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 Un’era talmente densa di speranze e di utopie da parte di sette magiche e massoniche, che queste ultime l’hanno mitizzata nel New Age, ovvero in una sorta di comunismo aulico, impregnato di una mentalità infantile dalle rispondenze demetriche. Un’epoca che si pretende felice, il cui avvento liberatorio tanto ha appassionato cantori ed incantatori moderni, tra i quali non ultimo il comunque compianto George Harrison.
Forse è significativo che il disastro americano abbia avuto luogo proprio agli inizi di quest’era.
Non siamo impazziti, non pretendiamo che il modesto Armageddon newyorchese sia stato opera di stregoni e fattucchiere né vogliamo sottintendere una tesi più suggestiva, ovvero che gli attentatori si siano ispirati ad un disegno esoterico.
La nostra concezione metafisica è ispirata da una scettica prudenza di eredità romana e pertanto siamo condotti a riconoscere il simbolo, e la realtà sovrannaturale al quale esso si collega, attraverso gli eventi nudi e crudi, senza pretendere con ciò che la simbologia di questi ultimi sia premeditata da mente umana.
I simboli vivono di vita propria e contrassegnano inesorabilmente la nostra storia la quale, a sua volta, per concatenato effetto speculare si fa simbolo del simbolo per chi abbia occhi per vedere al di là del proprio naso.
Ed i simboli ci suggeriscono che l’11 settembre è avvenuto qualcosa di epocale, in grado di rimettere in discussione l’intero assetto mondiale e, specialmente, la centralità americana.

L’11 settembre: un colpo di stato ?

Non solo i simboli.
George Bush Junior non perde occasione per chiamare a raccolta gli alleati affinché lo aiutino a controbattere l’attacco all’America. Ma non specifica mai chi la stia attaccando questa America.
Dà in pasto all’opinione pubblica nomi di comodo, come Bin Laden o Saddam Hussein, ma è assolutamente evidente che non crede affatto alla loro colpevolezza; dà anzi l’impressione di tacere qualcosa di preciso che non può venir rivelato senza produrre instabilità nelle borse, sui mercati e all’interno delle pubbliche opinioni occidentali.
Di cosa si tratta ?
Recentemente l’economista e cospirazionista americano Lyndon Larouche, che gode di notevoli entrature nel gotha statunitense, ha preteso che l’11 settembre avrebbe avuto luogo un tentativo di colpo di stato volto a destabilizzare la Casa Bianca e a costringere gli Stati Uniti ad entrare in rotta di collisione con la Russia. Il tutto avrebbe avuto come obiettivi la ripresa economica tramite produzione bellica e, soprattutto, il soffocamento del rilancio dell’impero moscovita, ritenuto particolarmente minaccioso dagli imperialisti monopolistici, ovvero da coloro che considerano l’America ed il Governo Mondiale come una sola cosa, inscindibile, rispetto alla quale sarebbe impensabile addivenire a compromessi.
Larouche sostiene che i congiurati fossero ispirati da Zbigniew Brzezinski e perseguissero il disegno implicito nelle tesi di Samuel Huntington, ovvero lo scoppio di uno “scontro di civiltà”.
Questa tesi un po’ stravagante è stata confermata dalla rivista americana Strategic Alert.
Non possiamo escludere che la rivista la abbia riportata senza verificarne la credibilità, nella certezza che avrebbe fatto comunque cassetta, ma non si può dire altrettanto del quotidiano inglese Guardian, che può ritenersi il portavoce ufficioso del Premier Blair.
Anche il giornale laburista ha confermato che gli attacchi su New York e Washington avevano dato il via ad un’acuta crisi russo-americana la quale sarebbe stata sventata in poche ore grazie al coordinamento telefonico avviato tra Bush, Blair e Putin.
Costoro avrebbero deciso non solo di non cedere al ricatto ma di accelerare invece la messa in atto di una strategia per l’Eurasia e per il Pacifico assai diversa dalla linea anelata dai guerrafondai. Volendo iniziare la loro entente cordiale con la spartizione del preziosissimo Afghanistan, i tre avrebbero deciso di identificare in Bin Laden il capro espiatorio ideale per giustificare quest’ altrimenti incomprensibile reazione militare all’attacco aereo subito.

Una guerra su tre fronti

La strana guerra in cui ci siamo ritrovati coinvolti un po’ tutti si sarebbe combattuta da allora su tre fronti assolutamente distinti.
Primo fronte: l’opinione pubblica mondiale alla quale sarebbe stata data in pasto e si continuerebbe a dare a bere una serie di fandonie assolutamente prive di fondamento, utilizzando quei metodi di mistificazione di massa già predetti da scrittori come  Brecht ed Orwell.
Secondo fronte: quello militare vero e proprio, esteso ai paesi cerniera nei quali si sarebbe alimentata la guerra civile per assicurarvi un controllo esterno esercitato non soltanto da parte americana ma ad opera di una coalizione di tipo poliarchico, con l’Inghilterra e la Russia nettamente avvantaggiate sulle altre potenze in gioco.
Terzo fronte: il fronte interno, o meglio il fronte intestino. Qui avrebbe luogo la vera guerra fra lobbies e sette, fra componenti oligarchiche,  strategiche e finanziarie di primissimo livello.
E ciò, ovviamente, accadrebbe in sordina ma con una violenza estrema.

Congiure e cortine fumogene

Qualunque cosa sia realmente avvenuta un fatto è certo: una vera e propria cortina fumogena avvolge la crisi mondiale.
Gli attentati all’antrace sono già di per sé assai misteriosi ed indicano inequivocabilmente la presenza di congiurati che uccidono nell’ombra. Le accuse reciproche tra Cia e Fbi, le critiche mosse ai colleghi americani dagli agenti del Mossad nonché una serie di depistaggi accompagnati da chiari messaggi in codice, attestano che i servizi segreti diffidano tra loro e sono tutti sul piede di guerra.
L’impressionante serie di incidenti arerei, di cui sovente sono vittime casuali scienziati e diplomatici israeliani, lascia perplessi.
Lo stesso Presidente americano ogni qual volta si esprime per ricordare che ha intrapreso una lunga guerra al terrorismo non perde occasione per parlare pubblicamente di complotto.
Non di fronte nemico, di complotto.
Gli interessi in gioco ovviamente sono impressionanti.
L’attacco dai cieli è stato sferrato proprio quando aveva inizio una vera e propria recessione economica il cui evolversi avrebbe potuto e potrà comunque condurre al collasso le economie occidentali e dalla quale non saremo verosimilmente in condizioni di uscire senza che vengano apportate profonde modifiche strutturali.
Già, ma quali modifiche strutturali sono possibili ?

La logica su cui si fonda il sistema internazionale

Partiamo dal sistema in generale.
L’economia capitalista dall’ultimo trentennio in poi si fonda sul narcotraffico, sul petrolio e sulla bolla borsistica. La sua stabilità viene assicurata dal controllo capillare dei media e del potere militare da parte di un’onnipotente oligarchia affaristica.
Ecco perché la Cia, la Dea, i Marines difendono e gestiscono la produzione oppiacea nel Triangolo d’oro e per quale ragione sempre loro, gli Inglesi e gli Israeliani si spartiscono o si contendono il Croissant d’or, il Corno d’Africa  e le zone andine.
Tutto il narcotraffico si svolge all’insegna di una particolare deregulation condizionata e sotto tutela.
Dall’implosione sovietica in poi, ma soprattutto durante il doppio mandato di Clinton, gli Stati Uniti si sono eretti al ruolo di arbitri delle mille e mille spartizioni mafiose assicurando che il difficile equilibrio tra le cosche e le gangs di ogni etnia e colore non venisse a compromettere la stabilità generale.
E quando ciò si andava a verificare, la Casa Bianca partiva per una crociata, come fu il caso della “guerra alla droga” condotta da Bush Senior per ridimensionare l’espansione eccessiva nel narcotraffico da parte inglese, israeliana, colombiana e spagnola.
L’america ha così recitato al tempo stesso sia il ruolo della potenza imperialistica che quello del vertice della coalizione del crimine mondiale organizzato.
Per assicurare il proprio primato e la sua funzione di catalizzatore universale, in questi anni l’imperialismo yankee  ha fatto ricorso ad una strategia ben precisa: alimentare tensioni in tutte le cerniere geopolitiche od economiche del pianeta, facendo però sempre bene attenzione a tenerle sotto controllo. Ciò consentiva loro di garantire una stabilità che era la risultante delle tante instabilità locali, per favorire le quali la Cia ha avuto buon gioco alimentando gli odi etnici e confessionali: un divide et impera rivisto, corretto ed applicato ad una cultura camorristica della gestione politica.
I servizi segreti americani hanno così preso ad armare miriadi di gruppi di guerriglieri contribuendo ad alimentare le varie passioni religiose, come la dottrina Huntington chiaramente insegna.

Le ragioni intrinseche della crisi

Nel frattempo la situazione si è complicata.
Innanzitutto la crisi delle economie del Pacifico ha spinto il Giappone sull’orlo di una deflazione e, con l’effetto dell’onda lunga, ha condotto gli Stati Uniti verso la recessione.
Inoltre il pullulare di mafie militarizzate (albanesi, cossovare, cecene ecc.) ha comportato la moltiplicazione della produzione di droga mettendo a rischio la stabilità dei prezzi e quindi dei mercati.
Gli Stati Uniti si ritrovano così oggi improvvisamente immessi in un circolo vizioso e costretti alla necessità di fare fronte ad un vero e proprio rischio fallimentare.
E per poterla fronteggiare  debbono far drasticamente diminuire il numero degli speculatori e dunque limitare i margini di manovra della deregulation del crimine organizzato.
Già, ma come ?

La stabilità nell’instabilità, ovvero l’unità nel terrore

Due probabilmente sono le direzioni verso le quali l’America può avviarsi nel tentativo di risolvere la crisi ridistribuendo ricchezze e quote di potere.
La prima è quella direttamente consequenziale alla linea tenuta dall’amministrazione Clinton.
Essa consiglierebbe di provocare l’acuirsi delle tensioni internazionali fino allo scoppio di guerre convenzionali tra potenze di secondo piano, e ciò al fine di mantenere gli Usa al di sopra delle parti costrette a scannarsi dalla netta ed improvvisa riduzione delle fette di torta da spartire.
Il primato americano risulterebbe così assicurato in una guerra di tutti contro tutti; ma chiunque si rende conto che il rischio di ingovernabilità legato ad una simile opzione è alto in quanto il moltiplicarsi esponenziale e concomitante di guerre, stragi, insurrezioni potrebbe essere assai arduo da tenere sotto controllo anche per una superpotenza tecnologicamente e militarmente senza rivali.
La stabilità nell’instabilità: in questo consisterebbe la scommessa americana e non ci sarebbe da stupirsene oltre misura perché proprio in questo slogan potremmo riassumere le dottrine Brzezinski e Huntington ridotte all’osso. Una formula che tra l’altro dovrebbe suonare in qualche maniera familiare alle orecchie del Presidente Bush perché precisamente in queste parole si condensa il credo specifico della sua loggia di appartenenza, la Skull and Bones, la cui ideologia si sintetizza nel motto “l’ordine è nel caos” e la cui teoria della detenzione del potere è basata sull’instaurarazione di un clima di insicurezza collettiva, proprio come denunciava Eric Werner nel suo “Il dopo democrazia”.

La normalizzazione internazionale

Ma le esigenze della politica finiscono quasi sempre col prevalere sulle credenze dei governanti e, pur oscillando non poco tra l’una e l’altra soluzione, l’Inquilino della Casa Bianca pare orientato verso un’ulteriore direzione.
Il difficile rilancio dell’economia sembra infatti accompagnarsi, nei disegni presidenziali, ad una normalizzazione internazionale, con l’annesso spegnimento anche per mezzo violento dei focolai internazionali più pericolosi, il tutto scandito dallo scompaginamento di mafie di secondo piano e dallo scioglimento di milizie private, e soprattutto cementato da una mastodontica ridefinizione del panorama internazionale.
Il che ha l’aria di avvenire attraverso una negoziazione pluripolare, nel segno di un disegno poliarchico di antica filiazione metternichiana.
E’ l’impostazione propria a Kissinger che torna a prevalere.

I rischi di un conflitto globale

Assistiamo dunque ad un conflitto tra ideologie del potere, tra concezioni dell’imperialismo ?
In parte è così, ma il contrasto non si limita ad un contenzioso tra teorie, l’eventuale affermazione di una concezione rinnovata nei modi suddetti comporta infatti una serie impressionante di rivolgimenti e di ridimensionamenti qua e là per tutto il pianeta.
Il tutto si traduce in tagli per miliardi di dollari e, movente ben più formidabile, in perdita di potere per centinaia di plenipotenziari e per migliaia di funzionari americani.
E si traduce anche in minaccia indiretta per Israele, minaccia addirittura triplice perché una stabilità mondiale impostata su queste direttrici, ridimensionando immancabilmente il ruolo strategico dello stato ebraico  comporterebbe per la Tsal l’obbligo di accettare la convivenza con lo Stato di Palestina (o meglio, con quanto sopravvivrà al tentativo di genocidio perpetrato da Sharon), si ripercuoterebbe automaticamente in una drastica riduzione dei lauti finanziamenti internazionali sui quali si fonda l’economia israeliana ed infine darebbe luogo all’estromissione del Mossad da più di un canale illecito di ricchezza e di controllo militare, qual è appunto il narcotraffico.
Ce n’è di che scatenare una guerra mondiale

La perdita progressiva del centro egemone

E probabilmente proprio una guerra mondiale è in atto. Una guerra che si combatte, come abbiamo visto, su tre fronti distinti.
Tralasciamo quello ufficiale, ad uso e consumo delle masse, per il quale la Civiltà (sic !) si troverebbe a combattere contro Osama, Omar, Saddam e Avantilprossimo.
Sul secondo fronte, quello della geopolitica, le direttrici strategiche iniziano a definirsi.
Pur restando americana l’egemonia, il ruolo assunto dalla Gran Bretagna è sempre più importante. Non soltanto Blair si è mosso fin dall’11 settembre come il vero e proprio alter ego del Primo Cittadino d’America, ma l’importanza diplomatica, economica e strategica dell’Inghilterra in Asia ed in Pacifico in questi ultimi giorni è aumentata a dismisura. Il che si verifica proprio ora che il controllo satellitare ed informatico impropriamente noto sotto il nome di Echelon è in larga proporzione appannaggio britannico. In altre parole l’ideologia Wasp, cui si rifà apertamente tutto il clan Bush, ha finito con il ricreare un ente angloamericano, allargato a tutto il mondo anglofono bianco.
Possiamo perciò sostenere che ci troviamo di fronte ad un notevole paradosso, perché se assistiamo ad un tornante storico che si rivela assai critico per la continuità del processo di omologazione globale, quanto accade rappresenta di converso un passo avanti nella direzione del Mondialismo e ciò per svariate ragioni ma soprattutto perché si denota una perdita progressiva della fisicità del centro egemone.
Il centro difatti si espande via etere e si confonde con Echelon.
Giunti a questo punto potremmo divertirci a teorizzare che la ragione metafisica che ha permesso che le torri fossero spazzate via sia da ricercarsi nel fatto che l’impero ha cessato di essere americano avviandosi verso qualcos’altro di meno palpabile; gli Stati Uniti avrebbero così perduto la giustificazione metafisica per mantenere intatto il proprio segno del comando.
Ed appunto le due torri rappresentano il potere imperiale nella simbologia anglosassone.
L’olocausto newyorchese può dunque essere interpretato come un sigillo al crocevia di un vero e proprio cambio d’era: che si tratti dell’entrata in una dimensione autenticamente planetaria o piuttosto della fine dell’imperialismo americano sarà il prossimo futuro a dircelo.

Il destino dell’Europa nello scenario rinnovato

L’idea stessa che contrassegna il piano di riassetto generale avviato all’indomani del martedì di fuoco sembra proprio quella mondialista.
La strategia di controllo mondiale, sempre incentrata sul primato americano, è chiaramente a vocazione poliarchica, e si orienta verso la costituzione di un direttivo multinazionale.
Questo direttivo è però incentrato su di una scala di rapporti di forze e di valori che presuppongono una gerarchia internazionale, invero instabile, strutturata a spicchi.
Avviene una nuova soluzione chimica: l’imperialismo si globalizza, la globalizzazione si fa imperialistica, il tutto si rimescola in una miscela imperfetta ed esplosiva la cui unica giustificazione resta il Mondialismo primigenio, ovvero la prepotenza anglosassone come espressione dell’Antico Testamento.
Il che, se confermato, comporterà una serie di effetti collaterali di importanza estrema.
Alcuni dei quali neppur troppo sgradevoli.
La modificata concezione strategica e soprattutto la conduzione che ne conseguirebbe significherebbero infatti tra le altre cose anche l’improvvisa possibilità di unificazione e di emancipazione dell’Europa ed il conseguente varo di una politica eurasiatica.
E’ più o meno quanto Kissinger ha affermato a fine novembre alla stampa americana in netto contrasto con la teoria dominante che si fonda sull’assoluto e non ripartibile monopolio americano, sull’umiliazione costante dell’Europa e sul disegno di smembramento della Germania e della Russia.
Va da sé che la concezione europeistica di Kissinger, pur dettata da una sicura soggezione culturale e storica verso il Vecchio Continente, è chiaramente funzionale all’idea di un equilibrio mondiale e mondialista incentrato sulla potenza americana.
La strada che si apre all’Europa è perciò solo quella di una possibile sovranità limitata.
Tuttavia, se paragoniamo quest’ipotesi a quanto era stato preordinato fino alla scorsa estate, ovvero il nostro smembramento in tre o quattro macroregioni costrette ad acute rivalità reciproche, non possiamo non rimarcare che si tratta di un miglioramento perché offre spazi potenziali d’azione niente affatto indifferenti.
Certo, questo miglioramento potrà essere capitalizzato solo se svariate condizioni andranno ad intrecciarsi al momento ed al luogo giusto, ma in ogni caso il repentino riproporsi dell’ipotesi Europa ci dimostra che ogni medaglia ha il suo rovescio e che persino la grande operazione di polizia attuata dall’imperialismo capitalfinanziario ha i suoi lati positivi ed offre, a chi sia soggetto politico, l’occasione per fare di veleno pozione.

Regna ancora l’incertezza

Questo riassetto planetario è però assai lungi dall’essere cosa certa.
Nessuno è in grado di prevedere quello che accadrà effettivamente in seno ad un’oligarchia intimamente scossa da fremiti intestini ed impegnata in una serie di scontri senza quartiere.
Lo stesso Bush sembra oscillare continuamente tra concessioni all’imperialismo classico ed improvvise accelerazioni al riassetto globale.
Un riassetto che potrebbe anche essere controbilanciato fino alla sua effettiva neutralizzazione se non verranno contemporaneamente liquidate le logiche huntingtoniane e che potrebbe essere sconvolto dalla tentazione di fare ricorso a mediazioni sulla falsa riga della gestione clintoniana.
Un riassetto che potrebbe infine risultare seriamente compromesso dalla questione palestinese se una sua errata gestione dovesse provocare l’alzata di scudi delle comunità ebraiche o del mondo arabo.
A conti fatti possiamo tranquillamente sostenere che regna ancora e soprattutto l’incertezza.
Le oligarchie presenti ai vertici del sistema mondiale sono infatti innanzitutto impegnate in un vero e proprio scontro intestino.

Le Torri di Babele hanno generato il caos

Significativamente tutto il dopo torri è caratterizzato da contrapposizioni interne: Afgani contro Afgani, Palestinesi contro Palestinesi, Americani contro Americani. La stessa Trilateral è notevolmente divisa al suo interno e la lite si estende implacabilmente alle comunità ebraiche e ad Israele. La caduta delle Torri di Babele ha seminato ovunque la Discordia.
A scontrarsi sono dei clan, difficilmente riconoscibili gli uni dagli altri.
Interpretando gesti e parole, confrontando strategie ed ideologie, noi possiamo anche riuscire a discernere le tendenze che si contrappongono ma più oltre non possiamo andare perché ci mancano gli strumenti.
Siamo difatti giunti ad un punto in cui si rivela impossibile classificare i vari antagonisti per le singole appartenenze generali. Non esiste più l’unità America, non esiste neppure l’unicità ebraica, tutti o quasi tutti gli attori principali sono massoni, i maggiori protagonisti del conflitto intestino sono membri della stessa Commissione internazionale, tutti rispondono alla medesima logica economica, dunque vivono direttamente o indirettamente dei proventi dell’eroina, del petrolio, delle armi e tengono innanzitutto al mantenimento del sistema oggi in vigore. Eppure si ammazzano.
Se la questione palestinese, quella europea e quella eurasiatica segnano dei veri e propri spartiacque che ci consentono di classificare alla meno peggio le forze contrapposte, non dobbiamo dimenticare che quelle che per noi sono questioni di importanza vitale, per i vari contendenti hanno solo un valore strumentale, tattico o al massimo strategico e non è certo in nome loro che si stanno scannando.
A spingere gli uni contro gli altri è l’urgenza di sfrondare, di ridimensionare, di potare l’albero nel timore che una gelata troppo forte, da tutti prevista ed attesa, lo uccida.
Si massacrano, dunque, perché il bottino da spartire non è più sufficiente, si azzannano per qualche milione di dollari e per alcune quote del potere assoluto: è uno scontro intestino tra gangs di tradizione camorrista, di ideologia anglosassone, educate alla violenza più cinica e brutale, farcita e grezzamente nobilitata da qualche brivido pseudo-esoterico.

Segnali di totalitarismo oligarchico

Lo fanno in sordina, dietro il paravento di una guerra ufficiale, quella contro il terrorismo, e lo fanno talmente bene che è perlomeno arduo riconoscere i contendenti e classificarli per gruppo.
E forse questo è proprio l’argomento centrale del dopo torri. Il potere dopo l’11 settembre si è dimostrato per quello che è: oligarchico, elitario, discreto, posto un piano al di là dalla commedia mediatica e dalla farsa istituzionale.
In altre parole il potere viene esercitato in una dimensione a sé, a noi tutti fisicamente superiore, ed i suoi rituali di conflitto e di morte non si svolgono sotto i nostri occhi. Non perché ce li nascondano, non per via di un complotto, ma più semplicemente perché il distacco tra il popolo e l’oligarchia è divenuto abissale.
Possiamo dedurne che la rivoluzione oligarchica ha avuto pienamente luogo, che la partecipazione pubblica ai destini comuni, ovvero l’ideale socialità greca, romana, ghibellina, socialista, fascista, è stata neutralizzata e soppiantata da una passività omologata. A riconoscerlo è lo stesso Kissinger il quale, sostiene che l’avvenire per l’Europa e per la cooperazione internazionale passa obbligatoriamente per un cambio delle istituzioni con l’abbandono delle desuete teorie democratiche.

Traiamone la lezione

Traiamone la lezione.
La sinistra colonna di fumo che si è sprigionata dalle rovine del World Trade Centre, sgretolatosi come un titano di cemento, vetro e metallo, improvvisamente tramutatosi in una sorta di marionetta inanimata, ha probabilmente contrassegnato un passaggio nella storia dell’umanità: un passaggio verso la poliarchia trans-nazionale senza la quale si verificherebbe il fallimento per bancarotta della civilizzazione dei mercanti.
Come ogni passaggio, esso genera però squilibri e reca in sé le possibilità di radicali e sostanziali modifiche, anche in controtendenza. Il che vuol dire che potrebbe anche trattarsi di un passo indietro del processo di Globalizzazione.
O, comunque, di un passo a lato, dell’abbozzo di uno scenario alternativo, ancora tutto da qualificare.
Ed è proprio il ventaglio di alternative praticabili che deve catalizzare il nostro interesse, molto più di qualunque valutazione di merito relativa alla catena di massacri che non sembra avere più sosta.

L’abdicazione del Popolo e la necessità di un’élite

Ma chi è in condizione di imporre sterzate anche impercettibili ?
Tutto quanto accade ci insegna chiaramente che la partecipazione politica se non è morta è fine a se stessa perché ha luogo esclusivamente all’estrema periferia della Polis.
Tutto quello che conta viene deciso da pochi, anzi da pochissimi; le masse sono consapevoli, magari solo istintivamente, del divario che intercorre tra di esse e le oligarchie e non vedono affatto la necessità e l’utilità di mobilitarsi.
Il popolo sovrano, dopo essere stato detronizzato ha pure abdicato e non ha alcuna intenzione di richiedere lo scettro, né di occupare le piazze e di issarvi le ghigliottine per fare piazza pulita dei plenipotenziari che vivono alle sue spalle.
Prendere atto di ciò dovrebbe indurci alla resa in quanto significherebbe che siamo entrati nell’era del totalitarismo oligarchico e del post-politico. Ma nessun dato di fatto è statico ed immutabile, tanto che abbiamo potuto constatare come le necessità imprescindibili di riforma del sistema aprano la strada a varianti interessanti.
Queste strade potranno essere però imboccate soltanto da élites, di pensiero, di comportamento, di cultura, di scienza e di tecnologia ampiamente dotate di mezzi propri, ovverosia non dipendenti da finanziamenti esterni. Elites di produttori oltre che di artefici e di combattenti.
Un eventuale nuovo ruolo europeo che porti il nostro Continente alla guida dei propri destini e lo metta  in grado di rinnovare, salvandola dall’ estinzione, la mortificata Civiltà, è ipotizzabile realisticamente nel giro di pochi anni. Questo ruolo sarà però assunto da qualcuno soltanto se nel frattempo si saranno formati un’élite ed un Partito Europeo in grado di incidere sugli scenari.

Le direttrici verso cui muovere

Le direttrici verso le quali muovere ci sembrano francamente evidenti.
Per cominciare la formazione di un’élite nel senso pieno del termine (ovvero umano, culturale, tecnologico, finanziario, comunicativo) un’ élite che sia consapevole del potere che le deriverà se riuscirà a creare una dinamica lobbistica particolarmente attiva.
Quindi l’assunzione di una concezione europea che sia attualizzata e al medesimo tempo futuristica, che potrà essere definita e venire caratterizzata dall’intreccio costante di relazioni con la Francia, la Germania, la Russia e la Mitteleuropea, non a livello di minoranze emarginate o di sette ideologiche ma di ambienti portatori di fermenti culturali e politici innovativi eppure ancorati a solide identità.

I nodi al pettine

Tutto questo ci potrà consentire di farci trovare puntuali al tornante storico, all’appuntamento con il Destino.
Un Destino che già ha voluto preannunciarsi in modo tragico e formidabile al momento in cui i pilastri titanici che da un lato rappresentavano vanitosamente l’onnipotenza americana e dall’altro significavano la simbologia usurpata, violentata e deviata delle logge sono andati in fumo.
L’importanza dell’impatto è troppo elevata perché non si possa credere che quanto è avvenuto non abbia ragioni profonde che esulano dalla semplice razionalità umana e perché non si debba immaginare che ciò preannunci un passaggio traumatico di era. A chi si soffermi all’impressione destata dai primi ruggiti della belva ferita questo passaggio suggerisce che oggi si stia verificando un ulteriore rafforzamento dell’oligarchia apolide e liberticida, ma noi abbiamo il sospetto che sia vero l’esatto contrario.
Per ragioni politiche, economiche e persino meccaniche a noi sembra che il colosso sia stato scosso fino alle fondamenta e che oscilli e vaghi senza più dominare la rotta, avviandosi verso soluzioni che si riveleranno sconvolgenti se non rovinose.
I nodi si apprestano dunque a venire al pettine, impariamo ad essere pettine e, soprattutto, ad aguzzare i denti che saranno chiamati a districare i grovigli.