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Società

 

Facciamo un passo indietro di circa sei anni. Tra lo scetticismo generale suonai la campana d'allarme avvertendo che si puntava a instaurare in Italia la cittadinanza turistica utilizzando Balotelli. Qualche giornalista, lette le mie posizioni, scrisse che i fascisti volevano ripartire dal diritto di sangue. Invitai pure a non sostenere l'Italia agli europei del 2012 e ai mondiali del 2014 perché quel sentimento enfatizzato riguardo i “nuovi italiani” in versione bomber ci si sarebbe rivolto contro. Poi Balotelli, per fortuna, rovinò tutto.
Ma lo Ius Soli è stato ripresentato e se qualche giorno fa non è passato lo si deve all'assenza dei numeri legali nell'aula del Senato.
Ora si brinda. Leggo toni trionfalistici ed euforici da parte di tutte le componenti della destra per la vittoria conseguita contro questa minaccia di cui per diversi anni nemmeno si erano accorte.
La domanda è: tutti quelli che avocano a sé questa vittoria, possono davvero gioire?
La risposta è no: tutt'al più possono tirare un sospiro di sollievo ma anche in questo caso rischiano semplicemente di abbassare la guardia per nulla.

Parigi. Funerali di Johnny Halliday. Nessun uomo politico, neppure De Gaulle, ne aveva avuti di così imponenti, sentiti, partecipati. Il mio primo riflesso, lo ammetto, è stato quello tipico dell'imbecille che guarda gli altri con sdegno. “A cosa si è ridotta l'umanità, ecco cosa si merita, solo eroi da palcoscenico”. Sono certo che lo avete pensato anche voi e temo che lo pensiate ancora. Io invece ho potuto assistere a scene che aprono gli occhi. Un milione di persone, questa è la stima, ha occupato le strade di Parigi fin da prima dell'alba, molte erano venute da regioni lontane. Settecento motociclisti hanno fatto da apripista d'onore al feretro. Dovevano essere tremila ma la polizia ha preteso che il numero fosse ridotto per non essere debordata. Gente di ogni età, dai dodici agli ottant'anni con gli occhi lucidi, venuta a dare l'addio a chi è stato la colonna sonora della loro vita, per prendere in prestito le parole di Gianluca Iannone alla morte di Massimo Morsello.

Totò Riina. È morto un amico vostro, anche se lo avete rinnegato perché era caduto in disgrazia.
Vi riempite la bocca di retorica istituzionale, ma se maledite la mafia è solo perché essa, impadronitasi di tutto e fatto quindi un salto di qualità, non ha più un nome. Tanto che oggi chiamate mafiosi quelli che fanno del semplice malaffare e quando li bastonate cercate di far dimenticare che la mafia l'avete chiamata voi, l'avete insediata voi, le avete dato voi tutto il potere.
È sbarcata con gli americani e con la democrazia e si è ritrovata perfettamente nel vostro modo di vivere e di ragionare, fatto di conoscenze, di raccomandazioni, di complicità, di tangenti, di cosche, di logge, d'interessi materiali, di pizzi (la differenza con Equitalia? Può darsi che pagato il pizzo mafioso si riesca ancora a lavorare).
La mafia non l'avete combattuta mai, siete intervenuti in alcune guerre intestine come quando i Gotti e i Gambino vennero sgominati in Usa per l'alleanza con i colombiani contro la Dea, e allora avete colpito i loro referenti qui perché non erano più protetti.

Forse con il calcio la capisci.
13 novembre: l'Italia va fuori dal mondiale dopo 59 anni e ci ritroviamo dispersi sulle strade di Russia.
Eppure solo undici anni fa eravamo campioni del mondo: cos'è accaduto nel frattempo?
L'evoluzione della società e del sistema calcio hanno prodotto questo sfacelo mentre il trionfo, pur verificatosi in una situazione simile all'attuale, era stato concepito prima, in un ambito diverso e fu figlio di altri padri.

Non è stato un episodio
Ora s'inizia a scoprire che la colpa non è soltanto dell'allenatore o dei dirigenti perché oggi noi di calciatori non propriamente modesti ne annoveriamo davvero pochini, praticamente non ne crescono più, un po' perché nei vivai curano più la tattica della tecnica e della personalità, un po' perché questi già pullulano di stranieri. Inoltre i club non hanno pazienza e – salvo casi sporadicissimi – il massimo della maturazione i calciatori italiani l'hanno nella Sampdoria e nell'Atalanta.

Qualche chiarimento di fondo.
Il mio rigetto all'unirmi al coro dal “family day” non è dipeso solo da un sincero e assoluto fastidio verso qualsiasi espressione reazionaria. Il mio rifiuto è di metodo e punta a proporre, magari potesse imporlo, un taglio assolutamente diverso.
La reazione, qualunque sia il suo contenuto, da sola non paga mai. Illude, si nutre di sentimenti che mescolano l'oscenità con il buon senso, e poi concede immancabilmente al progressismo di avanzare, facendo sintesi tra un'altrui tesi strutturata (quella della Sovversione in avanti) e un a propria antitesi improvvisata (quella della Sovversione timorosa e arretrata che vanta delle caratteristiche tradizionali che invece non ha). Il risultato di ogni messinscena tra questi due poli dipende solo dagli accordi già presi alle loro spalle e che i pupari conoscono in anticipo.

Sabato a Roma si è celebrato il “Family day”, rigorosamente in inglese, il che la dice già lunga su tutto.
Dal punto di vista della mobilitazione della piazza è andata in scena una geometrica impotenza, sottolineata dall'improvvida scelta del Circo Massimo dove quindici anni orsono fu festeggiato lo scudetto della Roma. Ad essere davvero generosi, i manifestanti della “traditional family” erano un terzo rispetto ai romanisti. Il che significa, a voler essere davvero gentili, trecentomila persone. Che se ne siano dichiarate due milioni attesta una comicità conclamata.
Ma questo, di per sé non significa nulla, se non l'incapacità endemica di qualsiasi gestione reazionaria della psicologia delle folle che i reazionari, appunto, non sanno organizzare mai.