In nome del Diritto
Nel mentre che gli anchor men nostrani ci ipnotizzano straparlando del nulla e nutrendo il loro ed il nostro vampirismo di bassa lega con pettegolezzi allarmisti e sensazionalisti, centinaia, probabilmente migliaia, di uomini, donne e fanciulli vengono macellati quotidianamente e si aggiungono alla lista sterminata di vittime di seconda classe, insieme con i bambini iracheni morti per l’embargo americano sui medicinali (ammontano a più di un milione) e con le vittime dei genocidi turchi ed israeliani.
L’Onu si è degnato di fornirci un preventivo delle perdite: secondo l’Alto Commissariato per i profughi, sette milioni e mezzo di afgani, tagiki, uzbechi, hazara, pashtun afridi e shinwari sono oramai prossimi allo sterminio per freddo, fame, epidemie.
Ben di più del Numero della Shoah dunque; ciononostante, quello che si sta consumando non sarà dichiarato crimine contro l’umanità: c’è chi viene declassato anche nelle morti di massa.
Dalla Conferenza di Teheran sono passati quasi cinquantotto anni; da allora in nome del Progresso, della Democrazia, dell’Occidente, sono state immolate vittime a decine e decine di milioni: un’orgia di sangue continua, inarrestabile e coperta dal Diritto internazionale: quello dei più forti, di chi dispone dei mezzi militari più sofisticati e della dittatura finanziaria; e che ricorre al diritto di veto allorquando viene messo in discussione.
Un diritto internazionale che stabilisce, ad esempio, che in caso di conflitto, Giappone e Germania hanno torto a priori e non possono essere difese.
Un diritto internazionale che ha permesso e permette a chi ha un passato da terrorista nel senso stretto del termine (Stalin, Begin, Sharon) di parlare in nome della pace e di stabilire quale Paese e quale uomo politico sia accettabile nel consesso civile.
Un diritto internazionale che ha lasciato impunito un genocida, Tito, per poi rapire e processare all’Aja Milosevic, un di lui successore sicuramente assai meno criminale.
Un diritto internazionale che non ha posto sul banco degli imputati Saddam Hossein allorché scatenò una guerra sanguinosissima contro l’Iran, né ha messo in mora gli Americani e gli Inglesi che gli armarono ripetutamente la mano, ma ne ha fatto un Satana quando, per riparare in parte agli effetti economici disastrosi della guerra condotta ad istigazione e per conto dell’Occidente, occupò il Kuweit proprio su invito, prontamente ritirato, degli Stati Uniti.
Un diritto internazionale che ha a dir poco tollerato Osama Bin Laden quando collaborava con gli Inglesi (ovvero non più di tre anni fa, sempre che il rapporto non continui tuttora), ha tranquillamente ignorato che suo fratello fu socio d’affari della famiglia Bush e che, dunque, le relazioni tra il miliardario islamico ed il gotha occidentale sono strette e lo sono da parecchio tempo, ma non ha esitato a farne sbrigativamente l’Incarnazione dell’arretratezza culturale e del Male.
Un male che ricade su popolazioni inermi e prive di qualsiasi responsabilità come da tradizione politica, giuridica e militare dell’imperialismo angloamericano da sempre fondato sul terrore, sullo sfruttamento e sul saccheggio.
C’è imperialismo ed idea imperiale
Considerato in quest’ottica, quel che accade non può non farci parteggiare emotivamente per gli Afgani e per quanti altri siano obiettivo del massacro angloamericano.
Sono deboli, inermi, vittime di ingiustizia, e, per giunta, spesso calunniate. Sono anche poveri e reietti; il che è il triste effetto di un degrado che viene attribuito interamente all’Islam ma che dipende anche ed innanzitutto dal tipo di colonialismo subito, quello forse più violento, classista e dispregiatore dell’uomo che abbiamo conosciuto, ovvero l’Inglese.
Si narra che durante la Seconda Guerra Mondiale nell’Africa nord-orientale, che fu teatro di avanzate alterne, quando ad occupare i piccoli aeroporti locali erano gli Italiani, i nostri lavorassero ai velivoli ad hangar aperti mostrando così le tecniche agli indigeni, ma quando questi invece cadevano nelle mani degli Inglesi, costoro li chiudessero regolarmente per tenere all’oscuro i selvaggi.
Due visioni del mondo e del rispetto dell’uomo.
Roma non è Londra e tutti lo sanno bene. Nel 63-64 mentre girava il suo “Africa Addio” il regista Jacopetti fu sequestrato con tutta la sua troupe da un gruppo di insorti che, una volta accortisi che si trattava di Italiani, li rimisero in libertà appena in tempo perché già erano stati allineati contro il muro per essere fucilati… drammatico ma istruttivo. Gli Italiani, a differenza dei Belgi e degli Inglesi, non erano odiati come dei criminali, per una ragione assai semplice, perché non lo erano stati.
Se, come stipulato al vertice internazionale di Durban, può anche esser lecito considerare il Colonialismo come crimine contro l’umanità è perché di solito quando lo si definisce si pensa automaticamente al colonialismo inglese ed all’imperialismo americano.
L’Impero e l’idea coloniale connessa sono tutt’altra cosa ed i primi a riconoscerlo sono proprio le sue “vittime”. Che purtroppo hanno lasciato il posto a ben altre vittime, quelle del colonialismo delle Multinazionali.
Alle quali deve andare, non può non andare tutta l’umana solidarietà.
E qui ci fermiamo.
La guerra ha molti obiettivi e tanti risvolti
Prendere politicamente partito sarebbe invece un errore.
La guerra ha molti obiettivi e tanti risvolti. Un ruolo essenziale lo giocano dei fattori economici: ovvero l’oppio da eroina, il petrolio e la necessità di far ripartire la macchina dell’economia americana ed occidentale tramite la locomotiva bellica.
Un altro ruolo lo giocano i rapporti di forza interni al vertice mondiale. Innanzitutto i rapporti bilaterali Usa-Inghilterra, Usa-Israele, Israele-Inghilterra. Questi soggetti sono impegnati in una danza a tre nella quale i rapporti di collaborazione e di avversione si intersecano e si avvicendano dando vita a situazioni scabrose e aprendo il fianco a scontri epocali. Nell’attuale frangente Peres e soprattutto Blair stanno facendo salti mortali per impedire che il conflitto tra l’Amministrazione Bush e quella Sharon degenerino oltre il livello di guardia. Ed i Talebani, creatura pachistana legata a doppio filo agli interessi britannici ed israeliani, rientrano in pieno in questa guerra sporca. Un motivo di più per non essere meritevoli di particolare interesse da parte nostra.
Poi vi è la geopolitica con quel che ne consegue nel confronto tra Potenze interessate all’area: ovvero Iran, Pakistan, Cina, India e Russia oltre, ovviamente, agli Stati Uniti ed all’Inghilterra.
Vi sono infine le potenzialità deflagranti: la crescita cinese, la mina vagante israeliana e la ricomposizione del mosaico russo con possibili coinvolgimenti dell’Unione Europea. Ed è quest’ultimo l’unico obiettivo che ci interessa nella crisi afgana.
Per il resto impariamo a leggere tra le righe ed a riconoscere la realtà dietro le sue mascherature mediatiche e le sue banalizzazioni distorte.
La guerra in atto non è una guerra tra Occidente ed Islam (e soprattutto non lo deve diventare) e non è neppure una guerra della Globalizzazione contro le particolarità religiose ed etniche.
In che modo essa faccia anche il gioco della Globalizzazione lo analizziamo in altra parte di questa rivista, va però rammentato che può anche rivolgersi contro la Globalizzazione, tutto dipende da come evolverà e con quali contraccolpi regionali e mondiali.
Le opportunità che ci apre questo conflitto
Intendiamo perciò sottolineare che siamo contro questa guerra e solidali con chi la subisce, in quanto è in atto un’aggressione vile, sproporzionata, arrogante, che il nostro senso di giustizia non può accettare.
Siamo invece favorevoli a questa guerra nella misura in cui contrappone potenti a potenti; specie se questi antagonismi costringeranno, come è realisticamente possibile, Tel Aviv ad adeguarsi ad un grado di impunità ridotto, ed a maggior ragione se le circostanze, le mutue prepotenze e gli odi reciprocamente maturati, spingeranno Bush in piena rotta di collisione con gli stragisti di Sabra e Chatila.
Lo siamo nella misura in cui essa impone interventi politici d’autorità sulle economie, come già si profila in Usa, misure che contrastano con la disastrosa deregulation e con il processo di Globalizzazione. Un fenomeno di importanza notevole, rilevato da economisti americani ed europei e giustamente sottolineato da Rauti che ne ravvede le potenzialità rivoluzionarie.
E siamo vieppiù tentati di essere entusiasti di quanto accade, nella prospettiva che questo conflitto ingeneri fattori di instabilità internazionale in grado di consentire la ricomposizione di una potenza europea. Un’ipotesi, questa, che, come abbiamo avuto occasione di argomentare negli scorsi mesi, è tutt’altro che impossibile.
Ci resta però da considerare con una punta di amarezza che il nostro difetto, sia come Italiani che come Europei dell’Ovest, sta nell’osservare gli eventi e nell’aspettarne gli esiti speranzosi ed impotenti, come eunuchi che non han perso il desiderio ma le possibilità di appagarlo.
Le condizioni storiche richiederebbero da noi ben altro spirito d’iniziativa e ben altra fiducia nel Destino.
Alla fin fine il nostro è un problema di virilità, spirituale: bisogna essere uomini per poter essere uomini.
Ed è proprio quello che in Europa occidentale abbiamo disimparato: siamo una periferia perché non siamo più in grado (ma preferisco dire perché non siamo ancora in grado) di concepirci e di agire da protagonisti.
Perciò, anziché posizionarci sugli eventi altrui, compiamo una trasformazione assiale e torniamo ad immaginarci ed a farci Centro.
E’ dal Centro che la Civiltà crea e qualifica lo spazio nel quale compie il proprio Destino.