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Il Che si ritrova ovunque: stampato sulle t-shirts della borghesia più annoiata, dipinto nei pins, tatuato sulle braccia del miliardario Maradona, stampato sugli striscioni delle tifoserie che si pretendono orientate a sinistra. Emblema di una trasgressione formale, di un nostalgismo scialbo, il Che viene ucciso ogni giorno da quella borghesia decadente contro il cui strascicato dominio di classe aveva deciso, egli, indomito leone, di ruggire e morire.

Lo aveva ucciso una prima volta la reazione rozza e feroce che vestiva la casacca dei militari boliviani. Lo ha poi iniziato ad uccidere una seconda volta, senza mai smettere di commettere il crimine, facendone scempio, il tifo del popolo “progressista” che con la rivoluzione del Che nulla, ma proprio nulla ha in comune.

E intanto, controcorrente, discretamente, con delicatezza, molti di coloro che avrebbero dovuto odiarlo hanno maturato una passione per questo condottiero.

Il Che infatti aveva affascinato ancor prima della sua epica morte, e cioè sin dal tempo in cui si era messo in viaggio verso l’utopia più impossibile, molti di coloro che  a sinistra non avevano alcuna intenzione di militare, che stando alla logica dei clichets che impera nella società dello spettacolo, e, quindi  nello spettacolo della politica avrebbero dovuto essere i suoi più accaniti nemici,.

Oggi che i tempi sono cambiati sono in tanti, tra quelli che hanno scelto di tifare per l’ultradestra, a detestare visceralmente il guerrigliero perché in un’ottica speculare con i centri sociali, non possono non disprezzare quel che gli altri incensano. Se tu dici a io dico b, se dico b, tu dirai c: una stupidità diffusa e oramai persino comprensibile.

Allora però che le passioni erano vive e non virtuali, il Che fece breccia nei nostri cuori. Fece breccia ispirando a uno dei più acuti e brillanti pensatori dell’estrema destra francese, Jean Cau, il magnifico “Una passione per il Che”, un libro che in esilio fu tra i preferiti e più riletti di Walter Spedicato, il quale, d’altronde, provava per il Che una passione non certo inferiore a quella di Cau.

Aveva fatto breccia immediatamente dopo la sua barbara uccisione nei cuori dell’allora fascistissimo Bagaglino che produsse persino un 45 giri veramente double face. Conteneva da una parte “Il legionario di Lucera” e dall’altra “Addio Che”.  Spiegava, il Bagaglino, nel retro copertina, la ragione che l’aveva spinto a rendere quest’omaggio a due figure così opposte in apparenza: la loro identità esistenziale. E il testo della canzone dedicata a Guevara conteneva delle farsi che dicevano tutto. “La gente come te non crepa nel suo letto, non muore di vecchiaia…” e ancora “Non eri come loro, dovrai morire solo, addio Che !”.

Il Bagaglino aveva centrato la ragione reale, cioè la stima e la simpatia esistenziale, che spingeva tanti nemici politici del Che animati da un fuoco ideale, ad esserne ammiratori incondizionati.

Negli anni immediatamente successivi, ad alimentare la passione eterodossa per il Che, di motivazioni ne intervennero altre, assai meno valide. Per certuni che provavano un senso d’inferiorità nei confronti della sinistra, che allora era mediaticamente e militarmente dominante, e qualche senso di colpa maturato per i retaggi del fascismo costantemente demonizzato, il poster del Che rappresentava una sorta di uscita di sicurezza, una tappa esteticamente accettabile nella strada per il rinnegamento di sé. Per altri il riflesso fu di genere opposto. Il Che non era comunista – dicevano costoro – perché la sua vita nega il materialismo in quanto è incarnazione di un’etica guerriera. Se i primi erravano, nel senso letterale della parola, i secondi si sbagliavano perché il Che era comunista. Aveva combattuto ed era morto da comunista, dando, certamente, al comunismo un senso diverso, spesso opposto, rispetto alla stragrande maggioranza di coloro che si orientavano all’utopia rivoluzionaria, nobilitando quanto i più hanno insozzato.

Era però sicuramente comunista, e ciò a dispetto di un aneddoto che si raccontava all’epoca. Il Che, si diceva, qualche settimana prima di essere catturato aveva rifiutato di concedere un’intervista ad un inviato dell’unità. “Ci sono tre buone ragioni per non concedergliela -  si raccontava avesse detto Guevara – perché è giornalista, perché è comunista, perché è italiano”.

In realtà, sempre che l’aneddoto abbia un fondamento, va letto altrimenti da come ci piaceva all’epoca intenderlo. Il Che era in marcia per la guerra rivoluzionaria, per l’affermazione titanica di un’utopia latinoamericana, in conflitto con le nomenclature ufficiali del comunismo. Innanzitutto contro Mosca – che secondo alcune versioni ne avrebbe deciso e pianificato l’eliminazione per tramite di un comunista boliviano – e persino contro la Cina, allora alleata oggettiva della politica estera degli Stati Uniti.

I comunisti italiani, per tradizione togliattiana, erano le jene da guardia del regime sovietico ed era per questo, probabilmente, che il Che li detestava e ne diffidava.

È pur vero che il Che non ottenne grandi appoggi dalle sinistre mondiali allorquando egli, guerrigliero argentino che aveva rivoluzionato Cuba, aveva deciso di abbandonare una tranquilla poltrona ministeriale per andare a tentare il destino in Bolivia nella prospettiva di portare il fuoco di una rivoluzione continentale.

In preparazione dell’impresa si era rivolto a tanti governanti e uomini politici non allineati, tra i quali si trovavano fior di comunisti. I quali, però, lo disattesero molto più di coloro che comunisti non erano e spesso erano addirittura anticomunisti convinti. Era così tornato dal giro d’orizzonte per paesi potenzialmente amici stringendo un pugno di mosche. I soli che lo avevano ascoltato ed appoggiato in qualche modo erano stati il suo compatriota e politicamente “opposto” Peon che si trovava all’epoca in esilio in Spagna, il dittatore spagnolo Francisco Franco e il presidente algerino Boumedienne. Per il resto il vuoto.

“Non eri come loro, dovrai morire solo…” 

Il Bagaglino, animato dalla sensibilità immediata degli artisti, colse quindi la ragione vera che avrebbe fatto del Che una figura cara per molti dei suoi nemici politici, per tanti ammiratori di Mussolini, di Pavolini, di Skorzeny . 

Il suo andare incontro alla morte praticamente da solo, senza prospettive possibili, in nome di una passione, rinunciando ad invecchiare da ricco e potente in una poltrona ministeriale.

Tutto questo fece per noi, allora, del Che un nobile guerriero, un esempio. E per me lo è ancora.

Per capire lo spirito atipico, spartiata, del Che, ecco alcune sue citazioni, tratte dal sito http://biografiaonline.it

«Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza.»

 «Il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d'amore.» 

«La vera rivoluzione deve cominciare dentro di noi.»

 «Il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi.».

Alla quale ne aggiungo una, particolarmente significativa, che cito a memoria e che recita più o meno così: “Rivoluzione è trasporre nella vita di tutti i giorni i valori della guerriglia”.

Come vedete l’essenziale è detto. Poco resta da aggiungere se non che si può amare un comunista così senza fingere che non fosse comunista. Siamo abbastanza forti per questo.

Lo si può amare perché in un mondo di sonnambuli amiamo chi vive d’un sogno.

“Hasta siempre, Comadante Che Guevara”.