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 Così come la rappresaglia statunitense, ovverosia una prova d’orchestra eseguita sullo spartito del genocidio, ha catalizzato ogni giorno sguardi e commenti solitamente favorevoli di centinaia e centinaia di milioni di persone inchiodate davanti ai teleschermi di tutto il Pianeta.
Si è persino detto che da quel martedì 11 settembre tutto sarebbe cambiato.
Non sappiamo se ciò è vero, né se sarà in meglio (in quanto quel giorno tragico segnerebbe l’inizio della fine dell’era americana) o in peggio (perché assisteremmo all’avvio della dittatura trans-nazionale ad egemonia angloamericana).
Quel che sappiamo per certo è che le deflagrazioni sulle due capitali statunitensi (quella ufficiale, Washington e quella effettiva e simbolica insieme, New York) sono state assunte come mito apocalittico da tutte le genti, anche da genti che di miti apocalittici propri ne avrebbero da vendere, da Hiroshima a Dresda a Sabra e Chatila.
E’ pertanto significativo che il discorso di Capodanno del Presidente Ciampi abbia preso avvio proprio da questa tragedia, che in quanto Italiani non ci riguarda nel modo più assoluto. Non ci risulta invece che Reagan vent’anni orsono abbia iniziato il suo mandato citando la strage di Bologna…
Le coppe europee di calcio si sono fermate, il campionato stesso ha subito battute d’arresto e ritardi. Eppure durante la guerra, quando a morire erano soldati e civili Italiani, continuammo a giocare.
Fino al 1943 quando venne invasa metà della Penisola. Ma anche allora, sia a sud che a nord continuammo a giocare.
Ma se ad essere colpiti sono gli Americani è troppo, non si riesce più ad essere stoici e scanzonati al contempo, ludici e guerrieri: ci arrendiamo attoniti, sconvolti dal delitto di lesa maestà…
Perché accade questo ? Perché siamo così condizionati dall’America ? Solo per servilismo o per qualche confusa e radicata affinità ?

La nostra America di celluloide

Tre mesi orsono, nel numero 205 di Orion, trattammo la questione in modo sommario.
Sostenemmo che questa nostra identificazione eccessiva e stonata con i padroni d’oltreoceano trovasse la sua spiegazione nel fatto che da decenni viviamo in una doppia dimensione, in una schizofrenia che oltre che del nostro ruolo di individui reali ci fa anche protagonisti virtuali di una vita newyorchese. Siamo figli delle soap opera e dei telefilm americani, ci sentiamo a casa nostra nella dimensione di celluloide, in quell’ipnosi collettiva sulla quale si basa quel rimbecillimento che ci consente di vedere la realtà come qualcosa di diverso da quell’inferno criminale sul quale si fonda il nostro benessere e da quella degradazione continua che ci avvolge e ci coinvolge.
Così ci identifichiamo con il falsamente rassicurante modello americano e lo nobilitiamo.
Dalla fine degli Anni Quaranta, del resto, per almeno quattro decenni, l’infanzia e l’adolescenza di milioni di Italiani, nella sua salutare ed immancabile fuga nel fantastico, ha trovato rifugio nell’America di tutte le epoche: Pecos Bill e Tex Willer, Topolino e Paperino, Nembo Kid (oggi Superman) e Gordon, Mandrake e Mike Hammer. E migliaia di Western spacciati per poche lire nelle sale parrocchiali dove i tredicenni di tutt’Italia sorseggiavano gazzosa immaginando che fosse whisky e sognavano le immense praterie che si perdevano molto al di là del più lontano orizzonte.
Un modo come un altro di partire per abbandonare le angustie quotidiane di una vita noiosa. Intanto i miti alternativi, forse un po’ più magici e fantastici, parlavano comunque la stessa lingua dei colonizzatori, trasportandoci nella perfida Albione di Re Riccardo e Robin Hood, di Ivanohe e della Freccia Nera, o magari di Peter Pan e di Mary Poppins; ed infine James Bond, i Beatles ed i Rolling Stones espressero l’unica nota non rigorosamente americana dell’immaginario collettivo di fine Anni Sessanta.
L’America (o l’Angloamerica) rappresentò per un lunghissimo Dopoguerra al contempo l’Isola-che-c’è e l’Isola-che-non-c’è: il rifugio mitico di un’alterità un po’ favolosa, una via d’uscita al provincialismo gretto e ripetitivo delle nostre provincie. Sia che lo si intendesse come brivido nichilista, alla Marlon Brando, alla Elvis Presley, alla James Dean, sia che lo si identificasse invece nel buonismo tutto acqua e sapone di Happy Days e di American Graffity.
L’America che sui teleschermi ancora rigorosamente in bianco e nero si presentava come il Gigante Buono, fu l’immagine virtuale di tutte quelle virtù che solo raramente incarnava nei fatti: la più totale eguaglianza, la difesa delle libertà, la predisposizione a comprendere gli altri e la capacità di adattarsi a tutte le occasioni, la schiettezza, l’onestà (!) e la diga contro la barbarie sovietica.
Se i comunisti della prima ora nutrirono un sentimento contrastante nei confronti degli Americani, i loro protettori ed alleati di lunga data tramutatisi in rivali nella corsa allo spazio e nella partita di Risiko in Africa ed Asia, oltre a loro i soli a diffidare degli Yankees si annoveravano tra i fascisti, memori della guerra perduta e dell’invasione subita.
Per tutti gli altri l’America fu la Terra Promessa. In particolare per la generazione sinistrorsa e post-sessantottina che sulle note di Joan Baez e Bob Dylan modellava la sua adolescenza sulle strisce di Snoopy e sull’ironia disincantata di Woody Allen.
L’America, un’America finta nelle sue proiezioni eroiche e nei suoi modelli culturali, un’America problematica e già incrinata nel suo edonismo incapace della sublimazione ellenica del distacco, è stata l’altra immagine della nostra identità. E’ stata la virtualità pura, ma anche il finto nord di una bussola che non abbiamo mai estratto di tasca per cercare la strada.
In altre parole, per via di un peccato di gioventù, tra i quaranta ed i sessant’anni siamo tutti un po’ Americani. O meglio siamo tutti un po’ il frutto di un’illusione, ombre cinesi di un’America vuota e virtuale: ma ciononostante, o forse proprio per questo, l’America ci tocca, magari ingenerando passioni feroci ed odi incondizionati; lo fa e lo farà fino a quando ciascuno di noi non avrà sublimato e posseduto al contempo la fallace immagine della sua giovinezza, lasciandosela definitivamente dietro alle spalle come una zavorra gettata al suolo.

L’America nell’immaginario dei più giovani

Nell’ultimo ventennio le cose sono cambiate.
Prima della grande ristrutturazione capitalista, che possiamo datare dal 1971 agli inizi del successivo decennio, la nostra schizofrenia si caratterizzava da una parte con una realtà quotidiana del tutto indigena (italiana per quanto ci riguarda) e dall’altra con una sfera immaginaria immancabilmente orientata sull’America e dintorni.
Il grande slancio del Capitalismo globale ha invertito i fattori. La quotidianità si è americanizzata mentre l’immaginario ha cercato un altro genere di rifugio.
Già i cartoni animati hanno segnato un cambio di tendenza perché da Mazinga a Capitan Harlock a Dragonball la produzione è stata tutta giapponese. Ma, dato più importante, la ricerca dell’immaginario si è orientata al cosiddetto Fantasy: dal Signore degli Anelli ai Giochi di Ruolo.
I ritmi di vita nel frattempo sono andati americanizzandosi. Per esempio sul finire degli Anni di Piombo si è assunta l’abitudine di mangiare in fretta e spesso anche in piedi,  rimpinzandoci di hamburger di scarsa qualità, condite con salse dai sapori forti e del tutto uniformi, variazioni di colore a parte.
Come aveva brillantemente riassunto Jean Cau venti anni prima allorquando aveva affermato che il ketchup “è quella cosa che gli Americani mettono su qualunque cosa per dare a qualunque cosa il sapore di qualunque cosa”.
Dare a qualunque cosa il sapore di qualunque cosa: perfetta definizione dell’americanismo reale e quotidiano. E darglielo in fretta, e da soli, imbevuti di pregiudizi e di preclusioni, persi nell’incomunicabilità, racchiusi nella prigione individualistica che produrrà di quando in quando anche geni ma mai uomini pieni, mai uomini felici, mai uomini liberi, mai uomini utili, mai uomini creativi. In questo Global asessuato, privo di forme e di identità, nel quale la proiezione dell’Io è diventato il Computer (o piuttosto l’inverso) si è cementata la nostra americanizzazione, la nostra somiglianza per assuefazione ai detentori dell’economia e della forza militare che tengono in pugno il mondo.
Dovremmo dedurne che siamo diventati completamente Americani.
Sbaglieremmo. Se i più giovani somigliano di più agli Americani di quanto si potesse o si possa tuttora dire di noi, a differenza nostra il loro immaginario con l’America ha poco e niente a che vedere.
E poiché non è la Storia a fare la Leggenda ma è la Leggenda a fare la Storia, possiamo azzardarci ad affermare che i più giovani sono potenzialmente più liberi dal momento che nessun cordone ombelicale li lega ai loro padroni.
Saranno probabilmente meno coinvolti di noi in tutto quanto avviene oltre la Rotta di Colombo. Saranno magari anche meno anti-americani di noi, ma perché non sono passionalmente prigionieri.
Insomma, l’America la ignorano o quasi, e ciò ha un valore formidabile per le possibilità di emancipazione.

L’America, impero del Vuoto

L’America dunque, per noi rampolli d’Europa è in qualche modo il nostro stesso Doppio, l’ombra lunga e riflessa della nostra emigrazione, un’aura psichica che ci avvolge, una formidabile irrealtà che s’identifica in una fortissima immagine virtuale.
Se essa rappresenta l’inganno e la continua illusione,  è perché è la Quintessenza del Vuoto, è appunto un’entità vampirica, olografica, e psichedelica insieme che non a caso ha la sede nell’estremo Occidente, ovvero nell’Occaso.
L’America è l’immenso gigante dall’animo volatile che fagocita e deturpa irrimediabilmente qualsiasi cosa, dal costume al pensiero, dalla gastronomia all’ecosistema.
L’America è un vortice, una centrifuga: è l’impero incontrastato del Vacuo, dell’inconsistente, perfettamente rappresentato dallo zotico senza radici e senza cultura che tutto rimastica e stritola come una chewing gum per poi dargli la forma apparentemente allegra e fanciullesca, ma in realtà inconsistente e psicolabile di un palloncino.
La forza e la debolezza dell’America risiedono entrambe nella sua Vacuità troneggiante.
Capirlo è essenziale, e non solo per una speculazione intellettuale ma per dettare le direttrici della condotta futura.
Confrontarsi con il Vuoto è infatti impossibile, così come è impossibile riempirlo: tuttavia il Vuoto sfugge la Plenitudo: ed è soltanto essendo pieni, autocentranti, che si ottiene l’antidoto, che si riesce a resistere con naturalezza e con successo e, ciò facendo, si mette in crisi il grande vortice impazzito e privo di Centro che impazza insaziabile da un meridiano all’altro.
Per risolvere il nostro rapporto con l’America dobbiamo quindi risolvere innanzitutto il rapporto con noi stessi e successivamente – inteso questo in ordine di priorità valoriali e non temporali – quello con i dominatori del nostro Sistema.


La malattia americana

L’America è infatti un gigante malato, in parte decrepito, sbandato, decadente ancor più di quanto non sia barbaro.
Certamente l’America ha delle peculiarità che possono essere oggetto di ammirazione, come ad esempio il dinamismo ed il pragmatismo.
Ma anche queste caratteristiche, a ben riflettere, dimostrano come la Superpotenza d’oltre Atlantico sia il frutto della deriva europea, la costruzione informe e difforme dell’emigrazione più bruta.
Esse infatti null’altro sono se non la cristallizzazione di alcune peculiarità occidentali europee: il vitalismo e la materialità. Queste caratteristiche non orientate da una centralità politica, sociale, culturale, filosofica, si fanno appunto dinamismo e pragmatismo allo stadio puro; qualità che possono anche trovarsi alla base di grandi imprese materiali ma che, nella loro concezione, nella loro attuazione e negli effetti derivati, danno al tutto un aspetto di animalità, di brutalità, di incultura, di insensibilità che farebbe arrossire le orde di Attila e di Gengis Khan dimostratesi, queste,  rapidamente permeabili ai contenuti delle Civiltà che avevano preteso di fagocitare.
Né ci inganni il preteso spirito giovanile dell’America, questo Paese-continente non è affatto fanciullo, è eternamente adolescente, ossia nevrotico, insicuro e psicolabile.
L’America, in attesa che divenga Cinese e Portoricana e che acquisisca così definitivamente un altro surrogato di identità, resta l’altra faccia dell’Europa, quella priva di coscienza, di educazione, di conoscenza, di disciplina, di consapevolezza, di magnanimità.
E’ l’altro capo della corda tesa verso il Superuomo, quello che conduce al Bruto.
L’America è l’Altra Europa, è la nostra malattia: siamo noi privi di centro.
Ecco perché ci scopriamo così spesso Americani.

La crisi dell’identità americana

La sua identità collettiva sta nella Negazione dell’identità, di qualunque identità: ma le sue genti, perse nel caotico deserto dell’American way of life continuano a ricercarne una, forse più ancora di quanto lo si faccia noi che non siamo ancor giunti a un tale livello di crisi spirituale.
Sicché nel Caos dei Caos avvengono anche eventi positivi, forieri di suggestioni e di suggerimenti soprattutto per chi, privo di forti preconcetti, è aperto e permeabile, come i più giovani ed i più sereni.
Tant’è che per un fenomeno strano, talvolta inquietante ma più spesso incoraggiante, eccoci giungere di ritorno saghe e feste dimenticate: dalle favole tradizionali immortalate da Walt Disney ad Excalibur, alle antiche feste celtiche come Halloween (che purtroppo ci torna con l’immagine distorta e inadeguata che le aveva affibbiato un tempo il moralismo repressivo clericale e non con il suo pieno significato spirituale, ma comunque ci ritorna).
Chi si accorge di non essere più nulla guarda indietro, ripercorre la sua storia, cerca il passato.
Non solamente il passato favoloso e fantastico, un passato aoristico, atemporale, ma anche quello delle più antiche radici, medioevali e classiche.
Hollywood nel ricercare modelli etici in un passato recente (vedi la versione di Pearl Harbour) si lascia prendere la mano ed invertendo di 180° la tendenza di fine Anni Cinquanta esalta Roma nel Gladiatore. Un segno dei tempi e del disagio americano, della consapevolezza di una crisi d’identità.
Una crisi che crescerà giorno dopo giorno in un sistema d’istruzione sempre più scarno ed insipido ed in un quadro nevrotico nel quale si mescolano i fanciulli sempre più incolti di tutte le provenienze geografiche, religiosi, culturali. La crisi cresce e si fa irrisolvibile.
Pertanto, nel confronto oramai senza stati d’animo, senza preconcetti, senza preclusioni, senza passioni, tra le giovanissime generazioni europee e quella americana che si fanno adulte, quest’ultima anche se materialmente è vincente è perdente su ogni altro piano.
Priva di riferimenti e di prospettive che vadano al di là della frenesia acritica, orfana di sogni e di modelli, la generazione dei futuri dirigenti americani  in un modo o nell’altro sarà costretta a trasformarsi radicalmente o a cedere il passo a qualcuno che verrà. Già, ma a chi ?
Possiamo ipotizzare che, se non resisterà l’impero mondiale anglosassone fondato sulla rete dei fluidi che pare oggi delinearsi all’orizzonte, gli Stati Uniti dovranno creare un duopolio politico e culturale con la Cina o abdicare progressivamente a favore dell’Europa.
Ma quest’ultima può essere qualcosa di radicalmente diverso dagli Stati Uniti, può intraprendere una politica  antiamericana ?

L’antiamericanismo

Non soffermiamoci alla seduzione delle parole, proviamo ad approfondire: che vuol dire essere antiamericani ?
Esistono tante varianti dell’Anti-americansimo, ma due sole di esse rivestono un valore storico e possiedono una connotazione sociale e politica: quella fascista e quella nazionalpopolare sudamericana.
Superfluo parlare del primo caso che comporta in sé un modello culturale, sociale ed economico scarsamente compatibile con l’imperialismo liberista, con la mercificazione valoriale e con l’abbondanza dell’effimero, e men che meno con l’ipocrisia moralista, ovverosia con il Modello America. Superfluo perché contro di esso gli Stati Uniti hanno condotto una guerra mondiale, un privilegio, questo, che a nessun altro è dato vantare.
L’America Latina dal canto suo è da un secolo il teatro delle scorribande violente dei vicini del nord.
Torture, eccidi, spoliazioni, canali del narcotraffico, ecco quel che i Gringos impongono, sia pure senza grosse difficoltà, vista la peculiarità locale, e lo fanno tramite dittature dinastiche di militari e fazenderos o mediante il governo di democrazie mafiose.
Sicché da cento anni la dignità impone ai Latinoamericani di resistere e questo accade in un quadro tanto complesso e confuso nel quale la lotta di classe, la lotta di popolo e la caratteristica culturale ispanica si diluiscono in una miscela particolare che può essere Sandinista, Castrista o Peronista, laica, cristiana o animistica, ispirata a Marx o a Mussolini o piuttosto all’uno e l’altro più Pancho Villa.
Nel continente iberico essere antiamericani è una necessità fondamentale, quasi come l’antisionismo in Palestina.
Gli altri anti-americanismi sono quasi sempre artificiali od impropri. Rappresentano, magari, il riflesso dell’ostilità verso i potenti e i prepotenti oppure l’effetto di una rivalità tra fondamentalismi eterogenei: quello materialista impersonato dagli Yankees e quello religioso di questa o quella Chiesa, Fede o setta.
Non confondiamo, non prendiamo lucciole per lanterne. Molti anti-americanismi sono limitati, determinati da passioni e preconcetti difficilmente condivisibili. Altri – come quello di tutta la sinistra post-sessantottina – sono la prova di un amore profondo, di un amore non corrisposto che si tramuta in ringhio di riscossa: un grido strozzato da parte di chi in fondo non vuole assolutamente liberarsi perché il supplizio del suo amore ferito è la sottile soddisfazione di un sentimento che non svanisce.
La sinistra andrebbe psicanalizzata.

Essere Europa

Se è corretto sostenere che da mezzo secolo, in un modo o nell’altro, l’America rappresenta l’altra faccia del nostro io, allora è altrettanto corretto concludere che l’Antiamericanismo in quanto tale non ha senso: è come chiudere un’anta di un armadio per aprirne un’altra, non si modifica l’arredamento né l’organizzazione dello spazio.
Essere Antiamericani in Nicaragua e in Argentina, a Cuba e nel Perù significa combattere giorno per giorno contro un avversario tangibile, visibile e prepotente: ben altra cosa da una presa di posizione ideologica e schematica la quale, ogni volta che si fonda sul prefisso ANTI, non produce mutazione antropologica, né culturale, né esistenziale ma soltanto una contrapposizione speculare e dualistica nella quale le due facce dello specchio si fondono confondendosi.
Avete mai riflettuto su quanto si assomigliano un massone e un gesuita ?
E soprattutto vi siete mai soffermati sull’unico e formidabile nemico degli Stati Uniti ?
Ebbene, il fascismo non era a priori anti-americano, fu l’America ad essere antifascista: il che non è una sottigliezza
Ciò è significativo ed esauriente al tempo stesso.
Insegna che non ci si deve rapportare oltre misura al modello imperante ma creare piuttosto un modello: la differenza affiora da sé senza bisogno di essere enunciata in anticipo, il contrario non è possibile.
Bisogna lavorare su di sé, sullo spazio circostante, sul tessuto sociale, sul modello culturale, non per negare ma per affermare, sottraendosi per quanto possibile all’imposizione dello schema duale, quello stesso che facendo di Satana la scimmia di Dio crea un’infinita duplicazione di immagini sataniche e preclude con ciò la via al Sacro, tranne a chi la segua liberandosi dai condizionamenti, per via ascetica oppure sentendo e facendo il bene ovunque si trovi.
Liberarsi dall’America significa perciò meno fare professioni di fede antiamericane che non liberarsi dai condizionamenti di massa. E’ opportuno resistere, fare quadrato, esprimere un’alternativa, ma si deve innanzitutto avere la meglio sul nostro Doppio, uccidere l’Occidente dentro di noi.
Liberarsi dall’America non significa essere Antiamerica, significa essere Europa.

Il Partito dell’Europa

Essere Europa vuol dire differenziarsi, per riscoperta, per autocentratura, per raggiunta consapevolezza.
In questa prospettiva è quanto mai opportuno individuare e sviscerare in tutte le salse i condizionamenti americani di cui siamo oggetto. Da quelli politici a quelli economici – che nel modello liberista poi sono tutt’uno – da quelli culturali a quelli spirituali. Nel farlo ci accorgeremo di quanto siamo Americani, ovvero di come siamo disancorati, futili, tentennanti, e di come cerchiamo di nascondere il nostro vuoto dietro immagini muscolose e moralistiche al contempo che ci vengano fornite da un Potere virtuale ed immanente.
Di quanto, giorno dopo giorno, ci omologhiamo alla demenza di massa, alla banalità, all’adolescenza della psiche, all’ignoranza, all’emotività epidermica ma senza freni, al Dio Cinismo. Anche se in quest’ultimo campo siamo per fortuna molto lontani dall’egoismo yankee per esempio non ci riesce ancora di far morire senza batter ciglio i poveri perché non hanno di che pagarsi le cure mediche.
Ma nel sorprenderci sempre più simili ai cugini d’oltremare scopriremo anche che i cervelli più brillanti dell’imperialismo americano hanno paura di noi.
Che paventano una ripresa europea che vada oltre i confini nei quali si sforzano di relegarla. Che temono la Russia, la Francia e la Germania, che diffidano addirittura dell’Euro ma soprattutto della nostra specificità, della nostra tradizione e della nostra cultura.
Anche di quella politica, nella quale inseriscono persino il filone democristiano e quello socialista, perché troppo impregnati di populismo.
Ci accorgeremo allora che il loro disegno politico è assai semplice: una oligarchia affaristica che regna indisturbata al di sopra di un bi-polarismo di facciata nel quale tutte le valenze della destra e della sinistra si annullano completamente.
Con uno sguardo più attento scopriremo altresì che una serie di correnti attraversano il nostro continente fino oltre gli Urali: e non ci riferiamo solo a correnti di pensiero ma ad una fitta rete di relazioni diplomatiche, strategiche, economiche. Scopriremo così che in potenza esistiamo e siamo formidabili.
E non solo grazie a Putin che da qualche mese sta rimescolando tutte le carte in nostro favore.
E capiremo allora che l’alternativa alla passività sta per noi nel saldare gli spezzoni della spada infranta.
Nel riunire la tradizione e la cultura che, separate dall’avvento borghese prima e mercantile poi, sono precipitate parte a destra e parte a sinistra ed i cui residui si vorrebbe oggi mandare definitivamente in frantumi con il pretesto del pragmatismo più spicciolo.
Urge una nuova sintesi, una sintesi sociale ed etica, qualcosa che sia ben più della somma delle tradizioni socialiste e popolari, conservatrici e barricadiere, ma che sia al contempo il loro recupero al modello originale e la loro sublimazione. Questa Sintesi deve farsi Partito
Un Partito – non nel senso burocratico del termine ma nel senso di una scelta di campo – che sia di destra e di sinistra, un partito che rappresenti la partecipazione popolare, la salvaguardia delle identità, l’affermazione di una volontà di potenza sublimata: il partito soprannazionale ed imperiale europeo.
Il partito ghibellino, sociale, gerarchico e ribelle del prossimo futuro.
Un futuro, iscrivibile nel primo ventennio di questo secolo, che sarà denso di occasioni, di possibilità e, chissà, di sorprese anche esaltanti.