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A queste considerazioni sacrosante ne vanno aggiunte un paio che non sono così secondarie. L'inverno demografico inoltrato si sviluppa in una società che, pur angosciata dalla crisi, resta ancora sostanzialmente ricca e comoda; i giovani sono sempre di meno, non sono più attirati in strada a giocare prendendo a calci qualsiasi cosa, anche uno straccio, ma il calcio lo praticano in versione virtuale oppure giocano a calcetto, che è tutt'altra cosa.
Insomma l'Italia del pallone sta vivendo il suo capolinea e sta mostrando quale sarà il suo destino all'Italia in tutte le sue forme, la quale Italia ancora non si è resa conto di versare in condizioni persino peggiori della squadra eliminata dalla Svezia.

Chiudere agli stranieri?
Oggi si alza la voce della reazione, di chi, cioè, re-agisce. Sarebbe ora di reagire, infatti, ma come, signori? Nel 1966 dopo la figuraccia con la Corea del Nord le istituzioni calcistiche e politiche decisero di chiudere il mercato con l'estero e lo tennero sbarrato per 14 anni. Questo indubbiamente favorì la Nazionale a scapito dei risultati dei clubs italiani nelle coppe che, soprattutto nel lungo periodo (diciamo 1974-80) subirono l'handicap delle privazioni. Ci poteva stare come scelta, solo che parliamo di cinquantuno anni fa che, in realtà, pesano più di un secolo. Non solo per lo strapotere frattanto raggiunto dalle televisioni private e per l'esponenziale guadagno usuraio dei clubs che dettano legge sulle federazioni le quali quindi non avrebbero il peso per imporre svolte radicali, ma anche per la rivoluzione tecnologica (i satelliti) che ha comportato una serie di rivoluzioni sociali tra cui i rivolgimenti legislativi di adeguamento alla realtà (il numero di stranieri limite è stato cancellato dalla Legge Bosman). La strada scelta nel 1966 non sarebbe più praticabile in nessuna maniera, per mancanza di forza e per obbligo giuridico.

La via francese?
Allora che ci resta da fare? Possiamo fare buon viso a cattivo gioco e decidere che la nostra sarà una nazionale transnazionale, multiconfessionale e multietnica e percorrere così la via francese. Se questa fosse la scelta, ci troveremmo comunque in un ritardo di anni luce rispetto ai cugini che di vivai naturali ne hanno a bizzeffe. Tra un attentato, un traffico di droga e una sommossa, c'è infatti anche chi gioca a pallone nelle banlieues; per noi forse sarà così una quindicina d'anni dopo che ci avranno propinato lo Ius Soli.

L'Islanda?
C'è poi l'esempio opposto, che piace tanto anche a me, l'Islanda.
Il problema è che i reazionari hanno la pessima abitudine di trasformare la realtà a proprio piacimento perché è sì vero che l'Islanda è una nazionale identitaria ma è anche la selezione di una piccola e spopolata isola freddissima dove la vita è carissima, e che quindi si conserva da sé e, va aggiunto, i suoi calciatori vivono e giocano all'estero. Se in qualche maniera la nazionale islandese rappresenta un popolo che si mantiene vivo quasi per ibernazione, di sicuro non esprime un movimento calcistico efficace o un modello tecnicamente replicabile. Quindi possiamo tifare per loro in Russia ma non possiamo illuderci di imitarli.

Allora dobbiamo capitolare?
Non è detto, basta guardarsi attorno. È vero che in Spagna fanno più figli che in Italia ma è anche vero che è ancora meno popolata di noi. Le sue squadre di club dominano le coppe, eppure negli ultimi anni la nazionale ha vinto un mondiale e due europei ed è composta da gente autoctona, spagnolissima nel sangue, nella lingua, nella psiche e nella cultura. E le famiglie anche lì sono ricche, quindi è poco probabile che i ragazzini se ne scendano scalzi in strada a tirare calci a tutto quel che capita. Le leggi sono le stesse che da noi, lì come ovunque vige la Legge Bosman, e in tutto e per tutto siamo nelle medesime condizioni. Ma loro, per decisione propria, costruiscono i vivai, le “canteras”, li coltivano ed esprimono fior fiore di giocatori di primissimo livello in continuazione che formano l'ossatura anche delle squadre più titolate. Insomma hanno posto la chiesa al centro del villaggio, per dirla alla Rudi Garcia.

Di palo in frasca:
sarà un caso che noi restituiamo la gran parte dei fondi europei perché non li sappiamo utilizzare e loro invece li mettono a frutto per intero? Sarà un caso che noi piagnucoliamo e accusiamo l'Europa e l'Euro di tutte le nostre disgrazie e loro non lo fanno e se la cavano meglio di noi?
Poiché non possiamo affermare che gli spagnoli siano geneticamente superiori a noi, forse ci dovremmo guardare nello specchio e dirci che, nel calcio come nella politica, i colpevoli siamo sempre e soltanto noi. E potremmo cambiare, ispirandoci a scelte giuste, felicemente compiute altrove.

Analogie
Credo che a coloro che richiedono una politica di contenimento degli stranieri i main stream risponderanno che non si può fare, che il mondo va così e che bisogna nutrire fiducia.
Suppongo che i reazionari, delusi, saranno felicissimi di urlare senza costrutto prendendosela con il sistema e pretendendo non di cambiare strada ma di tornare indietro, così continueranno ad essere innocui e irrilevanti.
I problemi intanto resteranno gli stessi, forse si aggraveranno.
I conformisti continueranno a negarli in nome del reale, mentre i reazionari continueranno a negare il reale – o a dipingerselo come gli pare – enfatizzando i problemi.
Come non si può rispondere alla crisi calcistica di oggi tornando al 1966, quando Gigi Riva aveva diciannove anni e la contestazione giovanile era in incubazione, così non si può rispondere alla crisi politica e morale dell'epoca globalizzata riproponendo quell'Italia in bianco e nero che, per migliore che potesse essere rispetto a quella di oggi, era comunque un Paese colonizzato in cui si viveva in modo assai imbarazzante contro cui i migliori si scagliavano con tanta convinzione.

L'uno e l'altro pari sono
La soluzione non può certo essere un impossibile ritorno indietro nel tempo come non può essere di lasciar correre tutto quello che accade e di subirlo bevendo il calice amaro fino alla feccia.
Si devono offrire risposte concrete, attuali, mantenendo un senso, un orientamento, un orgoglio e l'identità. Un po' quello che nel calcio fanno gli spagnoli.
In politica è assolutamente uguale: gli euroistituzionalisti imputridiscono nel pantano e gli eurosecessionisti delirano disegnando scenari astrusi ed entrambi formano così una perfetta accoppiata di opposti demenziali.
Né gli uni né gli altri penseranno a trarre lezione dalla politica calcistica spagnola che insegna che dove c'è una volontà là c'è una via e che questa via è possibile solo se è realistica, concreta e attuale.
Per percorrerla bisogna prima rinsavire ma c'è il rischio che nella politica sarà più difficile ancora che nel calcio, particolarmente nel cosiddetto “nostro mondo” che si perde nell'irreale e nella mitizzazione di modelli pre-satellitari che non erano, neanch'essi, buoni proprio per niente.
Così si finisce sempre eliminati: nel calcio come nella vita.
Invece noi vogliamo rialzarci e andare avanti, con la testa alta e i piedi per terra.