano le lande nelle quali anche loro,  pronipoti di Giacobbe e Giuseppe, sono nati e cresciuti.
E’ questo il destino singolare di chi è geloso della sua specificità ma stanco dell’autoesclusione che questa comporta: e così gli Ebrei erranti, quando non si aggrappano all’ortodossia religiosa,  pretendono, come si dice in Francia, di avere sia il burro che il denaro per comperarlo, ovvero vogliono piena la botte e ubriaca la moglie, il meno ed il più, cioè chiedono  di sentirsi uguali, di essere uguali, volendo restare assolutamente diversi: il che non è umanamente possibile.
Nessuno può comprendere appieno l’assurdità e la complessità di questo paradosso se non le ha vissute in prima persona. Bisogna essere ebrei per capirlo, oppure, paradosso ulteriore, bisogna essere neofascisti.
Perché il destino politico, giudiziario e sociale al quale è andato incontro negli ultimi trent’anni, ha fatto sì che il neofascista si sia trovato a percorrere le medesime tappe dell’erranza giudaica maturando peraltro, nella persecuzione, nella diaspora e nell’emarginazione, una vena escatologica. Con altro credo, con altro spirito, con altro occhio,  ma in un parallelismo straordinario, i neofascisti si sono ritrovati inchiodati essi pure a quest’assurdità, a questo destino bicipite: alla gelosia di una specificità assoluta, fatta di rituali, di miti, di una vera e propria storia sacra, quantomeno resa tale dalla sacralità del sangue, del tutto propria ed autentica, ed all’aspirazione ad essere “normali”, una semplice componente della società.
Negli ebrei, che per giunta sono assai travagliati culturalmente, questo dramma ha assunto i toni della lacerazione per trovare un miracoloso rimedio,  un’utopica soluzione nel mito paradisiaco (e però falso) della lontana Terra Promessa. Israele, dunque, è innanzitutto la soluzione astratta ai problemi d’identità.
Israele: il luogo di raccolta e di ritrovo dei proletari della Diaspora, degli ebrei che non hanno avuto successo in patria, di coloro che vogliono (o almeno vollero) fondare uno Stato, ritrovare l’identità (come se l’identità ebraica non risiedesse proprio nella ricerca, nella non fissità e nella non stabilità), di coloro che sperarono di dar corpo ad un’utopia.
Un’utopia frugale, militare, socialista: l’Israele mitizzato dei Kibbutz, il giardino che doveva fiorire nel deserto e che non è fiorito mai.
Israele: la storia e la cronaca di un fallimento. Di un fallimento politico e sociale, culturale ed ideologico. La storia di un Paese che vive d’indennizzi bellici e di lauti contributi dell’Ebraismo internazionale, delle comunità non israeliane, cioè dei ricchi che non hanno seguito le strade pionieristiche dei proletari e che si sciacquano la coscienza con un’elemosina copiosa ma frustrante ed offensiva.
Israele: la volontà di potenza che, in mancanza d’altro, si fa volontà di sopraffazione, il Paese in cui l’ambiguità di fondo si fa doppiezza, il luogo dove il razzismo (subito) diviene il motore del razzismo (imposto), il luogo dove quelli che erano  deboli nelle comunità e nelle società che hanno abbandonato, divengono forti perché tiranneggiano e massacrano i deboli del luogo nel quale si sono trasferiti.
Israele: l’ennesima trasformazione di un’utopia in tirannide.
Israele: lo strapotere di servizi segreti e di diplomazie che agiscono senza scrupoli e senza remore, insanguinando, alimentando le tensioni internazionali per le vie più sordide e perniciose, seminando e coltivando odi e discordie.
Israele: l’ennesimo dramma, l’ennesima tragedia scaturita dall’assurda idea di un modello multiculturale e multirazziale immancabilmente trasformatosi, così come negli Stati Uniti, in un modello multirazzista, in una cultura cinica e brutale.
Israele: il luogo in cui si esce per sposarsi, per andare in discoteca, per cenare fuori e si rischia di finire dilaniati, vittime dell’odio, della disperazione e della determinazione delle vittime dell’odio.


L’Occidente

Occidente: il luogo delle scelte accomodanti, delle mancate riflessioni, delle ipocrisie regnanti, delle tiranniche convenienze.
Occidente: il dominio del classismo e, dunque, del fastidio per i deboli, per i cenciosi, per gli infrequentabili.
Occidente: l’appendice servile degli Stati Uniti, ovvero di quell’altra Terra Promessa, dove milioni di immigrati hanno sterminato un popolo autoctono, dove un’utopia uniforme, comunista, un’ideologia tirannica da affrancati, ha dato vita ad una metastasi, sociale, ecologica, culturale.
Dove la brutalità impera e dove la sopraffazione è prassi quotidiana, a tal punto che i poveri non hanno neanche diritto all’assistenza medica.
Occidente: il luogo in cui ci si sciacqua la coscienza con elemosine telematiche, dietro un buonismo universale che non corrisponde alla realtà, ossia alla carognaggine ed all’egoismo dei singoli ed alla spietata crudeltà della collettività.
Occidente: il coacervo in cui l’informazione alimenta e rafforza l’ingiustizia, quella propria e quella dei suoi interlocutori privilegiati.
Occidente: il luogo dove mentire in favore del più ricco, del più potente, del più frequentabile è tanto abitudinario da divenire un riflesso condizionato.
E quanto è occidentale l’Italia serva, nei cui media la fermezza israeliana (il bombardamento continuato dei civili o il lancio di missili su di un carcere colmo di prigionieri o su di un furgone carico di donne e bambini) si oppone al terrorismo palestinese  (cioè all’uccisione di soldati durante scontri a fuoco in zona di confine oppure al sacrificio suicida di un uomo deciso ben oltre i nostri criteri umani). Sui giornali le centinaia e centinaia di persone inermi, uccise dai soldati israeliani, diventano così di solito “caduti accidentalmente” cui talvolta si aggiunge la causa: pallottole vaganti. Che vengono da chissà dove, che si agitano, che percorrono l’etere come tafani in prossimità di un torrente…
E’ duro combattere e morire quando si è in inferiorità di mezzi e di  forze, ancor più quando si diviene senza preavviso vittime innocenti ed inermi, ma tutto ciò rientra ancora nelle regole di un gioco, spietato ma pur sempre naturale. Non è accettabile invece che mediocri  parolai neghino sistematicamente la dignità della verità a chi è schiacciato sotto il tallone.
Non esiste un vero e proprio terrorismo internazionale al di fuori della propaganda della Casa Bianca, ma se mai un terrorismo dovesse esplodere di colpo, i suoi primi responsabili, più ancora dei sanguinari tiranni, più dei torturatori, più degli Sharon, saranno i facitori di opinione e d’informazione, i calunniatori di mestiere, coloro che perpetrano l’ingiustizia per conto terzi e che, calunniando a priori e comunque le vittime, le esasperano e le convincono che non vi è altra via se non quella del gesto rabbioso e disperato.
Occidente: il terrorismo della violenza, dell’ingiustizia e della diffamazione.


2.    I valori ed i canoni di giudizio

Giustizia

Giustizia: essere equi, aiutare i deboli, distribuire i beni, le responsabilità, i meriti, impedire i soprusi.
Giustizia: amare il vero ed affermarlo a qualsiasi costo, rifiutare e stroncare la menzogna, specie quella che serve a coprire, a giustificare, a perpetrare i soprusi dei potenti di turno, quelli sì, uguali sotto qualsiasi credo e bandiera, quelli sì appartenenti ad una razza universale.
Giustizia: battersi perché un popolo invaso non scompaia dalla faccia della terra, perché un popolo coraggioso e scalzo veda riconosciuto il suo diritto al futuro e, soprattutto, il suo diritto a salvaguardare il proprio passato.
Giustizia: non strumentalizzare questo sentimento per coprirne altri, per  giustificare così la ribellione, sia pure giusta, ad altri soprusi compiuti altrove dai medesimi oppressori.
Giustizia: non strumentalizzare gli oppressi, facendone un argomento polemico utile in mancanza d’altri ma nutrendo intanto la convinzione inconfessata che si tratti comunque di una “razza inferiore”, ovvero di cenciosi infrequentabili con i quali il solo pensiero di dividere una pizza fa rabbrividire.
Giustizia: battersi per la dignità umana, civile e culturale degli oppressi rifuggendo dal facile ripiego in schematizzazioni ideologiche ed in fossilizzazioni preconcette che si nutrono di odio.
Giustizia: un costoso privilegio che spetta agli uomini franchi, forti, centrati su se stessi, a coloro che si batteranno sempre per una causa santa, senza bisogno di ragioni oblique e mortifere che la alimentino artificialmente.

Istinto

Istinto: quello che precede il ragionamento e che, in persone rette, raramente sbaglia.
Da bambino giocavo agli indiani, li amavo perché i pellirosse erano leali e coraggiosi, parlavano franco e mantenevano sempre la parola data, tanto che in nome di questa si sarebbero fatti uccidere, e difatti si sono fatti sterminare in quanto ingenuamente (che letteralmente significa “di buona genia”) hanno creduto alla parola ricevuta (e puntualmente tradita) da alcuni che prima di altri stavano occupando una Terra Promessa…
Quante analogie con i Palestinesi.
Lo stesso istinto mi fece amare i Sudisti, dignitosi vinti, e detestare i Nordisti tracotanti e brutali, prima ancora di sapere alcunché sulla guerra di secessione. Eppure, quando girarono in una sala parrocchiale il film “Spartacus” tenni per i Romani. E quando, nello stesso anno, i ribelli algerini, certamente non privi di ragioni fondate, si accanirono a sgozzare gli ultimi Francesi, mi trovai ad amare la Francia.
Un paradosso che non merita troppa attenzione ? Credo che indichi invece una capacità innata di discernimento. Col che non intendo fare del mio istinto infantile il metro di misura del criterio critico, ma rilevare piuttosto come nella mente di un uomo le frontiere che esso traccia, o piuttosto, le frontiere che riconosce, siano diverse da quelle che invece il ragionamento, soprattutto quello sistematico, tende a disegnare.

Ragionamento

Il ragionamento è l’effetto di un’elaborazione più o meno accurata di quanto ci viene dettato dall’istinto e dal preconcetto che, contrariamente ai luoghi comuni, non è sempre un difetto rappresentando, in una concezione platonica, spesso una traccia, una reminiscenza dell’anima.
Se non lo si accompagna con uno spirito critico e se non lo si subordina all’intuito, ovvero a quell’intelletto che parte dal cuore e che perciò , è  più logico e limpido di qualsiasi elucubrazione cerebrale, il ragionamento ci porta fuori strada, ci induce a comporre universi immaginari, utopici, dunque sempre ingiusti e perversi. E’ in questo che risiede la follia della Ragione, quella che innalza le ghigliottine e abbatte le teste di chi non accetta di essere livellato.
La Ragione risponde sempre ad un’astrazione che viene più o meno mitizzata e deificata ma che, anche quando ci si limita ad una sobrietà più sensata, fuorvia creando degli artefatti ideologici.

Qual è, in quest’ottica, il rischio specificatamente legato alla passione palestinese ?
La logica, ovvero l’intelletto che deriva dall’intuizione, ci impone di avere  saldamente a cuore la sorte dei Palestinesi perché così vuole la Giustizia.
Questo assunto può, anzi deve, estendersi per analogia, direi quasi per identità di caso, alle centinaia di migliaia di bambini iracheni costretti a morire per la denutrizione o per  l’assenza di medicinali, terribili effetti dell’embargo americano dettato esclusivamente da scellerati interessi materiali.
Il ragionamento lasciato a se stesso ci porterebbe oltre, ma non necessariamente a conclusioni corrette.
Il ragionamento innalzato a Ragione - o a ideologia - tende ad essere onnicomprensivo, a raggruppare tutti i casi, tutte le similitudini, in una sorta di legge economica, politica o morale.
Il ragionamento astratto violenta la realtà, la modifica a proprio uso e consumo e, soprattutto, semplifica ogni cosa fino alla grossolanità. E’ stato questo il disastro del pensiero di Marx.
Per queste debolezze intrinseche, un razionalismo oppositorio rischia di edificare un fronte artificiale, inesistente, tipo quello dei popoli oppressi in lotta contro il capitalismo, l’imperialismo, il predominio americano.
Il che, per farci credere protagonisti ed antagonisti allo stesso tempo, ci suggerirebbe una militanza in un fantomatico arcipelago di Robin Hood.


3. Le conclusioni da evitare e quelle da trarre

Non creiamoci scenari virtuali

Quando si “ragiona”, si sragiona immancabilmente; si perde di vista la realtà che viene allora guardata con lenti deformanti e si fa, dunque, irreale. Col che diveniamo preda e strumento di mistificazione. E ci troviamo di colpo ad esaltare la lotta di un clan o di una tribù, o di una cosca di narcos solo perché, in quel dato momento, ma non un attimo prima né, probabilmente, il giorno dopo, questo gruppo si trova in conflitto con i potenti, specialmente poi se questi sono gli Yankees.
Ci ritroviamo, insomma, ad affidare ruoli improbabili e del tutto immaginari a chiunque sia in qualche modo espressione del disagio in qualsiasi provincia di quell’impero parodistico che è succeduto ai riti olocaustici di Dresda e di Hiroshima.
E ci ritroviamo ad affidare, in una sorta di transfert psichico di piccolo cabotaggio, il nostro sentimento di rivalsa alle gesta di eroi inconsapevoli che non si differenziano minimamente, o comunque non considerevolmente, dai rispettivi antagonisti.

Non basta essere deboli per avere ragione

Essere per la Palestina è a dir poco un dovere, potremmo dire che è addirittura una questione d’educazione.
Essere contro la parodia dell’impero che si fonda sull’edonismo e sul cinismo americano, oltre che un dovere, è pure una questione di sopravvivenza.
E’ questa la ragione per la quale siamo sensibili alle ribellioni, magari epidermiche, che si verificano nelle periferie instabili. Tracciando un parallelo analogico con Roma, dobbiamo però rilevare che se  abbiamo sempre provato solidarietà umana per i massacrati di Uxelludunum, ovvero per quei Galli Cisalpini cui Cesare fece amputare le mani per essersi armati contro Roma o per Vercingetorige, suppliziato dopo una lunga prigionia, è perché, in quei tragici eventi, ingiusta ed atroce fu la decisione del vincitore e non certo perché considerassimo sacrosanta la rivolta galla; nessun sentimento perciò ci ha mai accomunati ai fieri  Celtiberi, ai Parti, agli Ebrei o ai Germani che combatterono Roma in quanto, pur riconoscendone il diritto e le specifiche ragioni, l’Urbs Aeterna era tutt’altra cosa.
Ribellarsi, quantunque sia un’incontestabile prova di fierezza non è un bene in sé: non basta quindi essere vinti per meritarsi un poema immortale.
Così non è sufficiente essere i più deboli per essere i migliori, in quanto non è detto che il più forte sia colui che ha torto e che distribuisce torti. Non va dimenticato che se il modello romano trascendeva, migliorandole, le culture che aveva allineato sotto di sé, quello americano, invece, oggi abbrutisce e livella ogni cosa; ed è questa la ragione per la quale siamo sempre istintivamente solidali verso chi in qualche maniera si dimostra insofferente al suo modello prevaricatore.

Dall’insegnamento della storia le aspettative future

Questo ulteriore ricorso alle analogie ci sia d’aiuto nel delineare le prospettive future.
Simpatizzare per i Somali oggi, sapendo che due millenni addietro non avremmo sostenuto i Cimbri, resta nell’ambito dei giudizi di merito, è si fondamentale, ma non precisamente politico.
La storia, che è maestra di vita, non serve soltanto a farci stilare le liste dei buoni e dei cattivi ma a comprendere come si evolvono le cose, quali speranze sussistano in un dato contesto e quanto non sia assolutamente proponibile perché destinato a certa sconfitta.
E’ accettabile, ma con molta circospezione, l’analogia tra American Global Sistem e Tardo Impero Romano perché molte sono le concordanze: edonismo, crisi spirituale, crisi demografica dei popoli civilizzati, migrazioni di massa, economia transnazionale (si pensi che a Roma si mangiavano agrumi e cereali africani distruggendo regolarmente la produzione italica), superpotenza dominante e convinzione di trovarsi al punto d’arrivo della storia.
Ebbene, se vogliamo stilare questo parallelismo, dobbiamo rammentare che i barbari allora si romanizzarono, primi fra tutti quelli che sembravano minacciare l’Impero, non travolsero né sconvolsero il mosaico di Roma. Caricare sulle spalle dei guerriglieri terzomondisti la speranza di una fuoriuscita dal monolite americano risulterebbe  perciò risibile ed insensato.
Fu invece un insieme di cause, economiche, geografiche, demografiche e spirituali, che rivoluzionò l’Impero e diede vita ad un nuovo stadio della storia, contrassegnata, presso di noi, da cinque o sei secoli di Civiltà medioevale.
Questa constatazione merita di fare da spunto per le prospettive e, soprattutto, per le scelte operative. Consiglierei di prendere nella dovuta considerazione quelle operate in campo organizzativo, economico e politico  che permisero ad una minoranza qualificata ed organizzata (nella fattispecie la Chiesa) di farsi motore rivoluzionario.
Perché l’Impero fu rivoluzionato e divenne qualcosa di assolutamente diverso da quello che era.

Ci ritorneremo perché l’argomento è troppo importante per essere esaurito di sfuggita.
Tornando alla causa della Palestina dalla quale siamo partiti, va sostenuta con entusiasmo perché è una causa di giustizia e perché o la Giustizia è al contempo il fine ed il motore dell’impegno politico oppure quest’ultimo è una parodia, una pubblica messa in scena di un ego torturato ed insoddisfatto, del tutto affine a quello delle culture e dei gruppi oggi dominanti.