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 Come non essere d’accordo, d’altra parte, con Dominique Venner che nel suo recentissimo “Histoire et traditions des Européens, 30.000 ans d’identité”, edizioni du Rocher,  afferma che, per una sorta di effetto di compensazione naturale alla distruzione dei boschi ed al progredire del cemento, le città si sono inselvatichite sicché la civiltà, in piena regressione, si è ridotta allo stato brado ?
Non si tratta di barbarie, come taluni erroneamente affermano, ma di abbrutimento, che è ben altra cosa.
L’abbrutimento è infatti la riduzione allo stadio del bruto, è la decadenza, la degenerescenza etica e del pathos, l’afflosciamento, il trapasso dell’uomo allo stadio ruminante, ovvero al limite della frontiera che intercorre tra il regno animale e quello vegetale.
La barbarie è invece la condizione della fiera, dunque una condizione fiera di volontà di potenza, una forza sanguigna e talvolta sanguinaria che precede lo stato di civiltà e garantisce la conquista, la fertilità, la discendenza, l’avvenire.
La barbarie fonda la civiltà, l’abbrutimento ne scandisce lo sfaldamento.

Un inesorabile processo di deculturamento

Il modello di vita e di cultura che subiamo da qualche decennio, un modello liberista, individualista, egoista, fondato sullo sfruttamento dell’uomo, del cosmo e dell’anima e giustificato ideologicamente dalle utopie comuniste, figlie predilette del capitalismo, è improntato sul tipo angloamericano.
Come disse Barnard Shaw e ripeté argutamente Pippo Franco in “Nerone”, “l’America è passata direttamente dallo stadio di barbarie a quello della decadenza”.
Il che in altri termini significa che non ha mai maturato lo stato di civiltà perché non possiede la concezione del Civis né quella della Polis.
E difatti, con lo scompaginamento degli Imperi Centrali, con la liquidazione delle Repubbliche di matrice giacobina ma impregnate comunque di tradizioni ghibelline, con l’invasione e l’abbozzo di genocidio di quei popoli che avevano scelto di intraprendere la via dell’autodeterminazione nel solco del Fascismo, si è avviato un processo storico per metà automatico e per metà indotto, di distruzione della civiltà, dunque della comunità, dunque della politica.
Un processo che ha raggiunto il suo culmine (o perlomeno quello che fino ad oggi rappresenta il culmine, perché al peggio non esiste limite) negli ultimi dieci anni.

Oligarchia e schiavitù

È l’effetto del trionfo dell’ideologia oligarchica, fondata sul materialismo, l’economicismo, il disprezzo dell’uomo, dell’indole guerriera e della filosofia.
Buenos Aires come Soweto, l’hinterland milanese come la banlieue di Lione: un’immensa melassa informe, una plebe massificata e schiavizzata da esperti monosettoriali, solitamente ottusi e privi di scintille geniali, che si prendono per padri eterni ma che sanno solamente stilare grafici astratti che accompagnano i fallimenti esistenziali, sociali ed economici che scandiscono l’intero pianeta da quando Bush Sr. all’uscita dal vertice internazionale di Malta proclamò la nascita del Nuovo Ordine Mondiale.
La schiavitù, fortunatamente non irreversibile, dell’uomo rispetto al computer, la riduzione allo stato servile assunta con insensato orgoglio nel nome e nella rivendicazione arrogante dei “diritti dell’uomo” ovvero del più grande inganno e della più pericolosa mistificazione che la memoria storica abbia ritenuto.


La politica nell’era virtuale e nel pieno totalitarismo

Sul modello della degenerescenza angloamericana è impossibile praticare una via politica classica, perché la politica, per definizione, sottende una partecipazione vasta, organica, delle genti alla gestione, o quantomeno alla critica della gestione, di un destino comune.
Le genti sono state disarticolate, atomizzate; il destino collettivo, quanto mai penoso e drammatico, è già stato scritto e non è concesso alcun mezzo perché esso sia valutato, soppesato o messo in discussione da chi lo deve compiere, o più correttamente, da chi lo deve subire.
Il che non deve essere, a mio avviso, ragione di disperazione perché in fondo questa certezza globale  altro non è che l’ectoplasma di una grande illusione da parte di uomini-dei che non sono né uomini né dei. Dobbiamo ricordarci che ogni qualvolta qualcuno si prende per Dio o per il suo emissario prediletto tutto quello che nella sua libido di possesso egli costruisce gli sfugge puntualmente di mano come è naturale, logico e giusto che sia. Ciò è accaduto ai Papi e ciò avverrà per i nuovi pretesi signori del mondo.
Intanto, nel liberarci ogni giorno dalla presa mortifera delle loro teorie e delle loro prassi, nel desiderio irrefrenabile di allargare gli spazi di libertà e di civiltà intorno a noi, dobbiamo tenere obbligatoriamente conto della realtà mutata e della politica paralizzata.
Dobbiamo capire che non si può fare politica come qualche decennio fa perché allora esistevano reminiscenze di Polis mentre oggi ci troviamo nel pieno di un totalitarismo che si fonda sulla violenza del virtuale e sull’assenza completa di comunicazione sociale e culturale.
Bisogna perciò cambiare registro e direzione se si vuole approdare ad un qualche risultato salutare.

Il Clan, dalla memoria al destino

Abbiamo ripetutamente affermato che chi desideri confrontarsi con il potere, agire nella società, fare politica, cercare una via d’uscita che non sia solo individuale, si ritrova di fronte ad un ventaglio di scelte limitate: o la pura e semplice testimonianza sterile o un avvilente entrismo dettato dal pragmatismo. L’unica alternativa, invero ardua, a questa doppia illusione consiste nel tracciare da soli una nuova quanto complessa via espressiva che consenta di interagire con la società senza allontanarsi da essa.
Questo è possibile qualora si agisca con raziocinio e preveggenza, costruttivamente e con autodisciplina.
Dobbiamo partire dal presupposto che l’implosione e la disarticolazione del tessuto sociale  fanno emergere, per compensazione e per imbarbarimento, le tribù ed i clan.
E tra le tribù ed i clan maggior peso assumono quelli che hanno un allargato rapporto di comunità. Questo favorisce la strutturazione delle realtà piccole ed omogenee che abbiano intenzione e capacità di strutturarsi, la loro autodifesa e la coltivazione delle loro  risorse umane ed economiche.
Una comunità che sia capace di onorare la propria memoria, tanto più se coltiva l’ideale d’immortalità dei suoi Martiri, ovvero quel Culto del Ricordo che si eterna nel fuoco imperituro dei Lari, possiede certamente la fermezza interiore per passare a questi altri stadi.
Che sono la strutturazione economica, la costituzione di circuiti di arti e mestieri,  l’acquisizione di peso, ad esempio tramite la presa di coscienza dell’incidenza lobbistica che si può esercitare su mercati quali quello editoriale e discografico, la costituzione di realtà territoriali organiche e professionali che siano al di sopra delle appartenenze politiche spicciole e capaci di incidere sulle crescite giovanili e infine, ma non in ultimo, la realizzazione di strumenti attraverso i quali comunicare a vastissimo raggio, inducendo gli interlocutori a sane mutazioni antropologiche.
È un’opzione difficile sia da comprendere che da intraprendere, una scelta che sposta l’asse direzionale di chi la compie  dalla periferia estrema della società, ovverosia dall’emarginazione del ghetto, all’assunzione di un ruolo di snodo strategico.
Quello dell’avanguardia operativa, che forma, informa e trasforma.

Concepirsi e operare come rete

I piani elencati vanno affrontati distintamente ma in simultaneità, tramite una serie di relazioni ed interrelazioni che, in perfetta corrispondenza con le esigenze dell’epoca, funzionano sul modello della Rete. Intendersi ed operare come Rete, sostanziarsi, strutturarsi, rinnovarsi, acquisire potenza ed incidenza, riuscire ad interagire con la società e con il potere garantendosi autonomia associativa ed economica, essere lobby e motore di rigenerazione: a tanto si può sintetizzare questa vocazione operativa, ambiziosa e faticosa ma del tutto realistica.
La Rete, se è intimamente forte, articola, garantisce e potenzia tutte le autonomie, permettendo di capitalizzare ogni acquisizione sia a vantaggio singolo che collettivo.
Questo fascio di forze libere ottiene da una cooperazione bene indirizzata il riconoscimento di un vero e proprio valore aggiunto che si rivela sempre superiore alla somma di tutte le parti e che permette di potenziare al contempo ogni singola realtà, secondo un antico, collaudato ed efficacissimo metodo che si iscrive nella concezione della societas.
Lo scoglio principale contro il quale rischia di urtare chi desideri operare in questa direzione e con questo metodo, è prettamente concettuale. Abituati alle forme esteriori, i più cercano infatti  conforto nella visibilità ed affidano la propria affermazione di identità ad un’identificazione nei colori di una scuderia.
Questo viene meno, quasi completamente, allorché si opera come suggerito.
L’operato sostanzioso è discreto per forza di cose; non perché sia segreto ma in quanto, occupandosi più delle strutture, delle meccaniche, delle dinamiche, dei rapporti di forze, dei concetti, dei metodi, che non degli eventi o delle prese di posizione immediate, non riveste alcun interesse mediatico.
Non potendo inoltre esistere dei pubblici luoghi di raccolta per un operato capillare e travagliato di tipo trasversale, avviene che i contatti, le cooptazioni, le collaborazioni, si costruiscano tramite conoscenze personali e passaparola.
Tutto ciò oltre a non essere gratificante è per giunta soggetto alla selezione inesorabile dell’impegno, che – differentemente da quanto accade nella politica abituale -  non può essere simulato e soprattutto dalla dittatura del risultato.
Sono queste le leggi alle quali risponde chi sceglie la via della strutturazione.
Infatti, anche a causa  della natura delle meccaniche imperanti ai giorni nostri, tra sostanza ed immagine, tra concretezza e visibilità vige un rapporto inversamente proporzionale.
D’altra parte, come ci insegna la stessa spettrografia del potere, non si può irrigimentare un’azione che mira alla sostanza sotto un’unica cappella, né imbottigliarla ed etichettarla.
Tra queste due concezioni vi è, pertanto, una sensibile diversità.

La Rete e le scuderie politiche

Va aggiunto, ad onor del vero, che tra un’organizzazione a rete e quella che risponde invece ad un’appartenenza di scuderia vi è antinomia solo parziale e comunque essa è sempre e solo a senso unico.
Difatti una scuderia ha, per sua logica intrinseca, la tendenza a monopolizzare, mentre la Rete è pluripolare pur essendo monolitica. Ogni scuderia e, soprattutto, ogni comunità locale trova dunque, all’interno della logica di rete, non solo il suo posto e, insieme con la sua rappresentazione, la garanzia del suo interesse, ma anche la possibilità di incontrarsi sia con le realtà affini che con la diretta concorrenza senza vedersi obbligata a passare per gli imbuti dei coordinamenti impossibili e senza dover necessariamente stringere alleanze previe.
Ma non può superare un certo livello di coinvolgimento se non vuol sentirsi obbligata ad ammettere una subalternità oggettiva nei confronti della Rete.
La Rete, viceversa, non può nutrire alcun preconcetto né alcuna ragione di ostilità, di gelosia o di timore di soffocamento verso le singole scuderie ché, anzi, le sono loro malgrado congeniali e complementari. Intanto perché svolgono una funzione di proselitismo (ed una prima selezione) che non può corrispondere ai suoi piani d’intervento e inoltre perché nella loro variegata gamma, interagendo anche saltuariamente con essa, le garantiscono la continuità di quella vocazione plurale ed interconnettiva che si trova a fondamento della meccanica e della dinamica di Rete.

Minoranze agenti e oligarchie sfruttatrici

Il rischio di questa scelta, in un certo qual modo elitaria o comunque selettiva, non è tanto quello di non ottenere risultati quanto di trasformarsi, per preconcetto e presunzione, in un’ulteriore oligarchia chiusa ed esclusiva, diversa dalle altre solo per segno politico o per color di gagliardetto.
Per sfuggire a quest’esito è necessario rammentare continuamente che un’avanguardia è sempre legata al popolo, è società, nella società, per la società.
Pertanto le azioni da condurre devono essere principalmente dettate dall’amore della giustizia e devono svolgersi nell’ambito del sociale.
Ciò è imperativo perché proprio nel modello antropologico risiede la differenza tra l’oligarchia (che è un cerchio ristretto di potenti che vive di potenza e che alimenta se stessa anche a scapito del bene comune) e l’avanguardia che è l’unica forma oggi possibile di aristocrazia.

Avanguardia e aristocrazia

L’aristocrazia è infatti la depositaria di uno stadio dell’essere incentrato e consolidato sull’essenza, sulla memoria, sull’esempio, sul sacrificio, sul coraggio e sulla fermezza e pertanto non può partecipare alla politica intesa come mera spartizione delle quote. Non lo può per dissintonia con i valori imperanti, non lo può per disinteresse, non lo può per tedio.
Può essere invece avanguardia.
La differenza con le oligarchie non deve quindi essere soggettiva, ovvero determinata solo da riferimenti ideologici o mitici che, restando fini a se stessi non intervengono a modificare lo spirito ed il modo di agire, ma deve essere imperativamente oggettiva, cioè individuabile nei riferimenti, nelle relazioni e nei comportamenti di ogni giorno.
Con un’opera di formazione innanzitutto spirituale ed etica ed infine sociale, è possibile qualificare un’avanguardia che competa con le oligarchie affondando le radici nella società.

Qualificare e potenziare l’avanguardia

La via da intraprendere, in relazione alle necessità storiche del momento, è dunque  forzatamente elitaria e d’avanguardia: ma su questo concetto e sulla sua attuazione dobbiamo fare particolarmente attenzione perché il rischio di fare esattamente l’opposto di quanto si dovrebbe è altissimo.
Come abbiamo rilevato su Orion numero 213 dello scorso giugno, le vere élites, come quelle napoleoniche, mussoliniane ed hitleriane, si sono aperte al popolo ed hanno fatto sì che il popolo partecipasse alla politica rinnovandole con questo costantemente. Ciò che rappresentava e potrà sempre rappresentare un vero e proprio pericolo di sopravvivenza per le oligarchie chiuse dell’alta finanza, delle logge, del clero e delle alte sfere dell’oligarchia intellettuale e di quella tecnocratica.
La differenza essenziale tra un’aristocrazia ed un’oligarchia consiste proprio in questo spartiacque: la prima è mossa da una vocazione alla generosità e alla giustizia e intende il suo primato come il dovere di dare di più e di ottenere di meno, come l’imperativo di offrire se stessi per il bene di tutti; la seconda persegue il privilegio ed ostenta la superiorità di mezzi e di condizioni.
Nel gene dell’oligarchia – che è l’opposto speculare dell’aristocrazia – è iscritto il disprezzo degli altri, dunque la prepotenza, la prevaricazione, il cinismo più ampio ed incondizionato.
Siamo entrati in pieno nell’era dell’oligarchia e dobbiamo confrontarci con le dinamiche, con le meccaniche e con le logiche dell’era oligarchica, ovvero dell’era dei pochi organizzati che si distaccano dalla massa atomizzata con tutte le conseguenze nefaste (sociali, economiche e culturali) che questo comporta.
Bisogna quindi assumere come ricchezze e come strumenti le particolarità dell’essere minoranza e le capacità di trasformare questa minoranza in un’entità operativa che sia creatrice di dinamiche nuove, rettificatrice di torti diffusi ed insopportabili e non soltanto un gruppo che acquisisce qualche grado di potenza per godere dei suoi risultati girando le spalle al resto del mondo.
In questa differenza, che si definisce concettualmente, che si eredita per essenza e che si coltiva nell’efficacia e nell’umiltà, e sottolineo l’umiltà, risiede la linea del fronte, anzi il fossato che delimita lo spazio sacralizzato ed ordinato dal regno del Caos, ovvero l’alternativa eterna tra il potere usurpato dalle ganghe del crimine organizzato e l’azione positiva delle aristocrazie popolari.