Frattanto in Francia un uomo politico fortemente no correct , alla faccia di tutti gli intelligentoni, dimostra che rispondendo all’adagio squadrista “a parlar chiaro si va” si fa più strada che non ammiccando e tergiversando. E sale agli onori della cronaca mondiale, imponendosi come il primo uomo politico del dopoguerra europeo che sia riuscito a competere per un’opzione governativa in nome di idee forti non rinnegate né annacquate.
È il ritorno della politica, il colpo di coda delle passioni dimenticate o cos’altro ancora ?
di cosa si tratta ?
Chiediamoci: siamo noi in grado di stabilire di che cosa esattamente si tratti ?
La nostra distanza oggettiva da questi eventi sismici ci impone di riflettere: non ci siamo forse rinchiusi in percorsi labirintici che, senza elevarci alla potenza dell’oligarchia, ci hanno distratto dalla partecipazione popolare ?
Avendo vissuto per anni un confronto ovattato e salottiero che eludeva le piazze, durante il quale abbiamo assistito, non sempre lucidi, alla trasformazione progressiva dalla democrazia diretta (o meglio dalla partecipazione popolare) a quella indiretta e, poi, dalla democrazia delegata all’oligarchia, avevamo perso l’abitudine ai sapori genuini e questi, oggi, ci disorientano.
Nel frattempo il nostro apprendistato di realpolitik, lontano dalla piazza ed in prossimità dei salotti e delle aule, non si è rivelato troppo efficace; difatti siamo ancora al palo se non siamo capaci di intendere in cosa oggi consista realmente la politica, se in congiure di palazzo, in partite a scacchi nel seno di amministrazioni locali o in conati di mobilitazione popolare.
E si badi che non usiamo il noi come pluralis majestatis ma, assai più immodestamente, come plurale collettivo, includendovi tutti coloro che invece sono convinti di contare, specie nei quartieri secondari del Palazzo.
spiazzati davanti agli eventi
Perché, dunque, questo nostro spiazzamento ?
Innanzitutto per l’impreparazione.
Un’impreparazione che, prima ancora di riguardare la nostra cultura ed il conseguente operato, concerne la nostra capacità di leggere i dati reali.
La trasformazione dei fattori economici, delle tecnologie, dei rapporti di forza tra nazioni europee e padroni del mondo, negli ultimi anni ha prodotto a velocità impressionante un sistema oligarchico che tende all’uniformità. Siamo entrati in un’era nuova che ha come caratteristiche la divaricazione sociale e la lontananza della gente dai centri decisionali.
Nell’ultimo decennio si è così fatta strada l’impressione che la politica, appunto in quanto oligarchica, sia divenuta qualcosa di astratto, di riservato a pochi eletti i quali, d’altra parte, non sempre sono stati eletti.
Questo ha prodotto una disaffezione generale, l’attenuarsi delle passioni, delle idee e dei grandi progetti. Ed ha indotto in errore chi ha da sempre vissuto la politica come organizzazione spontanea delle spinte giovanili, le quali, poiché si sono disperse in altre direzioni, sono divenute impercettibili e vengono date erroneamente per morte.
La stessa politica classica è stata soppiantata da una conduzione dichiaratamente cinica della Cosa Pubblica (che si va via via privatizzando) scandita da affermazioni programmatiche assai prudenti, espresse con toni tenui. Ha così prevalso il finto buon senso, la moderazione borghese, sinonimo di indolenza e di incapacità di sognare.
Chi voglia battersi per cambiare il mondo o quantomeno perché il mondo non cambi lui, è oggi considerato un utopista.
A quest’utopia, a questo avventurismo, a questa marginalità, si è andato sinuosamente contrapponendo il credo del realismo, del pragmatismo.
In molte lande occidentali, ma in Italia in particolar modo, si è finiti col presupporre un antagonismo tra realismo e idealismo e si è quindi concluso che se ci si riconnette ad idee forti si finisce immancabilmente con l’essere emarginati mentre se si vuole incidere sul territorio (questa è la nuova formula del politichese) si è obbligati a mettere acqua nel vino; talmente tanta da scordarsi definitivamente di Bacco, Dioniso e qualsiasi ebbrezza sacra.
vere e proprie vocazioni impolitiche
Evidentemente entrambi i postulati sono erronei e ci inducono all’errore.
Questo malinteso fuorviante si è reso possibile in quanto non esiste una concezione politica complessiva.
Per una serie di difetti cronici, acquisiti attraverso i decenni, coloro che si rifanno ad una visione del mondo e della vita o che, più frequentemente, sono uniti da dei precisi riferimenti emotivi, concepiscono oggi la politica in un modo solo: come l’espressione totalitaria, onnicomprensiva, potremmo dire monoteistica, di un partito (o gruppo, o corrente, od organizzazione o clan) che lancia proclami ai quattro venti e che progredisce a colpi di clava, o di stiletto, quando prediliga la via istituzionale.
E dunque, rinchiusi nelle proprie quattro mura, prigionieri della logica del proprio obiettivo particolare, tutti smarriscono la visione d’insieme. Il particolarismo, chiaro effetto dell’individualismo massificato dell’attuale cultura dominante, regna sovrano e ci neutralizza.
Quest’oggettiva limitazione non è l’unica, intervengono altri pregiudizi sterilizzatori: l’autosoddisfazione (non necessariamente nel senso di autogratificazione ma sicuramente in quello del ritenersi sufficienti a se stessi) e l’illusione dell’immutabilità del presente. Errore, questo, tipico degli esseri comuni ma che non può essere commesso dagli imprenditori, dagli strateghi o dai dirigenti politici pena il disastro.
Perciò ogni équipe che abbia raggiunto i limiti umani delle proprie risorse ristagna, si arena, si avvolge su se stessa del tutto incurante delle realtà affini o similari che ignora tranquillamente.
Manca appieno la comunicazione e, pertanto, migliaia e migliaia di individui, all’oscuro di quanto accade negli altri Paesi, nelle altre città, negli altri quartieri, si ritrovano ad essere neutralizzati e messi fuori gioco per assenza di relazioni.
Queste che potremmo definire come generalizzate vocazioni impolitiche, sono aggravate da radicatissime convinzioni errate, per le quali, ad esempio chi abbia scelto il veicolo di un partito istituzionale, per non alienarsi la disponibilità dei suoi interlocutori più altolocati, ha remore e paure a fare dichiarazioni forti o a far sponda su chi abbia praticato scelte diverse. Sbagliando perché la casistica dimostra che proprio chi segua la strada opposta ottiene di più dai suoi contraenti. Purtroppo sono le convenzioni a rendere schiavi della logica dei riflessi condizionati; sicché più che la censura può l’autocensura.
Né gli emarginati, che amano immaginarsi puristi, sfuggono alla follia della chiusura, si trincerano in se stessi, per ragioni diverse ma con il medesimo risultato.
La mancanza di visione d’insieme porta così alla frantumazione, la quale non consiste tanto nel moltiplicarsi delle sigle e dei gruppi dirigenti quanto nel fatto che essi non trovino alcuna forma di convergenza oggettiva. Come avviene invece a sinistra, o nell’estrema destra d’Oltralpe e com’è logico che sia perché esista un sistema articolato di forze, dunque una dinamica, dunque una possibilità di incidere. Perché la punta del giavellotto, per acuminata che sia, incide grazie alla massa dell’asta, alla velocità della traiettoria, alla potenza ed alla dinamica dell’intero lancio.
Ragion per cui le occasioni, tutte, da quelle offerte dalle leve di potere locale a quelle forniteci dai sismi sociali e culturali, ci passano accanto o vengono colte solo superficialmente.
apprendere a compenetrare la realtà
Di fatto restiamo inchiodati al prepolitico, come dieci anni fa , come venti anni fa. Che fare allora ?
Nulla riguardo a Le Pen, ai no global ed all’articolo 18. Nulla perché il massimo che sapremmo fare è di scimmiottarli oppure di guardarli dall’alto in basso con la protervia di chi si sente appagato dalla propria immobilità.
Ma il loro irrompere nella vita pubblica, per effimero e strumentale che sia (vero Casarini ?) ci serva da segnale della nostra estraneità dalle dinamiche e ci sia utile come incentivo a guardare altrimenti l’attualità.
Per altrimenti si intenda con capacità critico-analatica. Ovvero: con capacità di capire cosa significhi esattamente un fenomeno, che cosa lo abbia generato, chi lo guidi, lo strumentalizzi o lo osteggi, quali sono le sue possibilità di sviluppo e le prospettive, quali conseguenze faste o nefaste siano prevedibili e quali, eventualmente, provocabili da un soggetto politico.
A questo dovremmo dedicare i nostri sforzi: a leggere la realtà come una mappa topografica e a concepire nois stessi come un soggetto operativo (in fieri) che sia in grado di costruire il proprio futuro.
Gli articoli con i quali abbiamo voluto fare un giro d’orizzonte dell’attualità politica non vanno ancora in tal senso, ché ci si riuscirà solo dopo un’adeguata (auto)scuola. Ma in tal senso si dovrebbe provare a leggerli e a capitalizzarli. Così con Massimiliano Rossi siamo ritornati sull’articolo 18; ci siamo soffermati sull’oligarchia che viene trattata sia in senso di dinamica socioculturale (Valerio Ricci) che nelle sue espressioni pittoresche e pseudo-esoteriche (Paolo Caratossidis).
Abbiamo anche affrontato la disaffezione giovanile e popolare rispetto alla politica facendone carico al sistema bipolare (Raistlin) mentre, per contraltare, si è messo l’accento sulle aperture oggettive che il bipolarismo ha operato verso la matrice di eredità mussoliniana (Daniele Petraroli).
Saremo felici se questi articoli non verranno letti come se si trattasse di proclami programmatici, o dei nuovi punti della Repubblica Sociale, ma come spunti per un’introspezione; saremo soddisfatti se i lettori non si divideranno tra anti-bipolaristi e possibilisti, tra antilepenisti (il che sarebbe anche accettabile se tra costoro qualcuno avesse la minima idea di Le Pen come uomo, come capo politico, come idee, come radicamento di potere, come contesto, come alleanze oggettive e come nemici reali) o lepenisti entusiasti (i quali, temiamo, non lo sarebbero per i giusti motivi).
saper guardare in divenire, sapere apprezzare in potenza
Ci piacerebbe che si rifuggisse dalla tentazione di pontificare con acrimonia intellettualistica e salottiera e che ci si provasse a relazionare con le dinamiche reali armati della mentalità di chi intende intervenirvi per indirizzarle.
Come primo frutto della nostra tendenza metapolitica (intesa come un’intelligenza che indirizza la politica), ci piacerebbe che qualcuno iniziasse a leggere la quotidianità tra le righe, con la mentalità impersonale, funzionale, organica, armonica e chirurgica di chi la terminologia di un tempo avrebbe definito come quadro rivoluzionario.
Lo scopo ? Provare ad immaginarci finalmente come unità impersonali, come parti di un tutto organico che non accettano di vivere per delega ma si sentono chiamate direttamente in causa ed osservano perciò la politica e la vita come un agone in cui battersi e vincere.
Chi vuole agire, e non agitarsi, crea e, pertanto, guarda intorno a sé con occhio aguzzo cercando di trarre dal fango confuso delle diverse situazioni l’argilla da modellare per la propria opera e soprattutto intravedendo in tutti gli artisti e gli artigiani potenziali la corporazione che darà forma alla materia.
Egli impara, quindi, a guardare in divenire e ad apprezzare in potenza. Non soltanto in atto e per partito preso.
l’insegnamento transalpino
Ciò detto consentiteci di tornare sull’argomento che ci pare più emblematico in quanto specchio della nostra globale imperfezione: il fenomeno lepenista.
Qualsiasi cosa esso ci suggerisca, almeno di un insegnamento si faccia tesoro e da questo si parta: dalla Francia ci apprendono che non solo si possono ma che addirittura si debbono coniugare il realismo e l’idealismo, l’intransigenza e la capacità tattica, l’acquisizione di spazi di potere e la difesa di un’identità forte.
Ciò si è reso possibile perché l’interprete indiscusso di tutta la dinamica nazionalsocialpopolare è un uomo, per giunta integro ed intelligente, e perché la concretezza e l’umiltà colà convivono con il senso di appartenenza generale (a prescindere dalle tribu, dai clan, dalle opzioni religiose e dai totem ideologici, tutti si sentono parte integrante della medesima famiglia politica).
Tant’è che, pur trovandosi nel contesto traumatico di una scissione, tutti, ad iniziare dai quadri megretisti si sono sentiti partecipi dell’evento e si sono messi a disposizione senza chiedere nulla in cambio. I militanti megretisti hanno partecipato entusiasticamente alla campagna del secondo turno ed hanno fornito in larga misura il servizio d’ordine del corteo del 1 Maggio.
Ma vi è di più, poiché in molti hanno considerata prioritaria la causa sulle persone, i consiglieri regionali megretisti d’Alsazia hanno preferito, già ai primi d’aprile, firmare per la candidatura di Le Pen che non per quella del loro leader.
Più che il personalismo poté l’intelligenza politica e l’onestà militante.
Il rovescio di quanto impera oggi, da questa parte dell’arco alpino.
Proviamo allora anche noi a cominciare dall’inizio.