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La tecnica, la potenza atletica, il coraggio, la versatilità, la comunicativa, l’intelligenza, l’alacrità, la tenacia, l’inventiva, l’estro, sono qualità sulle quali si determinano delle selezioni naturali corrispondenti a diversi ambiti. Non appena si entra in confronto con gli altri in un campo preciso, la selezione si effettua automaticamente. Rubbia non è Kakà e facendoli ruotare entrambi scomparirebbero, ma Rubbia non si metterebbe in competizione con il brasiliano su un terreno di gioco né questi lo farebbe con il premio nobel nella sua scienza.

Un mondo politico ghettizzato diventa una sub/cultura: in questo genere di ambiente le gerarchie si determinano al contrario: chi ha tempo da perdere, chi riesce poco nella vita, chi non ha interessi erotici perché imbranato, chi non sente responsabilità, mette radici. Gli altri hanno altro da fare. Chi strilla più forte, chi afferma le banalità più ottuse, emerge. Il massimo cui si può concedere dignità in questo quadro è la gerarchia del cazzotto.

 

Attivi o recalcitranti

 

Non torneremo qui sulle date d’ingresso nel cul de sac (che corrispondono sorprendentemente all’avvento della teoria dello spontaneismo) e su quelle dell’iniziale fuoriuscita da esso (nascita del bipolarismo). Quel che è importante notare è che, da quando si è iniziato a fuoriuscirne in poi, progressivamente, si sono venute differenziando delle minoranze creatrici, costruttive, attive, efficaci; magari non conciliabilissime fra loro (come Osa ed Eurasia) ma certamente affermative. Il resto del post/ghetto ha intrapreso e mantiene con esse un rapporto forse più cangiante che ambiguo: oscillante tra l’entusiasmo, la curiosità, la rabbia, la dissacrazione, la lode e la diffamazione. Alcuni di questi atteggiamenti sono imperdonabili ma comprensibili in quanto frutto di un’inerzia sociologica, di una psicorigidità e di una vera e propria mancanza di educazione. Difetti che vengono da lontano e non portano da nessuna parte.

 

Portatori di handicap

 

Va da sé che il primo problema sta nell’isolamento. Volendosi “dannati” (come si è in effetti per alcuni ma non per tutti, non comunque per la maggioranza) ci si condanna al gioco di ruolo imposto dalla logica del sistema e si gioca ai piccoli belzebù. Dal che emergono almeno tre handicap maggiori: l’alienazione, la sclerosi ideologica e la mancanza di verifiche reali. Ne scaturisce un surrealismo che si condensa in cristalli astratti il cui avvento datiamo ai “testimoni di Evola” e ai tanto decantati Campi Hobbit.

A questo punto subentra la prima e principale devianza sottile dell’idea-forza (e della mitologia) di riferimento. In quanto del fascismo che era “la chiesa di tutte le eresie” si è fatto un insieme di dogmi: più morali e comportamentali che ideologici, dogmi accompagnati da anatemi, da scomuniche, da bolle, nello spirito esatto del suo contrario. Ciò che era interventismo si è trasformato in inerzia, ciò che era spregiudicatezza in vacuo puritanesimo.

 

Individualisti

 

Paradosso imperante: la cristallizzazione del fascismo in ideologia morale non solo ha comportato una violenza allo spirito più ancora che alla lettera della fonte di riferimento, ma si è condensata in una lunga scia di antifascismo strutturale, nata a fine anni Settanta sulla base di un supervitalismo individualista (in molti casi essenzialmente borghese) e di un complesso d’inferiorità a sinistra. Un binomio che si è coniugato con l’inconfessato, e in certi casi inconscio, desiderio di uscire dal ghetto: non per conquista degli spazi fuori dal recinto ma per accettazione da parte altrui, dunque per prosternazione.

 

Quel baratro sottile

 

E qui c’è una sottile linea rossa, che solo pochi hanno colto, fra due diverse versioni di innovazione. Quella che animò Terza Posizione, ad esempio, era una volontà di rifondazione, di riformulazione, di attualizzazione di canoni e criteri, quella che spinse alcuni singulti anarcoidi (e che poi venne mutuata con altro spirito da parte della nuova destra italiana e da certe componenti “postnucleari” nate alla fine della gran repressione) fu la rivolta contro la Forma (qualsiasi forma) e contro il gene. Nulla di tanto nuovo: già per gli Elleni la via titanica poteva condurre all’Eroe (riconoscenza della natura celeste, dunque della radice in alto, dunque dell’appartenenza, dunque dominio contro la ubris) o far sprofondare agli inferi. Nichilismo creativo (in qualche sorta jungheriano) o nichilismo (auto)distruttivo.

 

Non prima la teoria, per piacere

 

Per capire (letteralmente da capio) questa differenza sottile ma enorme è però necessaria una vera e propria esperienza esistenziale e la capacità, che però non è universale, di riconoscere almeno in parte le valenze metafisiche in atto. In mancanza dell’una o dell’altra si può sopperire con un senso dell’ oggettività (che a sua volta non può non essere presente in un auto/ghetto perché accettare l’evidenza significherebbe negarne la necessità di continuarne l’esistenza). Se si assumesse questa capacità di oggettivazione la si smetterebbe di premettere all’azione formule astratte da imporre categoricamente e da difendere più strenuamente del Graal, ma si comprenderebbe che è proprio come è condotta un’azione, come è veicolata, come se ne traggono le conseguenze, ciò che dà vita ad una formula innovativa. L’inverso non esiste: è storicamente infondato. Ogni grande innovazione è una sintesi, ed è una sintesi più intuitiva, attiva, interventista che concettuale. Il concetto serve a spiegarla poi (l’analisi è al servizio della sintesi). Il seme che dà il frutto è tutt’altra cosa; o se ne è portatori o non lo si è.

 

Le ultime vittime della democrazia

 

Viceversa si continua a mettere sotto accusa tutto quanto infine, nuovamente, funziona. Ciò accade in nome di formule che sono estrapolate dal loro contesto e magari incensate quando si rivelarono disastrose mentre sono impietosamente discusse proprio quelle produssero dei cambiamenti radicali se non delle vere e proprie rivoluzioni (parliamo del Ventennio ad esempio).

Le si accusa di “moderazione” (ovvero di possedere il senso del modus, della maniera, della misura) in quanto, poiché reali e non vagheggiate, hanno fatto i conti con la realtà, cosa che mai capita ai teologi di ghetto.

A dettar legge in questo continuativo tribunale (nel “dagli a chi produce”) sono l’individualismo e il rifiuto del Canone, di qualunque canone, dell’ (auto)disciplina, dell’umiltà, della forma, in altre parole dello spirito di militia. Smarriti i criteri e rifiutato, per (anti)criterio, di accettare tutto quanto ci mette in riga, la massa residuale del ghetto si divide oggi in due principali categorie: quelli che seguono in modo informe ed acritico, assembleare, da “orchetti”, un partito e quelli invece che sputano veleno su tutto e tutti. In ambo i casi, per quanto il primo sia ancor da preferire al secondo, emerge in tutta la sua portata il pregiudizio democratico contratto da un’area che si vorrebbe (e nemmeno sempre) fascista ma che è intrisa di antifascismo, fin nei riflessi condizionati.

 

Essere ribelli disciplinati

 

Non c’è via d’uscita da quest’area se si accettano i pregiudizi e i condizionamenti che l’hanno determinata e che ancora la contrassegnano. Si può, eccome, coniugare qualcosa di efficace e di nuovo, a patto però di rifiutare tutte, dicasi tutte, le categorie di condizionamento dell’azione e del pensiero che quest’area-ghetto ha coltivato. Perché ciò possa avvenire si devono intensificare le due azioni di centrifuga (dallo stagno dell’inerzia inacidita) e centripeta (intorno all’organicità e alla cosciente comunità di destino) coniugando il ribellismo quasi anarca di stampo Ardito – che tutt’altra cosa era rispetto all’insofferenza attuale degli individualisti borghesi verniciati di tinte pseudorivoluzionarie – con l’accettazione del sacrificio, della disciplina e delle gerarchie funzionali e intercambiabili che, sempre di stampo Ardito, furono riprese da un certo Pavolini nella miglior esperienza che Italia ricordi.