Non è difficile renderci conto che quasi tutte queste possibilità indicano uno spirito adolescenziale, che nulla ha a che vedere con la gioventù o la fanciullezza, ma tradisce immaturità, instabilità e anche nevrosi.
Dovremmo innanzitutto guardare dentro di noi per sciogliere questo equivoco. Perché non possiamo agire senza essere un soggetto consapevole. Senza l’uno non vi sono multipli, senza soggetto non esiste oggetto, il verbo si declina al passivo e noi, quand’anche cessassimo di essere inerti, resteremmo appunto passivi.
Temo si tratti di inconsistenza
Cosa può caratterizzarci: un’ideologia? Un modello teoretico da inseguire? In tal caso potremmo scegliere di disegnare a piacere Terra e Marte come Catalunya Imperial; l’uno vale l’altro nella loro più assoluta inconsistenza.
Inconsistenza! Di questo ancora si tratta. Solo pochi anni fa il vostro grido era Spagna! Poi è divenuto Europa! Ora parlate di Eurosiberia differenziandolo – a mio avviso con giusto criterio – dall’Eurasia. E domani? Parlerete magari proprio di Eurasia o addirittura di Mondo.
Ho il sospetto che quanto meno si aderisce alla realtà, quanto meno s’incide, più si allarghi il raggio del cerchio immaginario che si vorrebbe disegnare e che obbligatoriamente non si disegnerà.
Eredità, ottica, attitudine
Prima di parlare di formule, parliamo di noi. Cosa siamo? Eredi? È una parola grossa; un’eredità bisogna innanzitutto meritarsela, poi non dilapidarla. Chi oggi ereditasse un latifondo, per non rovinarlo dovrebbe rinnovarlo, magari creando un’azienda di trasformazione di prodotti agricoli.
Posto che si abbia a disposizione un’eredità, sperando che non ci si sia puramente e semplicemente appropriati di qualcosa che nessun altro vuole ma non per questo noi meritiamo, dobbiamo definire l’ottica a partire dalla quale vorremmo trasformarla. Un’ottica reazionaria o interventista? Io temo che sia sempre troppo reazionaria. Eurosiberia (e anche Eurasia) viene immaginato come un qualcosa che nasca in reazione agli Stati Uniti e non per volontà di potenza. Lo stesso termine “identitari” che va sempre più di moda nei paesi occidentali multietnici mi fa pensare al ghetto difensivo, a un’apartheid che si sceglie nell’illusione di fermare il tempo.
Infine qual è l’attitudine con la quale si guarda alla politica? Quella del tifoso o quella dell’attivista?
Ogni giorno che passa noto che è del tifoso la mentalità prevalente.
Quel mondo che è cambiato
Non dilapidare bensì rinnovare l’eredità, agendo con un’ottica interventista e un’attitudine attivistica è per me la condizione necessaria anche solo per esistere.
Già, ma come in concreto? Abbiamo capito gli scenari in cui ci troviamo?
Il mondo è cambiato. Un dislivello, non solo socioeconomico ma di conoscenza e consapevolezza divide le oligarchie dalla moltitudine. E le “avanguardie” degli anni Sessanta e Settanta, che non facevano parte delle oligarchie, capirono poco e scambiarono per il rosso dell’alba quello del tramonto. Tutto l’approccio era sbagliato allora, ripeterlo oggi sarebbe grottesco.
Viviamo in un sistema ben più avanzato di quello disegnato da Orwell o da Bradbury. C’ipnotizzano con il sentimento di una guerra continua, ci cambiano di forza le abitudini, ci trasformano il pensiero e il modo di vivere, privandoci della libertà e della dignità.
A dominare non è solo la finanza ma il gangsterismo. Il Crimine Organizzato, vero e proprio vincitore della Guerra Mondiale, gestisce il pianeta la cui economia si fonda non solo sul controllo mafioso delle fonti energetiche ma sul traffico di droghe, armi e schiavi. Un insieme di traffici che si svolgono sulle medesime rotte, che hanno come registi e beneficiari le multinazionali, come impiegati i “volontari” delle varie Ong e come soldati le mafie e i principali servizi segreti.
Una casta criminale e una cultura di corruzione
La finanza e il crimine dominano l’economia; tramite questa e mediante il terrore spadroneggiano quindi sulla politica. L’organizzazione economica delle nazioni (sempre più avviata alla logica monosettoriale, tipicamente mafiosa) è determinata da organizzazioni private, quali il WTO e tutti gli enti legati alle multinazionali che forniscono patenti e modelli per le singole produzioni di merci e di alimenti. La politica estera mondiale è decisa anch’essa da organismi privati (in particolare il CFR che non è comunque il solo). Infine il monopolio della comunicazione, quello che Alexandre Zinoviev definisce il “nuovo Vaticano” e Carlos Dufur la “telecrazia”, permette al Crimine Organizzato d’imporre tutto quel che vuole, ivi comprese delle vere e proprie mutazioni antropologiche ed etologiche.
Al di sopra di noi si erge una vera e propria casta criminale che pratica la cultura della corruzione.
Crisi di società, non di potere
Assistiamo ad un crollo in picchiata della sovranità.
Ci troviamo nel pieno di un’implosione sociale che avremmo torto a definire massificazione, in quanto l’individuo atomizzato e consumista ha disimparato la comunicazione, la solidarietà, anzi, in costante stato d’ipnosi e di divagazione, forse neppure si accorge di chi gli cammina accanto.
Carlo Gambescia ci segnala che dal 1981 siamo entrati nella fase dell’ iper-consumismo che ha trasformato allo stesso tempo in brame e in valori culturali tutto quanto è effimero e dissolvente.
Questo fa dire a molti, e in particolare a molti di noi: “la crisi è al culmine, non può continuare così”.
È un errore madornale. Ad essere in crisi è la società, non il potere; il quale, anzi, trae forza dalla crisi della società: più la situazione sembra sul punto di rottura, più invece si consolida.
L’implosione del potere non è impossibile, ma se mai dovesse accadere, non sarà a causa della “crisi di valori” o della “crisi d’identità” che, al contrario, sono altrettanti puntelli di questo potere.
Né deve ingannarci il costante abbassamento del livello culturale, intellettuale, razionale, estetico e morale dei politici. Non debbono decidere alcunché, devono solo recitare nella commedia della politica, in quanto son divenuti non più camerieri ma addirittura aiuto-camerieri. Il fatto che siano incapaci, ignoranti, corrotti e privi di dignità non fa che rafforzare il sistema, altro che indebolirlo!
Non solo qualità, anche forza
Ci troviamo alle prese con un potere tirannico e totalitario sopranazionale e privato. Inchiodati allo spettacolo della politica che mette in scena la parodia di se stessa, non ci rendiamo conto di quel che ha giustamente rilevato Carlos Dufur, ovvero che non esiste alcuna democrazia ma che siamo in telecrazia. Siamo, insomma, sudditi di una tirannide.
Dovremmo comprendere allora che non si tratta tanto di possedere alcune qualità umane indispensabili (ad esempio l’incorruttibilità, anche di fronte alla seduzione e al narcisismo) o di conservare dei riferimenti ideologici forti, quanto di avere a disposizione una forza vera e propria.
Il Partido Popular o Alleanza Nazionale non hanno probabilmente i requisiti fondanti indispensabili (umani e ideali) ma il problema è che se anche li avessero non potrebbero fare nulla di diverso di quel che fanno. Perché per competere bisogna avere forza: una forza articolata che nessun partito, in quanto tale, può possedere.
Il fatto che i “duri e puri” restino tali solo fino a che non gli affidino un’amministrazione locale (o anche fintanto che più semplicemente l’annusino) ci dovrebbe far riflettere. Da un lato questo dimostra quanto i più siano impregnati della cultura di corruzione propria all’iperconsumismo, dall’altro significa però che questa “durezza e purezza” è priva di qualsiasi concretezza, tant’è che all’atto pratico va in crisi. È, insomma, una fata morgana che aiuta a sonnambuleggiare in stato onirico.
Stato? Partito?
Dobbiamo finirla di giocare ai sonnambuli.
Probabilmente dobbiamo stabilire a monte quali sono gli obiettivi perseguibili.
La conquista o comunque la rigenerazione dello Stato? In teoria è ancora possibile; ma in pratica quali sono le libertà reali – non quelle teoriche – che uno Stato mantiene in suo possesso?
La politica fiscale, il controllo dell’ordine pubblico e la ripartizione di denaro e lavoro. Non è poco ma non è galvanizzante né accrescente. A margine di questa logica, tutto sommato mafiosa, c’è la possibilità, sicuramente più significativa, di dare un certo impulso culturale, orientando l’interesse verso alcuni temi, autori, periodi storici.
Di più è impossibile: non viene consentito da chi comanda sul serio, né c’è da pensare di poter sfuggire alla sua morsa: decine di milioni di agenti zelanti lavorano gratis per il Grande Intestino.
Un partito ci può rappresentare? Un partito è oggi un’azienda di marketing, un’impresa di gestione di fondi e, tutt’al più, uno strumento amministrativo. Non può rappresentarci, possiamo al massimo coagirvi ma dal di fuori.
Un partito rivoluzionario? Non siamo più negli anni Trenta; né è pensabile di nazionalizzare le masse in un’epoca in cui si svuotano le nazioni e sono implose le masse.
Può aver senso un partito d’opposizione attiva e intelligente, ma se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che siamo mentalmente ancora molto lontani dal concepirlo. In ogni caso il partito, che mantiene pur in maniera ridotta una funzione importante e insostituibile, non rappresenta più la prima linea della politica reale; ragion per cui non è su questo che concentrerei le principali energie.
All’estero i nostri transfer
Dicevo prima che quanto meno si aderisce alla realtà più si allarga il raggio delle proprie fantasie. Aggiungo che quanto meno si è nel reale più ci si fossilizza a viaggiare con la mente ed il cuore nella politica estera operando transfer dei propri desideri su soggetti esotici e di fatto ignoti.
Però non comprendiamo la logica strutturale di molti conflitti in corso. Se abbiamo capito come l’accerchiamento della Russia risponda alla dottrina Brzezinski sul controllo dell’Asia Centrale e se pensiamo di aver colto il ruolo del petrolio nei conflitti (ma che lo abbiamo davvero compreso è meno certo) ci sfugge in pieno la logica della droga e la fitta rete di alleanze che, sulla base della droga, legano i principali servizi segreti (in particolare americani, israeliani e pachistani) alle mafie e alle bande che spesso animano i gruppi armati insurrezionalisti.
Non abbiamo compreso appieno l’assioma che dice “nella società dello spettacolo niente è come appare” e ci fidiamo delle versioni che la telecrazia ci fornisce. Non ci rendiamo conto, allora, che la Turchia è alleata strategica, energetica (e delinquenziale) d’Israele e degli Stati Uniti.
Né abbiamo capito che l’Iran ha svolto finora il ruolo di piccola Urss nell’Oriente Medio, complice e in affari con Usa e Israele (che la riforniva di armi) e che, semmai dovesse trovarsi in difficoltà nell’immediato futuro (il che non è poi così certo) ciò è dovuto più alla sua conflittualità con la Turchia che non a teoriche guerre sante che finora non ha mai combattuto, se non in senso contrario a quanto dichiarato.
Eppure noi, che magari sogniamo nello stesso tempo “risvegli bianchi” contro l’immigrazione, ci attendiamo interventi miracolosi da integralisti islamici e non ci siamo ancora resi conto di come proprio questi hanno smantellato tutti i governanti che avevano contenuto la minaccia israeliana: da Sadat che aveva ottenuto la restituzione del Sinai a Saddam che ne aveva minacciato, venticinque anni fa, non ora, il monopolio nucleare nell’area.
Tardo Impero Romano
Cosa speriamo? Che giunga un settimo cavalleggeri, un deus ex machina? Siamo e restiamo prigionieri dell’irreale. Ci riempiamo la testa e la bocca dell’idea di “catastrofi”. Ma che possiamo attenderci realmente?
Di possibilità d’implosione ne esistono. Alcune le ho ipotizzate. Dal regresso culturale che può avere un effetto boomerang sulle stesse oligarchie, al fenomeno sociologico di “rivolta delle elite” (che tendono ad abdicare al loro ruolo per rinchiudersi in fortezze urbanistiche), alla difficoltà di gestione planetaria monopolistica, alle contraddizioni insite in questa fase capitalistica (in particolare la difficoltà di mantenere ad un buon livello di consumo società alle quali è stata tolta ogni possibilità di produrre economicamente), fino al rischio di esaurimento delle scorte energetiche.
Ma, ammesso che qualche catastrofe si produca, non sappiamo neppure se dopo sarà meglio di prima. Comunque dovremmo iniziare col concepire qual è il nostro ruolo, qual è la nostra epoca storica. Siamo come cittadini dell’Impero Romano agli albori del IV secolo (quel tardo Impero è l’unica analogia pertinente con la situazione odierna, almeno dal punto di vista dell’economia multinazionale, della corruttela generale, della diffusione di un potere sempre più burocratico).
Possiamo ingannarci sulla geopolitica
Ma ci aspettiamo sempre che qualcosa cambi. Che ci sia una rigenerazione, metà civile e metà barbara. Per questo ideiamo ipotesi quali l’Eurosiberia.
Ma perché queste ipotesi possano prender corpo si deve manifestare prima una volontà, quindi una coscienza e poi si devono definire i mezzi.
Noi invece ci basiamo sulla speranza, che è tutt’altra cosa. Una speranza che si fonda sempre più sulla riscoperta della “geopolitica”, intesa come una dea germanica quando è invece solo una possibilità; scientifica quanto si voglia ma pur sempre una possibilità.
Senza contare che il rapporto spazio/tempo si è andato modificando tal quale lo aveva descritto Réné Guénon e forse ha stravolto le stesse leggi della geopolitica come sospetta Alain De Benoist.
Né dobbiamo sottovalutare l’avvento di quello che Geminello Alvi definisce come Nomos dell’Aria. Comunicazione e strategia si fondano sui satelliti; la geopolitica dell’avvenire, se manterrà un ruolo di prim’ordine, rischia di essere molto diversa da quella di cui parliamo.
E poi l’economia e la gestione planetaria sono oramai multinazionali. Il capitale è trasversale; né va dimenticata la distribuzione multirazzista delle plebi urbane. Con la consequenziale perdita di coscienza comune e di memoria comune dei ceti attivi e potenzialmente rivoluzionari.
Insomma la geopolitica non ci assicura affatto quello che vorremmo.
Non vorrei che quest’Eurosiberia sia attesa come la manna nel deserto.
Si può; non si può
Proprio il deserto è il luogo nel quale ci troviamo; dobbiamo attraversarlo. Va allora definita la direzione e bisogna altresì considerare che la durata dell’attraversamento non sarà affatto rapida.
Dobbiamo darci:
- obiettivi
- metodi
e soprattutto chiarire CHI, ovvero qualificare il soggetto. Su questo mi dilungherò più tardi.
Intanto definiamo quello che non può essere fatto. La rivoluzione nazionale è impraticabile e persino un cambio generale radicale è utopico: lo vieta la situazione; i riflessi condizionati e lo stato d’ipnosi non concedono possibilità di mobilitazione continua se non a pochi eletti.
Si può invece puntare ad una rivoluzione lunga e silenziosa.
Nel III secolo coloro che vivevano nel Tardo Impero senza riconoscerne l’autorità, ovvero i cristiani, o meglio le minoranze ecclesiali, non opposero al potere soltanto un’alternativa ideologica che andava nel senso dei tempi: tempi di solidificazione e di abbrutimento che erano più sensibili a un discorso paleocomunistico e alla certezza della vita eterna assicurata che non alla severità stoica.
Vi opposero non solo queste affermazioni ma la forza unita fra campo e banca. Perché gestivano le banche e coltivavano i campi; campi in precedenza abbandonati perché allora, come ora, costavano meno le derrate che venivano da oltremare. E quando i commerci implosero, quella minoranza aveva da offrire tutto: organizzazione, protezione, alimenti, lavoro, denaro e ideologia.
Una lezione da apprendere. Finiamola con l’antagonismo estetico (a meno di utilizzarlo ogni tanto per mostrare la boa a chi naviga in alto mare) e pensiamo ad occupare spazi sociali ed elitari.
L’elite sociale
L’elite sociale (da non confondersi con i migliori) non è impermeabile totalmente né lo è in eterno. Alcune sue componenti sono sensibili a discorsi nuovi, ivi compreso quello eurosiberiano; sia nel campo strategico che in quello aerospaziale; ma ancora fra i ricercatori è possibile intavolare una comunicazione. Del resto proprio questo schema consentì ai cristiani di prevalere sul mondo romano e poi alla filosofia antica di tornare nelle pieghe del corpus cristiano mediante alcune elite dei monasteri sensibili a voci lontanissime.
Sia chiaro: il mio discorso non vuol tendere alla nascita di un gruppo di intellettuali né favorire o praticare l’entrismo. Il discorso è più complesso.
Essere avanguardia
Nella società dello spettacolo, o dello psicodramma (Miro Renzaglia) la prima linea si trova in realtà proprio in quella che sembra essere l’ultima. L’avanguardia è obbligatoriamente in retrovia.
E come dev’essere un’avanguardia?
Autonoma sia economicamente che spiritualmente. Deve produrre i mezzi per sostentarsi ed essere impermeabile ai richiami della corruzione. Non tanto di quella monetaria, che in fondo è la meno forte, quanto di quella dovuta al narcisismo, al carrierismo, all’esibizionismo, alla sete di successo e alla brama di considerazione.
Trasversale. Tra uno o più partiti radicali e forze di sottogoverno. Ma il centro dev’essere estraneo a ognuno di questi soggetti.
Strutturale. Cioè composta di elite autosufficienti, produttive e in grado di gestire luoghi liberi e autonomi.
Strategica.
Metodologica.
I criteri fondanti
I principali campi d’intervento, quelli fondamentali, sono l’economia e la comunicazione che per i più sono due illustri sconosciute ma rappresentano il fondamento di qualsiasi azione politica o commerciale.
Si deve intraprendere un’azione in tal senso, senza fretta, ma con regolarità e costanza.
Alla base di tutto devono trovarsi uno spirito saldo ed una coscienza di sé e del mondo. Fondamentale è, quindi, la gerarchia, intesa in modo funzionale e non sclerotico.
Il tutto va fondato sul riconoscimento della trifunzionalità, raddrizzando l’attuale piramide rovesciata. Ponendo cioè la militanza (di stampo guerriero) sopra l’intellettualismo (di stampo sacerdotale) ed entrambe sopra la politica in senso stretto (di stampo mercantile).
Perché solo la tripartizione in questo senso risponde alle esigenze regali ed eroiche.
Esempi
Economia e comunicazione, formazione di un’avanguardia e azione sociale. Ma come si fa? Qualche esempio pratico lo si può avanzare. Non si deve raccontare alla gente che si ha intenzione di far questo o quello o stilare programmi di quel che faremo un giorno. Bisogna fare, bisogna dare. Subito, sempre, farsi riconoscere nell’atto non nelle promesse.
Esempi in tal senso ce le offrono le Occupazioni a Scopo Abitativo e la proposta di legge popolare che ne consegue, e che è fiancheggiata da azioni dirette (appunto le occupazioni): quella del Mutuo Sociale.
L’azione, poi, non dev’essere svolta con cipiglio aggressivo ma tutto, in particolare quando siamo in conflitto, va svolto nel segno dell’ironia.
Come differenziarci
Alla fine del percorso formativo dovremmo riuscire a differenziarci per la realizzazione di:
- Una lobby di popolo (data dal frutto di articolazione dei luoghi autonomi e delle produzioni indipendenti)
- Un progetto generale. Posso condividere quello espresso da Carlos Dufur che si riassume in: una cosmovisone; una forte regionalizzazione; le corporazioni; la tecnica. Vi aggiungerei però, come elemento di punta, proprio le autonomie socializzate.
- Una selezione formativa di rilievo
- La capacità di esser riconosciuti per: onestà intellettuale, franchezza e buon senso. Essere l’elite del buon senso e della lingua diritta non sarebbe poco come elemento caratteristico e come valore aggiunto.
Questo ci consentirebbe di segnare punti e guadagnare spazi mentre ci consolidiamo.
Mentalità e metodo
Alla base di tutto ciò servono un metodo e una mentalità. Li possiamo così riassumere:
- Coscienza di sé
- Coerente aderenza a questa coscienza di sé
- Un piano di lavoro
- La scelta degli obiettivi principali
- L’abbandono di tutti i riflessi condizionati; da quelli d’organizzazione (già abbiamo parlato di partiti e movimenti che vanno, quanto meno, rivoluzionati e adattati all’epoca) al modo di esprimersi, di rispondere agli stimoli indotti, di scegliere tempi e temi ecc.
- Il rifiuto di ogni forma di reazione. La parola NO deve sparire. È per affermazioni e per fatti che ci si deve caratterizzare.
Chi
Già ma tutto questo deve accadere da parte di chi? Ed ecco che ritorniamo al quesito iniziale cui ci eravamo ripromessi di rispondere in chiusura. Cosa mi distingue da un qualsiasi Zapatero? Cosa differenzia un Pierre Vial da un Bernard Henri Lévi? Le teorie? L’ideologia? Il tifo? Il caso? Se così fosse, se così è, a nulla serve insistere perché ognuno vale ognuno, ogni cosa vale ogni cosa. Tutto è relativo, tutto è inutile, tutto è tutto, dunque nulla.
Non vi è differenza se non in quella che in greco significa Idea e che è un particolare vedere, un illuminare con quello sguardo la vita e il mondo, un vivere secondo questa Idea.
Idea; e quindi Mito e Archetipo.
Dicevamo che pretendiamo di essere eredi, delle rivoluzioni nazionali oviamente. Ma chi compì le rivoluzioni nazionali?
Gente che si formò nella guerra e si selezionò nel dono di sé.
Non a caso quegli uomini non tesero mai ad uniformare ma ad armonizzare, a gerarchizzare, non costituendo una grigia macina ma un fascio di forze.
Dobbiamo ricordarcelo; per batterci per tutti e non solo per chi è nostra fotocopia; piantiamola con i Testimoni di Jehowa e apprendiamo da chi tracciò, lastricò e percorse il giusto cammino!
Il divario abissale
Un’avanguardia esiste solo quando faccia costantemente dono di sé. Un dono eroico che si nutre di sete di giustizia sociale e di partecipazione. Nell’atto non nella retorica; non nella teoria, nelle formule, nelle chiacchiere. Deve provarsi di fronte al coraggio, al denaro, alla seduzione al narcisismo. Deve trascendere l’individualità. Quel miserabile ostacolo, quel buffone che si finge impersonale, quella parola di due lettere, IO, deve morie.
E quel NOI che gli deve subentrare deve ripetere, attualizzare il modello; cogliere il senso e il valore del Mito, assumerlo e viverlo, così come insegnò la Rivoluzione delle Rivoluzioni, quella ellenica.
Lo spirito delle Termopili, la coscienza greca, poi trasposta in modo più materiale e “positivista” a Roma, forniscono quel seme che deve germogliare.
Pierre Krebs accennava prima alle Rune. Bene, cosa più delle Rune, intese in ognuno dei sensi possibili, c’indicano quella via di rapporto eroico con il sacro, quel rapporto di azione e conoscenza nell’autosacrificio? Cosa meglio delle Rune ci dà l’idea del principio attivo della creazione, il senso della virilità spirituale?
Ci si parla ogni giorno di “scontro di civiltà”. Ebbene proprio in questo risiede il divario abissale e incolmabile; un divario che sbaglieremmo a immaginare “esterno”, geopolitico, ma che riguarda innanzitutto i nostri stessi agglomerati di civilizzazione, la nostra decrepita Europa occidentalizzata; e orientalizzata molto prima ancora.
Dobbiamo vincere, dentro di noi, questo scontro di civiltà e solo poi potremo offrire ipotesi future, perché l’Europa o è ellenica o non è!
Dunque
Poi ci si può venire a parlare di Putin, di Tizio o di Caio. Ma prima, molto prima, si deve concepire tutto questo e trarne le conseguenze. Perché non c’è manna da attendere né speranza che tenga: conti solo tu, qui e ora. E se sarai all’altezza di tutto questo avrai un futuro, quale che ne sia la dimensione; eurosiberiano o da Pais Valencià. Altrimenti no: perché se la rivoluzione è come il vento, il vento non è come la rivoluzione.