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 Né la Destra Radicale, né le aree di opposizione, né le correnti di partito, né i partiti di governo, né il governo, né lo Stato, né la Nazione e men che meno la gente comune: tutti spettatori e passivi utenti.
Per fingerci protagonisti, per sentirci attivamente coinvolti, ci inventiamo allora delle realtà virtuali nelle quali ci illudiamo di vivere ma che sono quanto mai irrisorie, non perché siano inesatte nelle loro formulazioni ma perché semplicemente e puramente non esistono.
Realtà virtuali anche molto differenti tra di loro, come l’opposizione presunta tra GLI oppressi e gli oppressori, o lo scontro di civiltà, nel quale ultimo scenario finge di svolgere un ruolo lo stesso Berlusconi tanto da provarsi con un bagno di piazza, assai asciutto peraltro, a cancellare lo scotto subito per via delle porte sbattutegli in faccia dai premiers di Paesi che a differenza del nostro contano ancora un po’, ossia la Francia e la Germania o contano di nuovo parecchio, come l’Inghilterra.
Estromesso e ridimensionato, il Primo Ministro ha cercato il rilancio, la conferma di esistere, dalla sceneggiata di piazza, proprio come fanno i no global.
Tentativi patetici che accomunano nel disancoramento, nell’emarginazione e nell’esclusione da qualunque possibilità di decidere qualsiasi cosa, l’ultimo e più isolato militante estremista di questo o quel colore ed il primo ministro di una nazione industrializzata.
La tragica soap opera di New York, Washington e Kabul ha dimostrato inequivocabilmente e definitivamente che a decidere sono in pochi e che tutti gli altri, non contano alcunché.
Possiamo strascinare i piedi, imprecare o digrignare i denti; oppure possiamo accettare di eseguire di buon grado e senza fare domande quel che ci viene ordinato di fare: a questo si riduce l’alternativa di chi non faccia parte dell’oligarchia dominante o non abbia ancora saputo formare un’élite.
L’unica variante è quella del servo zelante ed ossequioso che spera di ricevere una carezza dal padrone. In questo purtroppo molti nostri compatrioti sono maestri e Berlusconi, grande interprete degli impulsi grezzi delle folle, il 10 novembre ha messo in scena il ruolo dell’italianuccio piccolo piccolo come non sarebbe riuscito neanche ad Alberto Sordi.

Vu sciuscià ?

Il film messo in scena è stato magistrale nella recitazione ma scadente nei suoi effetti.
Non si capisce poi cosa abbia spinto Berlusconi a commettere il più classico degli autogol e ci sbalordisce che per la seconda volta, come all’epoca in cui cercò di imporre la depenalizzazione dei reati di corruzione e concussione, abbia dato acriticamente ascolto allo stesso perfido consigliere, l’agente doppio Ferrara che sembra destinato al ruolo di Gran Sabotatore, quasi fosse un infiltrato altrui.
La scelta effettuata è stata a dir poco disastrosa. Perché un governo non può permettersi di portare in piazza un numero di sostenitori equivalente si e no ad un settimo di coloro che  contromanifestano lasciando visibilmente semivuota la storica Piazza del Popolo. Perché una coalizione di governo non si dimostra intelligente se si arrocca acriticamente e massicciamente su di un’unica posizione allorquando i suoi avversari, nel classico gioco delle parti, le coprono proprio tutte: dall’americanismo, al bellicismo condizionato, al pacifismo al filo-talebanismo. E lo è vieppiù in quanto non può ignorare che una parte della base militante e votante della Casa delle Libertà è dichiaratamente antiamericana.
Ma disastrosa questa scelta lo è soprattutto perché il comportamento del Cavaliere sembra essere stato tenuto apposta per confermare quel che di lui dicono i suoi detrattori, ovvero che non ha la statura per governare.
Quali che siano i sentimenti in proposito, non si può infatti non rimarcare che il politico di Arcore ha oltrepassato i limiti della decenza, del buon gusto e delle forme.
Nessun Primo Ministro, foss’anche di un Paese del Terzo Mondo, si permette di andare in giro sventolando bandiera straniera né di chiudere una manifestazione cantando l’inno americano.
Quali che siano le motivazioni, la realizzazione in atto ha il sapore della prostituzione: è come se non ci si sapesse più liberare dalla sindrome servile dell’otto settembre.
Una sindrome servile che ci rende nani in tutto il mondo e che ci fa oggetto del disprezzo internazionale. Dai Capi di Stato ai Magistrati agli ultimi secondini di tutte le nazioni europee siamo considerati, non senza ragione, come una Repubblica delle Banane.
C’è perciò da dubitare addirittura che la stessa diplomazia americana abbia gradito una prosternazione così evidente, e se a motivarla è stata la bramosia di recuperare punti nei confronti dei troppo riluttanti Chirac, Blair e Schroeder, nulla si poteva fare di più errato. Se le Nazioni che costoro rappresentano partecipano anche più attivamente di quanto noi invece si sproloqui allo sforzo militare americano, esse lo fanno nel rispetto e nella salvaguardia della dignità nazionale. Ed è così che ci piacerebbe avere, o se vogliamo, subire una classe dirigente. Una classe dirigente che faccia magari tutto quello che noi non vogliamo, che ci faccia disperare per i suoi misfatti etici e politici ma che almeno non ci costringa ad arrossire di essere Italiani.

Deliri vari

Tralasciamo le commedie vergognose e torniamo all’aspetto politico e psicologico che ci deriva dalla crisi afgana.
Parlavamo di realtà virtuali nelle quali e grazie alle quali alcuni si illudono di ritrovarsi e di assumere un ruolo, sia pure soltanto quello del tifoso entusiasta.
La prima delle ipotesi che ha preso piede, quella dello scontro di civiltà, permette a chi lo voglia di inalberare un occidentalismo più o meno dichiarato che si arricchisce di tutte le fobie e di tutti i pregiudizi della borghesia media.
E’ in questo spirito che alcuni parlano di difesa dei valori occidentali contro il pericolo musulmano, valori come la famiglia.
Che si tratti di famiglie pluridivorziate e fondamentalmente sgangherate che si riflettono nel modello american-berlusconiano delle varie Dinasty, Beautiful, Twin Peaks, poco importa.
Tanto poco conta la verità rispetto all’immagine che ci facciamo di essa che si è giunti addirittura ad esprimere solidarietà agli Americani perché…fratelli di razza ! Testualmente.
Che si stia parlando, invece, del Paese cosmopolita per eccellenza, della Potenza che sta multinazionalizzando il mondo non conta.
Nulla conta in realtà, a tutti è concesso delirare e fare del proprio delirio una quasi verità.
Nel pieno di uno scontro di cui non comprendono nulla e del quale nemmeno individuano gli attori, tutti hanno così la libertà di dipingersi un quadro su misura, del tutto personale.
Sicché i devianti a destra di  un ambiente che deriva da ben altra cultura hanno potuto e possono godere per interposto torturatore, immaginandosi perfino che si stia combattendo un conflitto fra razze, fra religioni, fra civiltà. Ma, posto che se anche fosse questo il caso non si vede comunque cosa ci sarebbe da acclamare in tal senso in America, il peggio è che ciò non è vero nel modo più assoluto, non accade alcunché di similare al delirio nel quale si perdono e si beano tali estremisti borghesi.
Ma non meno fuori strada sono i devianti a sinistra i quali immaginano uno scenario rovesciato: una sorta di crociata, o dovremmo dire di mezzalunata, dei poveri, dei deboli, degli oppressi, contro LO sfruttatore.
“Bisogna prendere coraggiosamente posizione !” dicono costoro, ed intendono chiaramente che si debba stare dalla parte di Bin Laden, dei Talebani, dell’Islam.
La differenza rispetto ai loro antagonisti è certamente morale, perché altro è solidarizzare con centinaia di migliaia di inermi affamati e bombardati ed altro è plaudere al terrorismo dei bombardieri, altro è fremere per i vinti, altro per gli impuniti, i tracotanti, i prepotenti.
Politicamente però il loro delirio vale quello di coloro ai quali si contrappongono.
Non esiste questo scontro di civiltà, di religione, di razza, di classe, di nazione. Quel che avviene è un’operazione di ristrutturazione imperialistica in grande stile, compiuta sul modello proprio a tutti gli imperialismi militar-mercantili, ad iniziare dalla Lega Delio-Attica.
Ma sul campo si scontrano tribu, etnie, clan della medesima cultura, dell’identica religione e nessuno di essi gode del sostegno incondizionato di confratelli. E’ una bufala, tutto qua.
Ci spiace per gli inguaribili romantici che sognano una Sherwood a tutte le latitudini ed una solidarietà tra tutti i Robin Hood. Qui al massimo si tratta di Montecchi e Capuleti, i quali beneficiano alternativamente dell’aiuto del Padrone.

Né Usa né Islam

Più sensato è il tentativo compiuto dalle teste pensanti, quello di opporre un’alternativa europea alla dialettica perniciosa che ci viene imposta dall’ 11 di settembre.
“Né USA né Islam” è la parola d’ordine che è stata sussurrata o gridata, suggerita o affermata.
Lo ha fatto Terza Europa prima di ritrovarsi schiacciata da via della Scrofa per la scelta infausta del comizio americano. Lo ha detto anche Rauti e con lui quel che rimane della Fiamma militante, lo ha ripetuto il Fronte Nazionale ma soprattutto lo ha gridato Forza Nuova che ha indotto una manifestazione a Roma ad una settimana dal vergognoso sabato di Piazza del Popolo.
Il gesto di sfida è stato coraggioso ed in ultima analisi vincente: fatte le dovute proporzioni (uno a venti è più che onorevole) i forzanovisti non solo hanno retto il confronto con le destre americanizzate ma hanno reso dignità alla piazza romana a sette giorni dal corteo dell’onta.
E non possiamo, tutti, che essergliene grati.
Anche in questa scelta, però, le forzature non sono potute mancare. Non si può difatti contrapporre l’ Islam – che non esiste come unicità culturale, cultuale, politica e neppure spirituale – agli Stati Uniti. E’ come se cento anni fa per affermare la propria indipendenza qualcuno avesse affermato: “Né Inghilterra né Cattolicesimo”…
Una forzatura, comunque, obbligata perché è difficile dare un nome, una definizione, un volto a quest’ ALTRO DALL’OCCIDENTE che si è condensato mediaticamente e psicologicamente come un ectoplasma ma che non ha alcuna caratteristica propria, nemmeno il presunto antagonismo con gli Stati Uniti che non è affatto quella caratteristica comune e generalizzata che si pretende.
Soprattutto però il problema sta nel fatto che a poco o nulla serve il manifestare in piazza.
O meglio, è molto utile se si ragiona ad uso interno: motivazione della base ed arricchimento del CV propagandistico; ma all’esterno del microcosmo non serve minimamente, l’efficacia delle forme politiche dipende infatti dalla loro correlazione con il contesto, il metodo e lo spirito del momento.
Tutte le condizioni per rendere efficace l’azione di piazza oggi mancano, ma tanto da parte governativa, che imita la maggioranza silenziosa, quanto da quella degli oppositori è palese la nostalgia degli Anni Settanta.

Addio Anni Settanta

Gli Anni Settanta sono però lontani secoli luce. In piazza allora si scendeva per due ragioni, spesso addirittura collegate.
Innanzitutto per manifestare massicciamente, contribuendo a dare una vetrina ed una visibilità a lotte quotidiane che venivano condotte dai Soviet o dai Cuib(uri) e che erano spalleggiate nel Paese, sia politicamente che sindacalmente (magari da abbozzi di sindacati pararivoluzionari) che mediaticamente: era insomma la sintesi spontanea, prima ancora che voluta, tra situazionismo, trozkismo, gramscismo e leninismo. O più semplicemente, alla faccia degli intellettuali,  si trattava del trionfo del volontarismo organizzato, che aveva un’eco, ed un fascino, in tutta la Nazione.
Oppure si andava in piazza per scontrarsi contro i simboli e le truppe della società borghese.
Una logica da guerra civile: eravamo infatti cresciuti nell’ atmosfera della guerra civile, eredi della guerra civile e la stessa epopea di quegli anni si sarebbe conclusa in una guerra civile senza sbocchi, a parte quelli esistenziali.
Oggi nulla è comparabile ad allora: in piazza ci si reca come le sinistre inglesi o americane, si va cioè,  in tutta l’impotenza delle minoranze che non contano, a manifestare isolatamente il proprio dissenso, perché di null’altro si tratta: non vi sono infatti lotte quotidiane di cui la piazza fornisca il palcoscenico ed il termometro, non vi è alcun complesso di forze che interagiscono intorno ad un obiettivo, né vi è logica di guerra civile, se non nei patetici scimmiottamenti dei no global.
I tempi sono cambiati e con i tempi gli uomini.
I giovani neofascisti allora cooperarono con gli Ustascia, si recarono a combattere in Libano ed in Afghanistan, andarono un po’ ovunque all’avventura. I giovani ultracomunisti strinsero rapporti attivi con gli Irlandesi ed i Palestinesi e si spinsero a combattere in America Latina. Si narra che all’indomani del golpe di Pinochet decine e decine di militanti rossi si siano informati sulle possibilità di raggiungere le file della resistenza trozkista in Cile.
Ci risulta che qualche anno fa quando si sgretolò il mosaico jugoslavo il massimo dell’impegno verso la Croazia da parte dell’estrema destra italiana sia stato l’invio di medicinali. Né ci pare che la crisi afgana abbia mobilitato chicchessia. Segni dei tempi.
Sia politicamente che emotivamente non vi è correlazione tra quegli anni e la realtà di oggi, ragion per cui le forme che erano valide o comunque sensate ieri, adesso sono pressoché vuote di contenuti e prive di prospettive.
Non potendo fare di meglio, del che non facciamo una colpa a nessuno, i più testardi ci provano abbarbicandosi alle forme conosciute e gliene rendiamo merito perché tutto ciò ha comunque valore.
Temiamo però che dettino legge i riflessi condizionati e che non sia estranea una proustiana ricerca del tempo perduto.

Siamo in servitù

Siamo fuori dai giochi.
Non noi come Destra Radicale, come neofascisti o quel che si voglia, ma noi come società civile; e lo saremo fin quando non apprenderemo il nuovo gioco.
Ovvero fin quando non riusciremo innanzitutto a comprendere quali forze - sociali, culturali ed economiche – dettano le regole e quali sono queste regole, che non conosciamo ancora bene e che sicuramente non padroneggiamo, per poi  finalmente produrre un soggetto in grado di partecipare al gioco, sia pure ad un livello ridotto di incidenza.
Ragion per cui riguardo alla pseudoguerra in corso dobbiamo mantenere il massimo distacco emotivo cercando esclusivamente di comprenderne le ragioni e soprattutto gli effetti, come farebbe un medico al cospetto di una nuova malattia.
Così lo scorso mese abbiamo riepilogato le ragioni economiche di questo conflitto, dall’oppio al petrolio, alla risposta alla recessione tramite economia di guerra, al rilancio della spesa militare statunitense. Abbiamo provato anche ad identificare le ragioni strategiche che muovono l’Amministrazione Bush, dalla nuova Yalta del Pacifico al controllo delle fonti dell’energia europea. Abbiamo infine tentato di riconoscere i singoli scontri che si celano dietro il paravento della crociata anti-Osama, scontri israelo-americani, americano-americani, con tanto di contorni inglesi, russi e cinesi.
Tutto questo, ammesso che sia esauriente, non ci serve a molto se non a soddisfare la nostra curiosità.
Più utile, e più allarmante, ci pare invece l’analisi che abbiamo operato sulla globalizzazione psicologica che questa crisi sta producendo sulle nostre coscienze, con tanto di pericoli reali che essa comporta.
Abbiamo additato come insidie, forse impossibili da sventare, le possibilità di un intervento centralizzato ed  autoritario da parte americana sui beni di chiunque, in qualunque parte del mondo, nonché l’instaurazione di una Giustizia Sommaria Transnazionale.
Ebbene, come per farci il verso, il 15 novembre Bush si è messo a proporre che in futuro qualsiasi “sospetto” di simpatie terroristiche (cosa vuole dire ?…) sia processato in America, a prescindere dalla sua nazionalità, tramite PROCESSO SEGRETO e con LIMITATE GARANZIE DIFENSIVE !…. Eccoci giunti alla fine della Civiltà Giuridica Romana, cioè della Civiltà.
Abbiamo l’impressione che pochi abbiano colto quel che gli effetti della crisi afgana stiano realmente producendo, ossia: la liquidazione della libertà giuridica, delle Sovranità, sia pur limitate, e, soprattutto, l’acquiescenza collettiva nella mansueta accettazione di un padrone.

Un “pactum subjectionis”

Pochi anni fa, nel 1998, Eric Werner  anticipava i termini della questione attuale.
Nel suo “L’anteguerra civile”, edito a Parigi da “L’Age de l’Homme”, riferendosi ai Greci l’Autore ricordava come nelle Eumenidi Eschilo spiegasse che  “la comunità scopre se stessa unendosi contro l’esterno, contro i nemici della Polis”. I Cittadini dimenticano così le passioni che li contrappongono per non pensare ad altri che al nemico comune che odiano. Odiano per potersi amare tra di loro “E’ un grande rimedio fra gli umani” dicono le Eumenidi.
Dicono i Greci, e con loro il Werner, che se la Polis è unita e le sue istituzioni sono forti, la guerra viene condotta contro l’esterno, ma che se la Polis è debole o sottomessa la guerra scoppia all’interno: guerra civile, guerra tra fazioni.
E’ lo scenario degli Anni Settanta, quello di una Nazione sottomessa e scatenata in passioni fratricide ed in pulsioni titaniche ed eroiche.
Dovremmo allora convenire che oggi le cose sono migliorate ? Che l’assenza di guerra civile e la designazione di un nemico fuori da noi (i Musulmani, i Terroristi Internazionali) sarebbe il segno di una ricomposizione sociale e di un riscatto politico nazionale ? Niente affatto. Il Werner anche in questo caso ha anticipato quel che oggi si sta verificando.
Lo ha fatto citando Hobbes ed il suo “patto d’assoggettamento”, teoria secondo la quale tutti rinunciano d’improvviso ai propri diritti originali per trasferirli nelle mani del Principe: è questa stessa rinuncia SPONTANEA che crea il Principe.
Ed è esattamente quello che si sta verificando. Collettivamente stiamo sottoscrivendo un pactum subjectionis nei confronti di un Principe Transnazionale. Per dare credibilità, lustro ed illusione di compattezza a questo nostro tentativo di accomodamento alle circostanze, crediamo allora di vivere una guerra esterna alimentando i deliri di crociate antimusulmane: insomma speriamo di compattarci con un artificio. Ma poiché di artificio si tratta, ricadremo rapidamente ed inesorabilmente nella logica della guerra civile (che guarda caso è quella in cui versano i Paesi in cui avvengono le operazioni militari, come l’Afghanistan).
Soltanto che, a causa della nostra americanizzazione sociale ed istituzionale ed a causa della mancanza di potere e di autorità indipendenti, si tratterà di guerre civili di seconda classe e senza vie di uscita tra minoranze etniche e sociali che convivranno, e soprattutto con-morranno, nell’assoluta vacanza di Polis e di Civiltà.
Questa è, a mio avviso, la chiave principale di lettura di quel che accade: il nostro assoggettamento volontario ad un potere transnazionale ed il riconoscimento de facto e de iure di una realtà sociopolitica assai inquietante che è allo stesso tempo criminale, prepotente, spregiatrice delle forme, oligarchica e negatrice di qualsiasi possibilità partecipativa.
Criminale nella sua essenza e tradizione, perché è figlia dei grandi mafiosi, dei grandi trafficanti di droga e degli usurai che hanno assicurato il trionfo dell’America dei gangsters e perché sulla droga, sullo sfruttamento, sul terrore basa la sua leadership mondiale.
Oligarchica e nemica di qualunque partecipazione collettiva e talmente arrogante ed incolta da calpestare ogni giorno di più tutte le forme del vivere civile.
Sono proprio le forme giuridiche e procedurali, i limiti invalicabili dettati dal rispetto – soprattutto per chi viene sconfitto – a contrassegnare la differenza tra Civiltà ed Inciviltà. Ed è nel secondo elemento che ci siamo da tempo addentrati, con il rischio sempre maggiore di raggiungere il punto di non ritorno.

Con le Twin Towers è stato polverizzato
 ogni spazio di libertà

Le Twin Towers sono forse il simbolo del nostro pactum subjectionis.
Assoggettamento indiscusso ed acritico nei confronti di un potere banditesco, esercitato nella violenza assoluta, nella totale assenza del rispetto umano, in nome del profitto ad ogni costo e mediante l’arma della mistificazione martellante.
E che vi sia assoggettamento spontaneo lo comprovano l’ipocrisia e la voluta cecità di tutta la massa rispetto alle mistificazioni quotidiane che accompagnano gli eventi, caratteristiche strenuamente sfoderate per poter assicurare l’accettazione più incondizionata alla teoria che le Twin Towers giustifichino ogni violenza, contro chiunque sia.
Che per stanare un qualsiasi Bin Laden nascosto si lancino migliaia di tonnellate di bombe su di un’ intera Nazione; come se per vendicare Falcone e Borsellino il governo italiano si fosse messo a bombardare Palermo perché non riusciva a catturare Totò Riina.
Che si falcidi e massacri ininterrottamente una Nazione ed al contempo le si inviino aiuti umanitari.
Che le dimensioni ed i colori dei pacchi di aiuti paracadutati siano esattamente eguali a quelli delle bombe a grappolo sulle quali si maciullano coloro che immancabilmente le scambiano per viveri.
Il che rientra nella tradizione terroristica americana: non dobbiamo infatti dimenticare che durante la guerra i “liberatori” hanno lanciato ovunque migliaia di finte stilografiche, finte bambole, finti giocattoli che esplodevano al momento di raccoglierli, massacrando o mutilando così migliaia di bambini ingannati diabolicamente.
Ma tutto questo ci sta bene, fingiamo di non capirlo, purché qualcuno ci assicuri di continuare a svolgere senza preoccupazioni un’esistenza contrassegnata da inappagata ed inappagabile brama gaudente (perché in quanto brama non può divenire gaudio) e da disordine mentale ed esistenziale.
Come da cultura assimilata nel Dopoguerra.
Insomma l’oligarchia transnazionale, mafiosa, narcotrafficante, stragista e liberticida ha un consenso di massa, una larga base che è disposta ad accettare la modifica del sistema politico e l’eliminazione degli spazi di libertà e degli strumenti di partecipazione.
Questo significa che non è praticabile, oggi come oggi, un’azione politica classica in quanto la gente non ha alcuna intenzione di ascoltare, non vuole aprire gli occhi e, soprattutto, domanda di affidarsi completamente e spensieratamente alla conduzione del più forte.

Interagire con la situazione rinnovata

Il che significa che non c’è altro da fare se non prendere atto della situazione desolante ?
Niente affatto. Ogni modifica di scenario, per quanto appaia stabile e definitiva, è sempre e soltanto transitoria. Non è con uno stato d’animo condizionato dalle sirene della speranza o della disperazione che si devono affrontare le cose, ma nell’assoluta e più fredda imperturbabilità.
Bisogna perciò prendere atto della modifica in atto ed indirizzare i nostri sforzi verso metodi e forme che si adattino alla realtà sociopolitica che si va modellando.
Una realtà sociopolitica che si caratterizzerà presumibilmente di conflitti intrasistema, di scontri intestini mascherati e celati all’opinione pubblica. Scontri tra mafie e gangs e quindi scontri tra lobbies, scontri tra categorie di interessi. Chi non apparterrà ad una qualsiasi di queste realtà sarà tagliato fuori da tutto, soprattutto in politica laddove potrà oscillare tra il destino del dissidente esotico e quello di Una Bomber.
Non vi è possibilità di sottrarsi a questo squallido avvenire, salvo un’implosione del Sistema, implosione che ci avvierebbe anch’essa ad un livello di degrado e di imbarbarimento non inferiore a quello cui ci destina il consolidamento della Dittatura Transnazionale.
Vi è però la possibilità di interagire con la situazione rinnovata.
Innanzitutto qualificando ad ogni livello (tecnico, metodologico, culturale, finanziario e politico) la minoranza della quale facciamo parte affinché da essa emerga un’ élite. Nel senso pieno della parola, ovverosia gente scelta per opera di una reale e continua selezione che sia, nel suo intero insieme, guida ed esempio. Il che significa che rispetto alle consuete forme propagandistiche, più che la visibilità va privilegiata la sostanza, un lavoro costante, continuo, anche se opaco ed ingrato.
Quindi mantenendo una presenza reale nel mondo dei Sudditi, in controtendenza rispetto a tutti gli altri soggetti politici, ideali o identitari che probabilmente, una volta liberatisi dagli orpelli dovuti all’obbligo annoso di accontentare le proprie basi, si compiaceranno della loro nuova dimensione differenziata e si beeranno in essa e di essa.
Coniugare il senso di élite (in opposto a quello di oligarchia, loggia o cosca) con la socialità (in contrapposizione all’atomizzazione): qui sta la prima chiave.
La seconda sta nella ricomposizione del tessuto civile che si va scomponendo.

Concepire la Polis

Infatti il pactum subjectionis istituzionalizza la fine della Polis non solo perché trasferisce una volta per tutte le sue prerogative ad un Principe Predone ma in quanto trasla la sua essenza ad un’espressione virtuale ed artificiale di essa. La MacroPolis – quella occidental-transnazionale che trova il suo mito fondatore nelle Twin Towers (ovvero, significativamente, nella disgregazione di un colosso a duplice struttura, esattamente com’è la società borghese nel suo intimo essere) – vive perciò come soggetto collettivo soltanto in virtù della sua falsa opposizione nei confronti di nemici invisibili e pertanto non resisterà a lungo ma sprofonderà rapidamente nell’accettazione della totale barbarie interna.
Quel che resta da fare in controtendenza, ma seguendo le possibilità reali, è, perciò, POLITICA nel senso letterale ed oramai smarrito del termine: ovvero formare e governare la Polis.
Ebbene, cos’è la Polis ?
Essa è l’espressione armonica dell’interna struttura sociale, parola questa che se presa letteralmente scopriamo comprendere innanzitutto i concetti di affinità e di alleanza. La struttura sociale da che Civiltà è Civiltà si fonda su tre elementi: la Famiglia, che è alleanza di sangue, il Clan che è alleanza di famiglie e la Tribu che è alleanza tra clan. L’Alleanza delle Alleanze si chiama Polis.
Insieme alla qualificazione delle élites, questa è la strada da percorrere nel micro e nel macrocosmo.
Ad un occhio nemmeno troppo attento non può difatti sfuggire come nel microcosmo culturale nel quale ci troviamo a vivere, la tendenza sia tuttora IMPOLITICA.
Difatti anziché l’alleanza o la pura e semplice tendenza ad unificarsi mirando all’essenza, continua a regnare la Discordia.
Esistono infatti dei Clan politici ma le Famiglie politiche che vi fanno parte si contrappongono tra loro più spesso di quanto in realtà collaborino. Qui e lì affiorano tentativi di espressione tribale (tali sono infatti i partitelli nazionali e le correnti di partito dell’estrema destra, il che non è affatto detto in tono dispregiativo perché chi scrive non è vittima dei noti pregiudizi linguistico-ideologici). Questi conati di Tribu sono a loro volta contrassegnati da discordie interne tra Clan e Famiglie e da liti esterne perché ciascuna Tribu pretenderebbe di rappresentare la totalità della Polis.
Ma la Polis è Comunanza di Natura e di Destino ed è la generale incapacità di discernere quale sia il secondo che spinge i più a mettere speciosamente in discussione la prima.
Ebbene proprio qui sta il punto: riconoscere e ricollegare il SENSO DI APPARTENENZA con il riconoscimento di una COMUNITA’ DI DESTINO.
In questa formula magica non sta soltanto il recupero dello smarrito speso specifico da parte di un’area non omologata ma l’alternativa possibile e praticabile all’informe uniformità dittatoriale che stiamo assumendo acriticamente.
La Polis, dal suo ancoraggio locale, regionale, etnico, alla sua sublimazione su dimensioni estese, mediante vocazione imperiale in un’idea forza che personalmente ci ostiniamo a denominare Europa, offre la via d’uscita all’assoggettamento al Crimine Organizzato.
Tertium non datur.