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Palestina: un amore struggente da parte di chi come me in quegli anni Settanta riscontrò una strabiliante analogia con i figli di quella terra; l’analogia che c’è tra chi combatte contro i mulini a vento, contro la violenza e, peggio, contro la menzogna, la mistificazione. L’analogia che si scopre tra chi difende i deboli dai gradassi e per questo è marchiato come “dannato”, come “terrorista” anche se il terrore lo sparge proprio quello contro il quale stai alzando la voce.

 

Palestina che non può avere pace

 

Palestina: una fascia di terra che congiunge l’Asia e l’Africa, un luogo strategico nel deserto, a un passo dai fiumi e a due dal petrolio.

Palestina: sulle spalle il fardello della Città Santa di tutti i monoteismi, oggetto di tante, troppe brame.

Palestina: un posto che non può avere pace, che non può passare inosservato.

Palestina: il luogo immaginario dei sogni altrui per secoli. Di quelli dei pellegrini cristiani al Santo Sepolcro, o di quegli ebrei che vagheggiavano il paradiso terrestre della Terra Promessa e che, se avessero mai potuto immaginare a cosa si sarebbe ridotta la realizzazione del loro disegno, probabilmente oggi inorridirebbero anch’essi. Come Brigatisti Neri che vedano in Fini il passaggio terminale del loro antico credo, come guerrilleros sudamericani che incontrino bandiere del Che nei sottoboschi dei comizi di un Toni Blair.

 

Palestina, lotta di popolo

 

Palestina: un amore iniziato controcorrente fin dal 1967 e che in pochi anni, superando forti resistenze, segnò – insieme a quello per l’Irlanda – quella ventata nuova che permise alle basi tenute in ostaggio dai calcolatori almirantiani di rigenerarsi in uno slancio nuovo e di rifondarsi così in una poetica bellezza ribelle.

Palestina: non una scusa come un’altra per prendersela con gli ebrei, non un malcelato integralismo cattolico di ritorno, ma la volontà, la forza, la gioia di rispondere ad amore e a giustizia.

Palestina: la lotta dei popoli.

Palestina: l’orgoglio dei popoli.

Palestina: la dignità dei popoli.

 

Palestina, tragedia senza fine

 

Palestina: una tragedia senza fine. Uomini e donne privati della propria terra, dei propri diritti, dei propri beni.

Mamme costrette ad abortire ai posti di blocco perché i soldati occupanti, sadicamente, non le lasciano transitare per partorire.

Bambini e adolescenti falciati dall’esercito occupante mentre manifestano.

Giovanissimi che muoiono per malnutrizione o per mancanza d’igiene perché nei Territori Occupati tutto è loro precluso.

Famiglie intere che patiscono la sete perché il governo israeliano le deruba quotidianamente dell’acqua.

Famiglie intere che si ritrovano in mezzo a una strada, con l’abitazione abbattuta, solo perché nel medesimo palazzo abitava la madre di un presunto attentatore suicida!

E davvero i toni pacati e normalizzatori con cui ce lo raccontano quotidianamente al telegiornale non ci aiutano a renderci conto di cosa questo significhi esattamente.

Immaginate che il vostro coinquilino del terzo piano sia il padre di un brigatista rosso; voi tornate a casa e non la trovate più la vostra casa, divelta con le ruspe, con dentro tutti i vostri beni e tutti i vostri ricordi. E siete d’improvviso vagabondi senza futuro perché abitavate nella stessa casa del genitore di un brigatista…

 

Galeotto fu il sessantotto

 

C’era una volta l’Olp di Arafat. Di quella realtà rimembro le immagini, le sensazioni, direi persino i sapori. Essa prese in mano le redini della resistenza di un popolo e fu una lunga resistenza contro tutto e tutti. Contro gli “alleati” arabi che non tardarono a sparar loro addosso, come avvenne in Giordania dopo la Guerra dei Sei Giorni e come non avrebbe smesso di accadere. E fu una resistenza politica infinita, fuori e dentro del mondo palestinese.

Intanto, mentre resistevano, anno dopo anno, gli uomini dell’Olp, i guerrieri di Al Fatah, arretravano inesorabilmente, metro dopo metro.

Complice l’ascesa in quasi tutti i paesi occidentali di gruppi dirigenziali filo-israeliani. Complice la nuova classe dirigente occidentale di matrice sessantottina con il suo notorio quanto scomposto desiderio di dimostrarsi accettabile.

E cosa di meglio, per rendersi presentabile, se non allinearsi con Israele? Per pavore e per servilismo ma anche per un’affinità confusa; un’affinità che i sessantottini hanno ritrovato negli effetti speculari del grande imbroglio rappresentato da quell’antisemitismo che fornisce il cemento principale dell’occupazione della Palestina. Rammentando l’ebraicità di Marx e di Reich, quella di Trotzsky e infine lo spirito iddish new yorchese della sinistra americana dai cui campus nasceva la Contestazione e, come onda lunga, la stessa identità ebraica dei Cohn Béndit e dei Dutschke, i guerriglieri di papà, una volta indossati i calzoni lunghi, fecero di tutto ciò un tutt’uno con Israele, con l’imperialista Israele: e si misero a sostenerla. Non è di sicuro un caso se il sessantottino Clinton fu strenuo paladino di Tel Aviv mentre Bush padre, che il sessantotto lo aveva avversato, con Israele tenne il punto più volte. 1967 e 1968: in quegli anni Israele partì all’assalto dell’intero occidente.

 

Eccolo lo scontro di civiltà

 

Il tempo logora, la resistenza logora. Non si vince, non si libera la propria terra, si strappano a un altissimo prezzo di sangue solo accordi vaghi, promesse immediatamente tradite. Subentrano allora scoramento, incertezza, indecisione, corruzione. E nasce la secessione e con essa la faida. Prima con l’Fplp e poi con una pletora di altre organizzazioni rivali dell’Olp. E l’intelligence nemica, che gode del sostegno di quasi tutte le intelligences del mondo, s’infiltra, manipola, decapita, assassina, gioca mille e mille volte al gatto con il topo. E un pugno di uomini, sempre più esiguo, si stringe intorno ad Arafat per cercare di tenere insieme i cocci sotto pressioni esplosive che provengono da ogni dove.

E non fai in tempo a stabilirti in Libano che ti si scatena addosso tutto l’apparato imperialistico. Non va tanto meglio in Tunisia. Eppure Arafat strappa, con le unghie e con i denti, il riconoscimento internazionale, una promessa per lo Stato di Palestina, uno status istituzionale e diplomatico. Ma quelli provocano; Sharon li trascina nell’ Intifada e con quella scusa si moltiplicano le vessazioni, i massacri, gli assassini dei bambini. È lo stesso stile di Deir Yassin quando, nella Palestina appena occupata, gli israeliani diedero un segnale ai palestinesi di cosa intendevano per convivenza. Fecero sdraiare per terra donne, vecchi e bambini di un intero villaggio pacifico e li schiacciarono sotto i cingoli dei carri armati. Capite cosa intendono quando parlano di “scontro di civiltà?”

 

Superstiti esausti

 

Infine muore Arafat, che per molti è stato assassinato, e gli subentra Abu Mazen che cerca di attaccarsi forse troppo debolmente al dialogo, tanto che molti lo accuseranno di essere un servo israeliano.

Fatto sta che i palestinesi giacciono oggi nella medesima condizione che fu quella dei pellirosse americani. Combattere per la rabbia e per l’onore è gratificante ma non produce la libertà. Trattare con le lingue biforcute, con un occupante assetato di sangue e che ti considera come un essere da sterminare, non porta proprio a nulla.

Ed è così che quelli che prepongono rabbia ed onore alla saggezza prendono il sopravvento.

Purtroppo il tempo è trascorso, le potenze estere (Siria e Iran) esercitano influenze e compiono manovre. Il leit motif della nuova “guerra fredda” lascia credere erroneamente che l’Islam (come se esistesse UN Islam…) rappresenti l’altro fronte rispetto all’imperialismo occidentale.

La saggezza dei seguaci di Arafat non può essere accolta da chi vive nella tragedia, nel lutto quotidiano, nell’esaltazione del sangue fraterno che irrora la terra occupata. Certo, i palestinesi si riproducono in massa a differenza dei pellirosse e il dato demografico potrà diventare un’arma decisiva nel giro di alcuni anni. Ma chi è disposto a passare anni a vedere abortire le donne ai posti di blocco? A veder morire i fanciulli per denutrizione? Ad assistere al tiro a segno sui passanti, sulle chiese, sulle moschee nei Territori Occupati?

 

Strappiamo tutti i telefoni azzurri

 

E vince Hamas.

Visto da fuori, a bocce ferme, dal calduccio dei nostri salotti, da dietro i nostri schermi e le nostre tastiere, possiamo agevolmente dire due cose. Che Hamas fa il gioco di Israele e soprattutto che, per la sua forte matrice religiosa, ridimensiona la causa nazionale, mortifica il sentimento nazionale che diviene così strumento di fanatismi teologici.

La prima tesi ha un fondamento critico di rilievo, eppure si deve prendere atto che chiunque, qualunque cosa faccia, nell’attuale rapporto di forze fa il gioco di Israele. Difficile trovare argomenti per convincere i palestinesi che lo scontro frontale non paga: cos’altro paga? C’è qualcosa che paga?

Il secondo dato è oggettivo. Purtroppo le cose stanno così, il fanatismo religioso – ogni fanatismo religioso - deforma, trasforma e subordina a caste indecenti ogni pulsione rivoluzionaria.

È per questo che noi, tutti noi, a prescindere dai rispettivi sentimenti religiosi (pagani, cristiani, agnostici) dovremmo combattere ovunque una “crociata”: quella della liberazione dalle teologie politiche, dagli integralismi religiosi e dalla weltanshaung moralistica e sminuente; dalla visione della vita e della politica basata su precetti, codici e divieti; dalla concezione dell’uomo come strumento acefalo e irresponsabile di un dio immanente. Dovremmo fare infine pulizia della costruzione mentale del telefono azzurro ovvero della linea diretta che ogni giorno di più certuni pretendono di avere con il paradiso.

 

Criticare Hamas?

 

Hamas renderà inutili tutte le conquiste di Arafat? Difficile dirlo; al momento sembra proprio che l’intelligenza politica che sta dimostrando consenta a quel partito di non restare prigioniero di se stesso; ma solo il tempo ci dirà cosa accadrà realmente.

Hamas permetterà agli occupanti israeliani di cogliere il pretesto per non rispettare neanche gli accordi più irrilevanti? Forse. Ma di pretesti Israele ne inventa quanti ne vuole da sempre.

Certo, è possibile che Hamas porti i palestinesi in un vicolo ancor più cieco di quello nel quale si ritrovano oggi; in ogni caso i palestinesi non la pensano così.

Comunque criticare Hamas è sin troppo facile; bisogna viverle le cose, crescere tra le macerie delle case familiari, passare le giornate tra drammi e desolazione facendo ogni sera il conto dei parenti morti. Aprire il rubinetto e scoprire che non c’è l’acqua. Andare al lavoro e, nove volte su dieci, essere fermato per ore ai posti di blocco in modo da perdere l’intera paga giornaliera. Vedere sbucare d’improvviso i soldati occupanti e osservare poi il selciato falciato e gli adolescenti caduti. Deve capitare anche a te di udire un rumore che viene dal cielo ma non è un presagio angelico e ritrovarti all’improvviso bersaglio di un “raid punitivo” perché se la prendono con te se da qualche parte qualcuno, esasperato, ha reagito a decenni di vessazioni. O magari neanche è successo ma così affermano sui media gli occupanti.

Bisogna vivere tutto questo, o quanto meno si deve avere la capacità di immaginarlo, prima di giudicare Hamas. Prima di criticarlo come prima di incensarlo.

E in ogni caso bisogna augurargli buona fortuna.

Solo questo volevo dire. Solo questo e poche altre parole che non si è soliti pronunciare ma che le dobbiamo a un uomo caparbio e libero: onore alla memoria di Arafat! Che ispiri dal cielo l’avvenire del popolo più martoriato della terra.