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 Malgrado la sequela di ammissioni di colpa e di menzogna dell’amministrazione Usa e di quella di Blair, il Big Brother sembra invitto ed invincibile.
Non lo è affatto, ma finché bluffa, ha in mano la posta e gioca con carte truccate, chi potrà batterlo a poker ? Solo chi saprà rovesciare il tavolo.
O chi, più semplicemente, lo diserterà e cambierà gioco.
Assurdo ? Utopico ? Forse che si e forse che no; perché in fondo si tratta proprio di questo: di cambiare gioco.

Matrix

I mentori dell’americanismo, dell’occidentalismo, della bontà intrinseca del "libero mercato" (qualcosa di libero lo vorranno anche loro, no?) avranno ragione fin tanto che si giochi esattamente quel gioco e fino al giorno in cui quel gioco non ci rovinerà tutti, nessuno escluso, nemmeno loro.
Ma di che gioco si tratta ? Di quello dell’esproprio e del massacro.
Il sistema dominante si fonda su tutta una serie di imposizioni criminali, basate sulla minaccia militare, la truffa, la riduzione in schiavitù, la vendita di morte sotto varie forme (dalle armi ai narcotici), la bolla speculativa e l’ipnosi mediatica.
Siamo tutti schiavi di Matrix e, le poche volte che ce ne avvediamo e che inseriamo una variabile impazzita, a differenza di Neo, il protagonista della pellicola, prendiamo sempre la porta sbagliata e ricarichiamo il programma perché scegliamo un’opposizione prevista, integrata e perfettamente immersa nei meccanismi psicologici e comportamentali che imperano.
E allora quel che in realtà è debolissimo, precario, ci sembra formidabile, inamovibile, ineludibile.
E il libero mercato, gli Usa, il global-consumismo assurgono al valore del Verbo.

La locomotiva arranca

Eppure la locomotiva arranca. Per uscire dalla più forte recessione dopo quella del ’29 (ci è riuscita, non ci è riuscita ? Gli esperti non concordano) ha dovuto scatenare una serie di guerre su scala mondiale. Se queste ne hanno rilanciato la produzione (e non ne siamo ancora certi), se l’economia americana godrà dei loro mortiferi effetti benefici (e lo sapremo a fine del 2004, ci dicono), la società statunitense, lungi dal trarne giovamento, ne sarà ulteriormente martoriata.
Si prevedono drastici tagli ai già scarsi fondi per gli orfanotrofi, per i senza tetto, per l’assistenza medica e sociale, in un Paese classista e calvinista nel quale veder morire il prossimo con indifferenza è al contempo un’abitudine e un sinonimo di virtù.
Intanto la disoccupazione dilaga, l’analfabetizzazione aumenta e, con essa, le morti infantili.
Gli Usa sono sull’orlo del baratro e per evitare la bancarotta ricorrono soltanto allo sfruttamento integrale e intensivo delle altre nazioni e regioni tutte.
Lo fanno tramite le imposizioni del WTO e ai diversi trattati paralleli (come l’ALCA) che garantiscono alle multinazionali americane lo sfruttamento altrui e la protezione dalla concorrenza dei Paesi a produzione a buon mercato.
E lo fanno anche con un battage propagandistico a favore del libero mercato del tutto falso e pretestuoso.
Ha Jo Chang, economista all’università di Cambridge, ha messo chiaramente il dito sulla piaga.
Come riportava Le Monde Diplomatique (1) lo scorso giugno, l’economista ha rilevato alcuni dati di primaria importanza.

Il libero mercato: un inganno

Egli e Gorge Monbiot fanno notare che “il  mito fondante delle nazioni dominanti è quello di aver raggiunto la loro superiorità industriale e tecnologica tramite il libero commercio. Alle nazioni che oggi sono povere viene detto che se vogliono seguirci nella strada per il successo, devono aprire le loro economie alla concorrenza straniera. E questo è un inganno. Quasi tutte le nazioni ricche si sono industrializzate con l'aiuto di uno o due meccanismi ora proibiti dalle leggi del commercio globale.
Il primo è la "protezione dell'industria nascente": la difesa delle nuove industrie dalla concorrenza estera finché non siano abbastanza grandi da poter competere alla pari. Il secondo è il furto di
proprietà intellettuale. La storia suggerisce che lo sviluppo tecnologico può essere impossibile senza uno di questi meccanismi, o entrambi.
La rivoluzione industriale in Gran Bretagna è stata fondata sull'industria tessile. Questa è stata protetta e promossa da uno spietato intervento statale.
Dal XIV secolo in poi, lo Stato britannico ha sistematicamente tagliato fuori i concorrenti, attraverso la tassazione o il bando dell'importazione di  prodotti finiti e il bando dell'esportazione di materie prime (lana e tessuto grezzo) a Paesi che avevano industrie concorrenti. Lo Stato ha introdotto leggi di protezione simili per i nuovi manufatti che abbiamo cominciato a sviluppare all'inizio del XVIII secolo.
È solo quando la Gran Bretagna ha ottenuto una indiscussa superiorità tecnologica in quasi ogni aspetto della produzione industriale che ha scoperto le virtù del libero commercio. È stato solo negli anni dal 1850 al 1870 circa che ha aperto la maggior parte dei suoi mercati.
Gli Stati Uniti, che adesso insistono sul concetto che nessuna nazione può svilupparsi senza il libero commercio, hanno difeso i loro mercati con la stessa aggressività durante la fase chiave del loro sviluppo. Il primo ad esporre sistematicamente le ragioni della protezione dell'industria nascente è stato Alexander Hamilton, il primo Segretario del Tesoro USA. Nel 1816 la tassa su quasi tutti i prodotti finiti importati era del 35%, il che sale al 40% nel 1820 e, per alcuni beni, al 50% nel 1832.(2) Questo fattore, insieme al costo del trasporto delle merci negli Stati Uniti, ha dato ai produttori interni un vantaggio formidabile nel loro mercato di origine.
C'è una buona possibilità che il protezionismo sia stato una causa più immediata della guerra civile americana che non l'abolizione della schiavitù. I dazi alti aiutavano gli Stati del nord, che si
stavano industrializzando rapidamente, ma danneggiavano gli Stati del sud, che dipendevano fortemente dalle importazioni. La vittoria dei repubblicani fu la vittoria dei protezionisti sui sostenitori del libero mercato: nel 1864, prima della fine della guerra, Abramo Lincoln (che disprezzava pubblicamente i neri) aumentò le tasse di importazione al loro massimo storico. Gli
USA rimasero la nazione più protetta del mondo fino al 1913.(3) Per tutto questo periodo, fu anche la nazione che crebbe più rapidamente.”

Le economie solide sono protezioniste

”Le tre nazioni che si sono sviluppate in modo più spettacolare negli ultimi 60 anni (Giappone, Taiwan, Corea del Sud), non l'hanno fatto tramite il libero commercio ma tramite la riforma agraria, la fondazione e la protezione di industrie chiave e la promozione attiva delle esportazioni da parte dello Stato. Tutte queste nazioni hanno imposto controlli severi sulle imprese estere che cercavano di aprire fabbriche sul loro territorio.(4) I loro governi hanno investito massicciamente nelle infrastrutture, nella ricerca e nella pubblica istruzione. In Corea del Sud e Taiwan, lo Stato possedeva tutte le principali banche commerciali, il che ha permesso allo stesso Stato di prendere le decisioni più importanti sugli investimenti.(5) In Giappone, il Ministero del Commercio Internazionale e dell'Industria esercitava lo stesso controllo con mezzi legali.(6) Questi Paesi hanno usato tariffe ed astuti trucchi legali per escludere prodotti esteri che minacciavano lo sviluppo delle nuove industrie.(7) Hanno concesso ingenti sussidi alle esportazioni. In altre parole, hanno fatto tutto quello che l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, la Banca Mondiale e il FMI proibiscono o scoraggiano oggi.

I paesi poveri devono restare poveri

Le regole commerciali proibiscono alle nazioni che sono povere oggi di seguire sia l'una che l'altra strada per lo sviluppo. Le nuove industrie sono immediatamente esposte alla concorrenza con aziende estere affermate, che hanno capitali, esperienza, diritti sulla proprietà intellettuale, reti di marketing consolidate ed economie di scala dalla loro parte. Il "trasferimento tecnologico" è incoraggiato in teoria, ma proibito nella pratica da un regime sui brevetti sempre più spietato. Incapaci di sviluppare da sole delle proprie imprese competitive, le nazioni povere sono bloccate nella loro posizione di fornitrici di manodopera e materie prime a basso costo per le aziende
del mondo ricco. Ne risulta che è a loro proibito avanzare oltre un certo livello di sviluppo. Se da una parte non ci sono ragioni valide per permettere alle nazioni ricche di proteggere le loro economie, appaiono dall'altra evidenti quelle per permettere alle nazioni povere di seguire gli unici percorsi di sviluppo che sembrano funzionare.”

I paesi ricchi diventano poveri

Cosa si evince da tutto ciò ? Ad una prima lettura si deduce, scoprendo l’acqua calda, che l’attuale sistema è basato sullo sfruttamento e che la ricchezza di uno – nel modello americano - altro non è se non la schiavizzazione di quattro. Che questi quattro sono obbligati a permanere schiavi, pena il fallimento dell’uno e lo sgretolamento del sistema tutto. Ma questo non ci porterebbe molto avanti, ancorandoci esclusivamente a considerazioni morali.
Se ci soffermiamo a riflettere e ad analizzare scopriamo un’altra verità di Colombo, che però è leggermente più interessante dal punto di vista delle prospettive. E cioè che non ci troviamo più in un’economia di produzione. Rispetto ai secoli passati la società ricca, pur restando oggi come ieri predatrice, non è più produttrice ma quasi esclusivamente consumatrice. E, di fronte ai sobbalzi critici delle bolle speculative sulle quali ha edificato la sua ricchezza effimera e simoniaca, si trova in difficoltà.
L’ultima trovata invereconda di Tremonti, quell’ignobile proposta di rilancio dell’economia tramite le mini-ipoteche sull’abitazione, si commenta da sé dal punto di vista etico e sociale.
Ma da quello economico necessita di essere spiegata: è un ulteriore tentativo di fare liquidi raschiando il barile e impoverendo le famiglie e i cittadini. Costoro, difatti devono trovare denaro da spendere e se non possono più riceverlo dalle borse ipergonfiate devono ricorrere alla borsa propria.
Più o meno così si manifestò lo storico tracollo del ’29 che ebbe cause in parte diverse.
Come andiamo affermando da quasi venti anni, ci avviamo a passi veloci verso la generale proletarizzazione.
Ora noi potremmo anche interpretare l’intera dinamica come il frutto di un disegno osceno da parte di quelle poche centinaia di pescicani che si stanno appropriando della titolarità di tutti i beni del mondo, e forse non sbaglieremmo. Ma è necessario tener presente che assistiamo, contemporaneamente, ai sintomi di impoverimento e di tendenza all’inerzia di un sistema malato che trova sempre maggiori difficoltà a mantenersi e a rigenerarsi.

Faide nel sistema capitalistico

Da tutto questo consegue che una profonda modifica internazionale non è impossibile perché i dettami attuali ogni giorno di più scontentano i partners della Superpotenza.
I quali potrebbero trovare la forza e cogliere l’opportunità per sventare il gioco americano, causando così danni strutturali incalcolabili al sistema yankee, senza per questo dover previamente esprimere un sistema non capitalista.
Perché, infatti, aree economicamente ed energeticamente autosufficienti, per giunta in possesso di tecnologie avanzate e di notevoli patrimoni intellettuali, come l’Europa, dovrebbero accettare di farsi portare alla rovina totale soltanto per ritardare il tracollo americano ?
La sottomissione psicologica e politica fino ad oggi è stata sufficiente a che le dirigenze europee sottostessero al diktat depauperante d’oltreoceano, ma il punto critico si approssima e una reazione è tutt’altro che impossibile. (8)
Già, ma di che reazione parliamo ? Non certo di una reazione radicale e decisiva, piuttosto di uno strappo i cui effetti, però, è arduo valutare anticipatamente.
Una reazione in ogni caso al liberismo selvaggio e alla tracotanza americana.
C’è chi reputa assurdo e improponibile tutto questo all’interno di un sistema capitalista, ma probabilmente si sbaglia.

Capitalismo, libero mercato e proprietà privata

Per comprenderlo dovremmo accantonare le definizioni un po’ troppo sommarie, generalmente di matrice marxiana, che rendono difficoltosa una messa a fuoco sufficientemente precisa dell’universo capitalista.
In genere si tende a confondere sempre un sistema che prevede la proprietà privata e la libera iniziativa con il sistema capitalista e quest'ultimo con il liberismo (il dogma del libero mercato).
Come le citazioni di Monbiot e Ha Jo Chang aiutano a comprendere, non c'è invece equivalenza assoluta tra il capitalismo e il liberismo. E come altre scuole di pensiero (l'economista francese Allais, premio nobel per l'economia) spiegano, nemmeno vi è equivalenza obbligata tra capitalismo e proprietà privata.
Esistono, quindi, diversi capitalismi che possono anche andare allo scontro.
Aggiungiamo infine che capital-ismo vuol dire prevalenza assoluta del capitale sul lavoro, sui diritti e persino sulla proprietà privata (non lasciamoci ingannare dalle "privatizzazioni" che sono operazioni di esproprio a buon mercato dei beni collettivi da parte di holdings anonime).
Si tratta dunque di una perversione gerarchica oltre che di un’iniquità sociale.
Su queste basi concettuali dovremmo operare un reindirizzo delle nostre prospettive.

Cambiamo gioco

Questo reinidirizzo può limitarsi nell’accogliere come salutare, o magari nell’incoraggiare, qualsiasi strappo interno al capitalismo, qualsiasi ostacolo nel seno del sistema si frapponga al liberismo e all’egemonia americana, favorendo una ripresa europea con le annesse migliorie politiche, sociali e morali.
Il farlo, sicuramente limitante dal punto di vista valoriale ed emozionale, è opportuno comunque, a prescindere dai relativi miglioramenti di condizioni di vita, perché punta ad una modifica del quadro esistente. Sappiamo che gli scenari non si modificano mai esattamente come lo si desidera eppure, nel modificarsi gli scenari, spesso si verificano condizioni promettenti e foriere di cambiamenti importanti, a volte persino rivoluzionari.
Tuttavia quest’adesione di stampo tifoso all’eventuale prodursi di alternative all’oligarchia dominante, non può soddisfarci né portarci lontano.
Il nocciolo del problema, come abbiamo avuto modo di sostenere in apertura di questo intervento, sta infatti nel CAMBIARE GIOCO.
Per cambiare gioco si deve concepire tutto daccapo. E, soprattutto, si devono produrre (come saltuariamente già si è iniziato a fare) economie alternative, fondate sulla proprietà sociale e su di una gerarchia corretta tra lavoro e capitale, il quale ultimo dev’essere inteso esclusivamente come strumento della comunità proprietaria e lavoratrice.
Una rivoluzione concettuale, sull’asse dell’AFFRANCAMENTO dalle logiche anguste, oppressive e depressive del grande magma, che è possibile solo se si effettua una rivoluzione interiore in chiave anti-individualistica dando per sommi valori la partecipazione ad una dimensione e a un destino di comunità e la crescita della persona liberata dai laccioli dell’egoismo che è materialista e massificante.

Superiamo il capitalismo

Costruire un sistema di vita e di economia completamente diverso, cosciente ed autocentrato, che sia animato da uno spirito predatore, di conquista, e non dalla chiusura a riccio dietro una barricata immobile, e coniugarlo con una prospettiva politica generale ispirata all’affrancamento dall’americanismo, è una tappa obbligata per l’instaurazione di un processo di autodeterminazione e di liberazione. Questo oggi, magari, fa sorridere ma è realisticamente attuabile grazie alla magia dell’esempio e alle leggi dell’emulazione che intervengono allorché il sistema in vigore fa acqua da tutte le parti e quello costruito spontaneamente si dimostra valido esistenzialmente ed economicamente.
La coniugazione tra questa che secondo un’ottica tradizionale potremmo arrischiarci a definire come grande rivoluzione silenziosa e la partecipazione chiassosa all’indicazione di orizzonti politici a vasto raggio (antiliberalismo, Eurasia) dà così vita ad una dinamica che, lungi dall’essere ghettizzante, si vuole attivamente e fattivamente liberatrice e che, per avere successo e per risultare autentica, deve progressivamente coinvolgere tutte le espressioni di matrice socialista e ghibellina e la gente comune.
Etica, empirismo, intuizione, metodologia, fatica e programmazione, tutto questo accompagnato ad una capacità di rimettere in causa le certezze acquisite e i luoghi comuni dell’ideologia cristallizzata, costituisce una dinamica di avanguardia e non di retroguardia, il cui scopo è quello di riuscire, finalmente, il superamento del capitalismo.
Una direttrice, questa, che non può non produrre confluenze trasversali e, soprattutto, innovazioni di costume e di politica. Come avremo modo di approfondire all’UdE a metà settembre.


 
1.Dall’opera di  Ha-Joon Chang, 2002. Kicking Away the Ladder: Development Strategy in Historical Perspective. Anthem Press, Londra.
2. ibidem
3. ibidem
4. Mark Curtis, 2001. Trade for Life: Making Trade Work for Poor People. Christian Aid, Londra.
5. John Brohman, April 1996. Postwar Development in the Asian NICs: Does the Neoliberal Model Fit Reality? Economic Geography, Volume 72, Numero 2.
6. Takatoshi Ito, 1996. Japan and the Asian Economies: a "Miracle" in Transition. Brookings Papers on Economic Activity.
7. Graham Dunkley, 2000. The Free Trade Adventure: The WTO, the Uruguay Round and Globalism. Zed Books, Londra.
8. A metà luglio è stato  lo stesso Tremonti, nell’annunciare ai giornali  i suoi propositi di abbandono, a sostenere che i problemi della nostra economia derivano dalle leggi del libero mercato e che se ne potrà uscire soltanto con una politica protezionistica europea