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Questa replica me ne suggerisce una ulteriore perché tanto le affermazioni dell’Ostidich quanto le speranze di Umberto Bianchi offrono spunti di riflessione.

1. Non ritengo assolutamente vero che sia impossibile far convivere culture e correnti diverse se non addirittura opposte; è proprio il fascismo con la sua intuizione di Sintesi (che poi è una sorta di regalità popolare) ad averci dimostrato il contrario. Potremmo anzi dire che la ricchezza del fascismo – e persino del suo totalitarismo atipico – sta nella capacità di unificare le pluralità mantenendole in vita, rinvigorendole, rendendole fertili e non soffocandole.

E’ solo a partire dagli anni settanta, ovvero dal momento della sua emarginazione culturale, politica e sociale, che l’area neo-fascista è ripiegata in minuscoli totalitarismi che si vorrebbero autosufficienti (evoliani, clericali o paramarxisti) i quali hanno preteso di sovrapporre – per mistificazione cosciente o incosciente – i propri parametri a quelli del fascismo. Si tratta di quegli stessi epifenomeni che giustamente rattristano il Buscaroli e che a mio avviso sono più il sintomo di un’astrazione e di un’insoddisfazione che non l’espressione di un’identità ideologica.

Sostenere gli uni contro gli altri o pretendere di eliminarne alcuni in toto, oltre a dar loro eccessiva importanza, significherebbe abdicare ad una cultura del fascio per approdare ad una cultura della parte, ovverosia partigiana. Non è per esclusioni o per compressioni che si deve procedere ma per anelito di centralità e di sintesi.

2. Concordo con l’Ostidich quando propone una trasversalità ampia ed assoluta, che attraversi il Paese; aggiungo però che questa trasversalità, per quanto ampia, concerne anche, se non soprattutto, l’area neo-fascista e che è impensabile inseguirla ovunque se già a priori la si rifiuta nel proprio bacino di stagnazione.

3. A questo proposito aggiungo che ritengo destinato al fallimento qualsiasi progetto di omologazione ideologica ed organizzativa dell’area neo-fascista; il problema non mi pare ideologico (nel senso di manifesto delle teorie e delle intenzioni) né semplicemente organizzativo. Per me è politico e sociologico, nel senso di recupero dei criteri operativi.

E qui vorrei replicare all’Ostidich che nell’attuale contesto non è possibile fare una graduatoria tra puri ed impuri in quanto ho potuto constatare che molti militanti di AN sono umanamente ed operativamente superiori alla media dei componenti delle appendici di estrema destra, la quale ultima, in larga misura, rigurgita di incapaci e di parassiti che appesantiscono l’operato di  validi idealisti volenterosi e, fungendo da contrappeso a chi agisce con purezza, slancio e dedizione, contribuiscono a deformare psicologicamente le giovani leve facendone degli emarginati per vocazione.

4. Condivido il sentimento e l’auspicio di Umberto Bianchi ed è proprio nella direzione che lui desidera (ovvero in quella della ricomposizione) che insisto ad impegnarmi da diversi anni. Tuttavia non dobbiamo prendere lucciole per lanterne, la partecipazione di “tutti gli appartenenti alla cara, vecchia, tribù nera” ai funerali di Massimo ci segnalano due cose:

- che in quest’area, prepolitica e romantica per eccellenza, la leva principale è il sentimento. “Massimo è stata la colonna sonora della nostra vita” ha detto una delle principali e più genuine figure del panorama romano, ed è intorno a questa colonna sonora, intorno al militante che non si è piegato, intorno all’amico fraterno, intorno al culto della Morte, che i presenti si sono ritrovati senza limiti di scuderia, di filosofia, di confessione o di bandiera.

- che le differenze claniche, e quasi mai politiche, tra le varie formazioni, se risultano insormontabili per via orizzontale (cioè razionale) non reggono per via verticale (ovvero per un sentimento forte, come è il caso del funerale di Massimo, o per l’impulso a partecipare a qualcosa di coinvolgente e di universale, come lo fu ad esempio la contestazione giovanile).

E’ dunque diventando protagonisti, agendo, esprimendo valori e sentimenti comuni che si può recuperare un ruolo politico e, con esso, un’autenticità che ci permetta di travolgere gli argini artificiali del nostro pantano. Fino a quando resteremo invece esterni rispetto alla realtà e spettatori lamentosi della politica, fino a quando ci sentiremo la vocazione dei capri espiatori o degli incompresi predicatori del Verbo, non potremo esprimere alcunché; né usciremo da questo labirinto ipotizzando rifondazioni a tavolino che ci dovrebbero consentire una sorta di purificazione, del tutto improponibile se relegata al piano della programmazione e della teoria.

La soluzione sta nel passaggio dall’onirico al politico, inteso non come dogmatismo missionario ma come partecipazione intuitiva all’anima collettiva, come percezione ed espressione delle esigenze reali: il tutto grazie al dinamismo ed all’inventiva, nell’abbandono di quella terminologia banale e di quella programmatica prefabbricata, particolarmente grezza e sommaria, che imperano nell’area in cui ci troviamo impantanati.

La soluzione sta nell’attuazione di iniziative che producano un’ oggettiva convergenza d’azione. Dobbiamo recuperare la cultura dell’azione, dell’affermazione e del realismo. Il resto è illusione o, peggio, cialtroneria.