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 Il margine. Questa la linea di confine, il crinale, il ciglio del burrone sul quale da tempo immemorabile si è arroccata l’estrema destra. Un margine da cui si può guardare al resto del mondo con occhio e  con stile da rapace per farvi puntuali incursioni (vocazione interventistica) o nel quale si può invece trovare un refugium miserabilium, un asilo un po’ infantile e un po’ psichiatrico in cui limitarsi a vivere al balcone; da osservatori, da tifosi, da censori, afflitti da prematura arteriosclerosi magari fin dai sedici anni.
Chi costruisce, solitamente avanza ma non fa chiasso; chi invece strilla, in genere ristagna se non retrocede addirittura, ma ha e dà l’impressione di dominare la scena. È il problema atavico di chi non   getta mai  un’occhiata dietro le quinte laddove c’è quel che rende possibile la commedia: dalle macchine allo scenario, dalla scuola degli attori al deus ex machina.
Chi invece di rimboccarsi le maniche e operare, bivacca ai margini del palcoscenico, chi strilla, da dietro i vetri del balcone, dalla marrana o dal ghetto birraiolo, resta al di fuori del mondo, ne coglie soltanto la superficie, e anche questa a stento.
Schiacciamento alla superficie, così potremmo definire il limite, l’atteggiamento mentale ed estetico, la sindrome in cui giace l’isolotto affiorante della D.R.

Interghet

Nel virtuale, nel microcosmo interghet, o, al massimo, nelle riflessioni intranet, si esaurisce tutta la partecipazione sociale e politica di quel residuo neofascista che non riesce a rifondarsi per passare all’avanguardia. Ammesso, poi, che lo voglia.
In quest’isolamento endemico, che da tempo non ha più ragione di esistere se non per l’incapacità di posizionarsi nel mondo senza la paura di venirne soffocati, si svolge tutto lo psicodramma dell’ area, uno psicodramma che ad altro non conduce se non ad esternazioni di affettata idrofobia o a professioni sopra le righe di un radicalismo estetico: atti puntualmente sterili, innocui, perché al di fuori dalla realtà.
Ché a quest’irrealismo superficiale e sterile si riconducono tutte le opzioni di fondo decantate – in Italia e all’estero -  dai gridaparole  che instancabilmente provano a mettersi alla testa di sparute e perplesse legioni assopite e distratte le quali dal canto loro richiederebbero tutt’altro ma non sanno definire esattamente cosa.
Le tre grandi opzioni in cui s’impantano oggi le rappresentanze “politiche” della Destra Radicale, tutte pienamente fallimentari, val la pena rammentarle:
a) L’utopia di un conflitto razziale imminente inteso come detonatore rivoluzionario
b) L’esaltazione della guerriglia insurrezionale terzomondista immaginata come la risposta etica e salvifica al tumore occidentale
c) L’attesa del risveglio di un sentimento nazionalpopolare di fronte agli insopportabili cedimenti etici della destra nazionale.

Tra imitazione e parodia

Al di là di quello che si pensi in termini ideologici e valoriali di ciascuna delle tre opzioni, la realtà oggettiva delle cose le smentisce tutte. E se l’inconsistenza dell’ultima, in virtù della mancata sanzione elettorale allo “strappo di Gerusalemme”, è tangibile, anche le altre sono prive di costrutto e di realismo; ma i tifosi/spettatori/censori che anelano a vedersi riconoscere improvvisamente, dall’alto o per acclamazione, in ogni caso per una sorta di diritto divino, un posto nella politica e nella storia, raramente se ne avvedono.
Poiché mancano di profondità prospettica, di complessità operativa, di visione d’insieme e, quindi, restano inchiodati agli slogan e alle immagini di superficie, essi non possono che persistere nel tentativo di cambiare la realtà delle cose e – quel che più conta – la percezione generale delle cose, solo gridando più forte. Come se gridare più forte nei pochi centesimi di secondo durante i quali si ha in mano un microfono potesse produrre un qualsiasi risultato anche qualora si  gridasse qualcosa di reale, di concreto, di attuabile e di sensato, il che poi non è. E che invece fu, sempre, quando a gridare – con metodo e con padronanza di mezzi, però, il che era importante assai – erano quelle forze nazionalrivoluzionarie che si vorrebbero imitare.
Ma tra imitazione e parodia il confine è labile e, quando lo si varca, si commette un abominio dal quale è ben difficile riprendersi perché ci s’invischia nelle sabbie mobili. E, per dirla con Battiato, miei cari, “tirate giù”….

La fata morgana della guerra razziale

Che l’utopia del detonatore razziale sia assurda, lo attestano vari elementi. Innanzitutto – come dimostrano i paesi ad alto tasso d’immigrazione – diversamente da come lo si pretenderebbe, lo scontro non avviene tra etnie, religioni, civiltà, culture o epidermidi, ma tra sottoproletari ed emarginati di ogni colore.
Nel mondo capitalista, la logica classista prevale su quella identitaria e su quella religiosa e a tutto porta meno che ad un abbozzo di opzione rivoluzionaria. Il destino degli attriti etno/culturali, se non sopravviene un mutamento della politica e della geopolitica di fondo delle nazioni europee, altro non è se non quello delle megalopoli americane. Multirazziste e pluri/apartheid negli insediamenti socialmente svantaggiati, trasversali e dinamiche nelle classi servili dei funzionari della mastodontica burocrazia bancaria e multinazionale che forma l’ossatura dell’imperante comunismo capitalista.
Di questo s’inizia ad avere consapevolezza, magari ancor vaga, nei paesi a forte immigrazione laddove le destre estreme hanno iniziato a recedere dalle posizioni/diga stile vecchio Front National alle teorie “identitarie” che sono dei perfetti sinonimi dell’arroccamento nel clan.
Inoltre questa frenesia fayeana s’inserisce, in questo momento, appieno nello schema dialettico dello “scontro di civiltà” e fa pericolosamente il verso all’imperialismo Usa e alla barbarie israeliana.
Un minimo di freddezza analitica sarebbe sufficiente perché questa fata morgana sociobiologista apparisse nella sua reale consistenza (zero), nella sua pericolosità giuridica (mille) e psicologica (centomila) e nella sua nocività politica (infinita).
E proprio su quest’ultima intendiamo porre l’accento. Ogni qualvolta si alimentino speranze apocalittiche e si preparino gli animi ad un evento epocale decisivo che comunque non avverrà, si conduce una generazione in un vicolo cieco e si creano difficoltà insormontabili a quelle successive che dovranno riprendersi dal senso d’impotenza e di sconfitta che avranno ereditato dal mancato arrivo del settimo cavalleria.

Anche il settimo cammellieri non arriverà

La nuova fase imperial/capitalista inaugurata con il colpo di stato planetario dell’ 11 settembre 2001 e proseguita con le guerre in Afghanistan e in Iraq, con il perseguimento sistematico del genocidio in Palestina, con  le azioni destabilizzatrici verso l’Arabia Saudita e la Siria, ha lanciato in primo piano su tutti gli schermi del mondo la minaccia spettacolare di Al Qaeda e della Jihad.
Che gli spettatori comuni cadano in questa trappola grossolana e credano alle versioni holliwoodiane dello Spettacolo del Terrore è cosa normalissima. Che nella medesima trappola incorrano coloro che si vorrebbero avanguardie politiche è significativo ed avvilente.
Che una buona parte della Destra Radicale abbia iniziato a tifare per la guerriglia islamica accettando come autentico quello schema duale che oggi si chiama “scontro di civiltà” e che ieri era impostato sullo “scontro est-ovest”, mostra senza ombra di dubbio quanto essa si senta spettatrice e pretenda di essere protagonista per l’esclusiva via del tifo, ovverosia del transfert psicologico. Ma qui non si tratta di puntare su Nedved, Totti o Van Nistelrooy perché lo scenario al quale assistiamo è quello, completamente truccato, del catch.
Difendere il mondo arabo e le articolazioni diplomatiche, commerciali e culturali che vanta con noi significa tutt’altra cosa che non accettare pedissequamente questa nuova versione di “lotta di classe” su scala internazionale. Senza contare che chiunque abbia un minimo di spirito critico è nelle condizioni di accorgersi che la crescita dell’estremismo religioso islamico è direttamente proporzionale all’aumento di potere di Israele e indirettamente proporzionale alle fortune delle nazioni arabe e agli sviluppi eurasiatici. Questo senza entrare nello spinoso argomento dei rapporti finanziari e militari esistenti tra strutture operative islamiche (Isi, Uck, la stessa Al Qaeda) e registi della Società dello Spettacolo che gioiscono junghianamente nel triangolo Washington – Londra – Tel Aviv.

Prima era Mao, oggi è Maometto

La mancanza di realismo, l’incapacità di cogliere il senso delle cose, la dimensione virtuale della D.R. nella sua opposizione, che resta in fondo solo estetizzante, sono le spiegazioni di quest’altro grande e fuorviante malinteso. Non è peregrino aggiungervi un’altra causa: una forma adolescenziale che produce rapide ed enfatiche infatuazioni verso tutto ciò che si intravede come un elemento mobilitante dalle caratteristiche esotiche. A suo tempo – pur con tutt’altra valenza estetica e dinamica – si registrò un’infatuazione analoga per il maoismo. Oggi  Mao cede il posto a Mometto ma non per una progressione esistenziale verso il metafisico, che sarebbe accettabile, bensì nella retrocessione da un’estetica rivoluzionaria, con l’illusione in fondo solare di un’emancipazione collettiva, ad un gusto acido e represso, assai notturno ed oscuro, che trova compiacimento in una delle varianti dello Spettacolo del Terrore.  Questa scelta, in fondo esclusivamente dispettosa, non soltanto si rivela  irreale, marginale e virtuale, ma mette a nudo un’abdicazione compiuta: quella dalla vocazione rivoluzionaria. Ovvero ci si riconosce nella rivoluzione degli altri. Si abdica, cioè, ma non è tutto: spesso si commette un errore d’interpretazione perché chi svolge il ruolo del cattivo scritto nel copione dello Spettacolo del Terrore raramente è rivoluzionario.
Chi a suo tempo affidò in cuor suo alle Brigate Rosse il compito di vendicare il popolo e di aprire la strada ad un avvenire che poteva essere nazionalpopolare (e  furono non pochi a ragionare così)  commise due errori grossolani in quanto le BR stabilizzavano il potere e aprivano la strada ad una soluzione oligarchica e tecnocratica. Le squadre della Jihad svolgono la medesima funzione con una prerogativa in più: sono esterne alla nostra società. Chi cede loro per transfert le sue acredini e  spera da esse rivolgimenti epocali, tradisce una sola cosa: l’adolescenza del pensiero. Che non è fanciullezza o giovinezza, ma quell’età nevrotica e immatura che caratterizza gli insoddisfatti e gli incompiuti. Che poi è lo stadio emotivo e mentale dell’America, il che dovrebbe far pensare.

Quell’eterno punteggio

Due per cento. È questa la percentuale dell’estrema destra ogni qualvolta si presenta su di un’opzione nostalgica e morale. Così nell’immediato dopoguerra, così alle europee del 1999, così alle europee del 13 giugno allorquando le liste della destra estrema hanno progredito di trentamila voti in tutto. Questo il bottino colto nel campo di Alleanza Nazionale che i soli voti che ha perso (qualche centinaio di migliaia) li ha ceduti a nord per il voltafaccia sugli immigrati e a sud per  il confronto clientelare con i democristiani. Questo cosa prova ? Semplicemente che la cristallizzazione ideologica e morale del fascismo non è che una cultura di pochi, se è vero, come è vero, che centinaia di migliaia di mussoliniani e di fascisti (soggettivamente parlando, è chiaro: ma questa soggettività vale anche per quelli della DR) continuano a votare per AN.
Traditori ? Arrivisti ? Difficile sostenerlo per l’intero arco elettorale. In ogni caso chi si pone come scopo principale la progressione elettorale (ma in fondo anche chi si pone qualsiasi obiettivo reale) deve tener conto degli uomini come sono e non di come vorrebbe che fossero.
La tanto attesa, decantata, proclamata, avanzata elettorale con rovinoso e inarrestabile tracollo finiano non si è verificata; peggio, non si è mossa foglia.
Il che non può che far risaltare la mancata capacità di analisi e l’assenza di progetto di coloro che hanno presentato entusiasticamente un’alternativa che non c’è ma che, eventualmente, dev’essere costruita pezzo per pezzo,  cominciando a mettere a tacere i zeloti e i farisei del nulla che sovrabbondano nei piccoli stagni che animano le liste della destra estrema. Per far che ? Innanzitutto per rinnovare il lessico, le forme di comunicazione ma, soprattutto, l’immaginario da cui si parte e al quale ci si riferisce.

Quale senso ha oggi un partito

Nessun medico ha prescritto la necessità di un partito di destra estrema e men che meno di destra radicale. Chi lo ritenga comunque indispensabile (vuoi per motivazioni realistiche, vuoi – cosa più frequente – per un’inguaribile archeologia mentale) deve iniziare a fare i conti con la realtà.
Il partito non ha più una funzione centrale in una prospettiva di rivolgimento. Alcuni si aggrappano alla speranza che non l’abbia ancora, ma noi riteniamo che l’abbia perduta nella società che evolve.
Due sono le funzioni importanti che un simile strumento (e sottolineiamo strumento) può ancora assolvere: la gestione del sottopotere e il luogo di raccolta per anime pie che potranno in seguito incidere sulla società in modo autonomo, coordinato, extra partitico.
Chi voglia, per una ragione o per l’altra, restare abbarbicato al luogo (ché tale è oggi il partito: una boa con cui si ha l’illusione di trovarsi sulla terraferma), dev’essere in grado di concepire tutto daccapo.
Non ha senso sfilare impettiti e con le mascelle serrate per dimostrare ad un mondo che se n’infischia altamente che si è contro tutto e contro tutti. Non ha significato atteggiarsi ai novelli Saint-Just (che, poi, nella migliore delle ipotesi vengono ghigliottinati e muoiono anche male). Non si convince nessuno di essere l’alternativa (convincere è uno degli scopi di un partito) perché si proclama di non avere i finanziamenti di Soros, a differenza dei noglobal o di essere al di fuori del Palazzo, al contrario di AN. Si appare soltanto incapaci.

Tra Benito Mussolini e Filippo Anfuso

Servono progetti, radicamenti popolari, realismo, potere contrattuale e mezzi per organizzare. Urge, come altrove si è ben compreso, l’elasticità per trasformare un bunker fatiscente, un corpo in cancrena in una sorta di consiglio d’amministrazione per associazioni, movimenti, gruppi di pressione popolare. Non dei massimi sistemi fondati su di un purismo puritano che viene tradito ad ogni istante quando ci si confronta con la realtà, ma un pragmatismo dinamico e vincente.
Se teniamo conto degli scenari internazionali e dell’evoluzione socioculturale in atto, per liberare la cosiddetta area dall’avvilente funzione di ruota di scorta e dalle sindromi adolescenziali, si deve concepire una rifondazione dinamica e articolata. Rigorosa si, ma all’interno dell’élite operativa: elastica e dinamica nelle attuazioni costruttive.
Urge una strategia a metà strada tra Mussolini ed Anfuso, oppure, per intenderci secondo i termini delle mistificazioni del politichese, una strategia che connetta leninismo e trozkismo, facendo perno su di un centro controllore ed equilibratore.
Ma questo discorso è ancora prematuro e rischierebbe di portarci troppo lontano. E noi non siamo per le fughe in avanti, soprattutto in un ambiente che si affida alle irrealtà psichedeliche e si fa grande dei voli oppiacei autoprodotti

Il nichilismo creativo

Questo per l’universo partitico: per le avanguardie la cosa è differente.
Tre sono le direttrici sulle quali consolidare i “rapaci dal margine” , coloro che non scelgono i ghetti se non come piattaforme e luoghi di verifica.
La prima è quella del radicamento territoriale di spazi autogestiti a forte presa sociale. E Casa Pound, in questo, è emblematica, le ONC sono cardinali.
La seconda è quella dell’azione metapolitica, del veicolamento di messaggi artistici, musicali, comportamentali, di vita, e che si basa non solo sulla genialità di pochi e su di un’ottica conquistatrice di alcuni ma sul consolidamento di strutture economiche e di comunicazione. E qui la lista sarebbe lunga.
La terza è quella della qualificazione delle élites. Etica prima che politica; comunicativa prima che politica; politica prima che economica. La GdO, le ascese alpine, le comunità lavorative ne sono l’ossatura, Polaris ne vuol essere un collante.
C’è, insomma, un arcipelago di forze vive e spontaneamente concentriche.
Le quali devono avere una connotazione comune, un medesimo modo di concepire i tempi e di tracciare le vie. Ruberemo, in quest’ottica, due definizioni citate da Anna K.Valerio in Risguardo V, or ora edito per il quarantennale delle Edizioni di Ar e che riportiamo in corsivo: le riteniamo assai calzanti.
Noi pensiamo che l’avanguardia debba avere una vocazione rivoluzionaria (ovverosia innovatrice e conquistatrice) che si muova in controdecadenza.
E aggiungiamo una definizione delle più felici: essa deve operare un nichilismo creativo che è appunto quel che contraddistingue i fenomeni attuali di avanguardia nel mondo di cui stiamo disquisendo.
Queste le premesse operative sia per il grosso dei milites aspiranti che per coloro che dovrebbero creare le condizioni affinché la loro tenzone esistenziale non resti prigioniera dello stagno dell’irreale.
Perché il sogno è ben altra cosa e, come il Mito, produce realtà. E noi la realtà non vogliamo sfuggirla o mascherarla, vogliamo plasmarla perché siamo veramente cocciuti.