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 Ogni individuo invece assiste alla rappresentazione virtuale di una realtà per molti aspetti  immaginaria e, quel che più sorprende, è che vi entra costantemente in dialettica impersonando nella commedia insensata della quotidianità il triplice ruolo di spettatore, di tifoso e di giurato.
Quando poi si alza dalla poltrona dimentica assolutamente tutto ma conserva l’impressione di essere stato un protagonista.
Le decisioni intanto vengono prese ad un altro livello, ben più alto, da poche persone e ci vengono trasmesse in modo codificato: non le comprendiamo subito ma, alla fine dei giochi, le accettiamo come scontate e spesso senza neppure averne preso coscienza.
Ragion per cui possiamo tranquillamente dire che oggi la storia viaggi a due velocità: quella reale, in continuo sommovimento, che viene gestita, letta, interpretata dalle oligarchie e quella virtuale di cui abbiamo un’impressione lineare, stagnante, offertaci dai media allineati nel compito di codificazione e di stravolgimento di verità scomode, media il cui impegno, chiaramente pilotato, è inequivocabilmente volto ad eccitare di tanto in tanto ma a cloroformizzare per la maggior parte del tempo i sudditi consumatori lasciandoli galleggiare nello stagno dell’immobilità in preda alla totale illusione di essere ancora protagonisti.
Possiamo dunque affermare che il potere è appannaggio di pochi e che la massa è asservita?
Non lo possiamo, lo dobbiamo.
Il che non deve indurci in troppo facili errori consequenziali. Innanzitutto riguardo a quei “pochi” che, contrariamente a quanto certuni fantasticano, non sono dei superuomini né i depositari di chissà quale potenza occulta bensì sono gli strumenti di un’era storica, di una costruzione culturale e di determinati rapporti di forza oggi in atto.
Infine che questa situazione di passività, di assoggettamento dei più nei confronti di pochi sia definitiva, irreversibile, quindi non destinata a modificarsi dai successivi processi della storia.

I diversi gradini del potere

Abbiamo più volte espresso, anche su queste colonne (1) che il potere si esercita a tre livelli.
Il primo livello è rappresentato dai centri nevralgici del gigantesco complesso global-capitalista.
Esso si compone dei principali organismi trans-nazionali a natura privata che condizionano, fino a determinarle, le politiche mondiali (Bilderberg, Trilateral, Cfr ecc); dai consessi internazionali non istituzionali che regolamentano l’economia e la politica planetaria (Wto, G8, Fmi, Banca Mondiale, branche dell’Onu ecc.); dal potere spionistico-satellitare con quel che ne scaturisce come potenzialità di controllo politico e militare, di veicolazione e filtro delle informazioni, di dominio dei mercati.
La costituzione stessa di questi centri nevralgici del potere mondiale tradisce una serie di requisiti essenziali: essi sono privati, di clan, oligarchici, trans-nazionali e al di sopra delle istituzioni.
Si tratta, dunque, di un potere che fa e disfa senza dover rendere conto più di tanto del suo operato.
Gli interlocutori con i quali negoziare, o da rabbonire, o da raggirare, si situano infatti su tre piani:
a)    i residui poteri nazionali (in India, Iran, Israele e Giappone) o nazional-imperiali (in Russia e in Cina, potenzialmente in Europa, in quasi tutto il Commonwelth)
b)    le grandi centrali trans-nazionali private d’influenza (crimine organizzato, mafie, massonerie e chiese)
c)    le opinioni pubbliche. Le quali, in realtà contano ancora ma sono facilmente ammaestrabili grazie all’azione operata dai filtri informativi che sono al servizio del più forte.
Il secondo livello di potere è quello istituzionale o meglio ciò che ne rimane in Paesi, quale il nostro, che non posseggono l’autonomia ed il valore contrattuale della Francia, della Germania o dell’Inghilterra né sono al momento parte integrante di un potenziale imperiale.
Chi vi abbia accesso ha solo due direzioni operative (carriera ed arricchimento personale a parte che, a quanto sembra, rappresentano però le finalità maggiormente perseguite). La prima è la scelta del campo di subordinazione. Salvo farsi i fatti propri e basta, si può, difatti, o militare per un partito europeo aggregandosi al carro francese, tedesco e russo o allinearsi in un partito antieuropeo ed anti-italiano prendendo ordini dagli americani e dai britannici. La seconda è un’azione di piccolo cuneo: si tratta di reperire e destinare fondi e quote di potere locale a favore di determinate battaglie sociali e culturali e a discapito di altre, a vantaggio di amici e a svantaggio di nemici; o, nel migliore dei casi, per finalità giuste e di comune interesse.
In ogni caso si evincono due verità scomode: la prima è che il potere istituzionale italiano è poca cosa, tanto che gli scontri governativi hanno il valore dei conflitti delle amministrazioni condominiali; la seconda è che si tratta comunque di battaglie di basso profilo che non sono seducenti né motivanti. Interesse privato, ovviamente, a parte: perché in questo le motivazioni sono fortissime.
Il terzo livello riguarda le amministrazioni locali; con l’avanzare della globalizzazione assistiamo ad un contemporaneo rafforzamento, per contrappeso, del localismo.
Nella sfera locale, ricca peraltro di patrimoni valoriali, memoriali e folclorici, è possibile raggiungere parte dei filtri di comunicazione (stampa locale, radio e catene cittadine, giornali gratuiti ad ampia distribuzione). A questo livello è consentito recuperare le connessioni con la società; connessioni che, del resto, sono forse destinate ad essere recuperate proprio dal naturale evolversi della situazione. È un livello, quest’ultimo, che riveste un interesse primario proprio per le potenzialità che offre e che, tra l’altro, per l’interrelazione dei fattori, può persino rivelarsi efficace a lungo termine nella ricomposizione delle strutture dominanti dopo le inevitabili crisi di passaggio, presumibilmente imminenti. Ma questa è un’altra storia.

La sfiducia nel domani è figlia di gravi errori d’impostazione

Abbiamo così delineato una spettrografia sommaria del potere; ora però dobbiamo trarne le conseguenze.
L’impressione generalizzata, che coinvolge sia i ribelli ghettizzati, sia i nuovi carrieristi politici, sia gli stessi elettori medi, è quella di un’inutilità di fondo dell’azione politica. A che pro dannarsi l’anima quando tutto è scritto e quando, comunque, le decisioni vengono prese da pochi e a vantaggio di pochi ?
L’impressione si basa su dati di fatto ineccepibili ma conduce fuori strada in quanto:
1)    essa proviene dalla percezione della storia e della politica dal basso ovvero dal piano dei sudditi ai quali pare che non accada mai niente, tanto da non essersi nemmeno resi conto dei grandi rivolgimenti avvenuti nell’ultimo quarto di secolo in ogni ambito umano.
2)    Non considera i soggetti in gioco dal punto di vista geopolitico, economico e culturale.
3)    Non prende atto delle difficoltà di percorso dell’intero sistema.
4)    Non considera affatto le conseguenze che varie scelte comportano (la globalizzazione comporta il localismo, la bolla speculativa comporta il post-capitalismo ecc.)
5)    Non si fonda su di una precisa autocritica. Tutti, dai ministri agli ultras, dovrebbero, infatti, compiere un bagno di umiltà ed ammettere che si ostinano a confrontarsi con la realtà che muta mediante clichets adatti a situazioni oramai desuete, virtuali, inesistenti. Dal che, e solo per questo, ogni atto politico porta oggi chiunque a stringere soltanto un pugno di mosche.

Come tracciare la propria strada

Nostro intento è proprio quello di tracciare una strada diversa, di definire il nuovo approccio politico alla realtà in trasformazione. E, nel farlo, partiamo da un postulato: gli uomini che non si paralizzano da soli finiscono immancabilmente per tracciare la propria strada, per compiere la propria opera, per edificare la loro città. A patto di seguire le regole meccaniche e metafisiche che regolano l’universo.
Il che, se è vero, ci deve pur insegnare qualcosa. E cioè che se la politica è oggi paralizzata davanti al potere oligarchico è perché non è vera politica, ossia non è espressione al contempo della Polis e delle forze che ordinano il mondo. Ovvero, rovesciando i termini della questione, il potere attuale, antipopolare, classista, clanistico, impolitico, è forzatamente in qualche modo in armonia con le dinamiche storiche mentre la politica non lo è più o forse non lo è ancora.
E noi, allora, cerchiamo di recuperare quest’armonia e di farlo da avanguardie, anticipando, cioè, i tempi in evoluzione: ma di pochissimo, quasi d’un soffio.

Le direzioni verso le quali puntare

Partiamo dalle questioni che ci appaiono nodali.
1)    Gli scontri geopolitici (che sono anche potenziali scontri di civiltà, ma non intesi nell’accezione huntingtoniana). Da tempo andiamo identificando le svolte dell’avvenire planetario (imperiale, imperialistico o frammentato in aree di neobarbarie). Abbiamo ravvisato, in parte perché abbiamo voluto ravvisarlo ma anche perché in realtà esiste, un potenziale risorgimento europeo o eurasiatico al quale, ultimamente, Putin ha inferto un colpo di acceleratore. A questa tematica che riguarda il vertice stesso del sistema mondiale ci stiamo dedicando da tempo; specialmente con le firme di Petraroli, Lazzeri e Ricci e, ultimamente, con l’apporto esterno del gollista francoromeno Jean Parvulescu. Come mito mobilitante, ma storicamente realizzabile, abbiamo quindi scelto l’Impero eurasiatico.
2)    Gli scontri materialistici. All’interno di un’oligarchia che è nutrita di materialismo in quanto è il prodotto delle grandi famiglie del crimine organizzato, imbevute tra l’altro di cultura marxista, esistono e sussistono vari campi di scontro (essenzialmente concernenti la valuta, il petrolio ed il narcobusiness). E la questione, se marxianamente impostata, va oltre perché ci troviamo in presenza di due fenomeni emergenti e destinati a scuotere la classe dominante: la rivendicazione di un ruolo egemone dei tecnici rispetto ai gestori della finanza (2)  e l’avvento di nuove classi dirigenti, espressioni di culture terzomondiste che modificheranno tutti i dati del sistema. Ad un conflitto geopolitico al vertice va dunque sommandosi un insieme di conflitti intestini (geografici, culturali e funzionali) che sembrano destinati a produrre una serie di aperture e che comunque introducono delle incognite sul domani di un capitalismo arrogante ed impazzito.
3)    Gli effetti socioeconomici. L’attuale andazzo del capitalismo trans-nazionale conduce ad una sempre più accentrata concentrazione delle ricchezze, dunque ad una proletarizzazione progressiva delle borghesie, dunque ad un impoverimento, dunque alla necessità di concepire nuove forme di economia sociale. Quanto più, difatti, si divaricherà la forbice tra vertice e base, tanto più i diseredati che abbiano una cultura generale, familiare e sociale su cui fare perno, avranno la tendenza ad organizzarsi da soli in gruppi solidali, incentrati sul luogo e sulle tradizioni del luogo, rigenerando così un’economia spontanea, cooperativistica e corporativa. Fondata, tra l’altro sul recupero e sulla valorizzazione del lavoro, in particolare di quello manuale, che l’attuale rapporto falsato nei confronti del capitale ha svalutato artificialmente. Personalmente lo ritengo un esito quasi scontato e le voci che mi sono pervenute di esperimenti in tal senso testé improvvisati in Argentina non fanno che confortarmi nella mia ipotesi.

In conclusione

Una forza che si rispetti, non può prescindere dall’articolare il suo operato sulla base delle questioni di fondo e non può non giocare tutta la propria posta sulla sua capacità d’indovinare l’evoluzione delle cose.
Non è questo il luogo di discutere sulla morfologia che una forza politica, parapolitica e metapolitica è chiamata ad assumere nell’era in corso, per ciò rimandiamo alla lettura di altri nostri scritti. (3)  Quel che ci pare essenziale, tanto per terminare questo excursus sommario, è rilevare due concetti fondanti:
1)    non è possibile costituire una forza, né affermare un’identità ancorata nella realtà e protesa verso il futuro, se non si coniugano tra loro i diversi piani dell’alternativa agognata: ovvero, allo stadio attuale, l’idea imperiale e la concezione delle autonomie locali: perseguendo l’una e le altre assolutamente nel medesimo tempo.
2)    La situazione attuale non è affatto proibitiva; è anzi alquanto promettente, forse più di quanto lo sia mai stata negli ultimi cinque decenni. È però fondamentale riuscire ad interpretarla, sapervi far penetrare adeguatamente lo sguardo, essere capaci di adattarvi il proprio operato e, soprattutto, giungere ad esprimere un’alternativa che tenga nel dovuto conto le dinamiche storiche. Che sono contemporaneamente di espansione spaziale (da cui – ma ovviamente non solo da questo- consegue la scelta della concezione imperiale) e di compressione locale (da cui il localismo e la progettualità di economie sociali che colleghino luogo e lavoro e rilancino il vettore artistico, artigianale e naturale in alternativa alle crisi deformanti del golem globalizzato).
Coraggio.

(1)    cfr Orion 202, luglio 2001 e il nostro “Nuovo ordine mondiale, tra imperialismo e Impero” ed. Barbarossa, luglio 2002
(2)    cfr Galimberti “La dimensione umana e le sfide della scienza”   
(3)    cfr Orion 202, luglio 2001 e il nostro “Nuovo ordine mondiale, tra imperialismo e Impero” ed. Barbarossa, luglio 2002