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 L’incremento dei partecipanti rispetto all’anno 2000, tanto nel numero dei singoli quanto in quello delle realtà di provenienza, supera il 30 %.
E, dato particolarmente significativo, i partecipanti all’edizione precedente sono ritornati praticamente in blocco, caso piuttosto raro per questo genere di appuntamenti e segno evidente che le loro attese erano state pienamente rispettate.
E’ aumentata la partecipazione dal sud. Vi è infatti chi ha trascorso circa duemila chilometri per andare e altrettanti per tornare pur di non mancare l’appuntamento.
Come si voleva, la riflessione, benché approfondita, non ha gettato un’atmosfera cupa e pedante sulla festa che si è svolta innanzitutto nel clima di gioioso cameratismo.
La sera, intorno al fuoco, spentisi gli echi dei gruppi musicali o dei singoli chitarristi, si sono tenute le sfide del “circolo i duellanti”.
Sfide leali di lotta a schienamento. Giovani di tutte le città e di tutte le provenienze hanno così inteso ricordare in ventisei singolar tenzoni, camerati prematuramente trapassati; non solo perché caduti o assassinati a tradimento ma anche perché vittime di incidenti stradali o alpini oppure stroncati da mali che non ne hanno comunque spezzato la tempra.
Sono state così consegnate 26 targhe commemorative, molte delle quali sono state offerte dai vincitori a familiari o ad amici fraterni dei ventinove commemorati (i fratelli Mattei erano ricordati insieme così come uniti sono stati celebrati Franco, Francesco e Stefano di Acca Larentia).
Genitori, sorelle e fratelli di alcuni scomparsi erano presenti ed hanno così ricevuto l’omaggio dalle mani dei duellanti.
Si sono tenute quattro commissioni di lavoro – non di studio – che hanno proceduto speditamente, senza fronzoli, verso obiettivi sostanziali e corposi.
Non si è proceduto per analisi astratte né per critiche nel segno dell’acrimonia e dell’inconcludenza.
Non sottolineare gli errori che alcuni puntualmente commettono ma affermare quel che è corretto fare: tale è stata la direttrice che si è scelta per ricercare sempre e comunque l’essenzialità, la prassi e la concretezza.
Alle sette del mattino i più giovani hanno potuto, inoltre, far scuola di roccia, inquadrati e controllati da istruttori alpini.
Tra le voci in bilancio vanno perciò conteggiati anche 6 metri di parete di roccia.
Ed un milione e mezzo di sorrisi.

Costruttività.

Rispetto a un anno fa qualche modifica, soprattutto nell’atteggiamento e nella predisposizione dei partecipanti.
Nel 2000 a prevalere furono la curiosità, la gioia di partecipare e la possibilità di incontrarsi al di là degli ostacoli frapposti dai singoli spiriti di scuderia e dalle liti dei capi o presunti tali.
Quest’anno è emersa una brama di concretezza che ha cadenzato e condizionato i lavori ed i dibattiti.
Essenzialità, stringatezza, concretezza, costruttività.
Poiché le atmosfere non si creano artificialmente dal nulla ma tutt’al più si favoriscono, il clima dell’ultima università è dipeso da fattori oggettivi.
Il primo: realizzatosi in pieno l’affiatamento l’anno precedente, i partecipanti si sentivano in casa propria non dovendosi più perdere in convenevoli o nel superamento di diffidenze dal sapore contadino.
Il secondo: tutti hanno avvertito la percezione di star vivendo un momento di trasformazione, della società e della politica, che ingenera al contempo speranza e timore, angoscia ed entusiasmo; da cui l’autentica necessità di confrontarsi, formarsi, rinnovarsi perché ci si sente, se non nuovamente in gioco, almeno pronti ad entrarvi.
Si è così proceduto a raffinare, definire, indirizzare le speranze nonché a riconoscere i motivi d’angoscia (essenzialmente la paura di smarrire, nel rinnovamento, alcuni comodi ma desueti punti di riferimento ideologici) e di timore (il ritrovarsi trascinati in una spirale di violenza e tensione creata a Botteghe Oscure, presso i Centri Sociali o da alcuni poteri forti e servizi stranieri).
Identificare i rischi e definire – anche nella metodologia – le possibilità di rinnovamento, è stato e si rivelerà utilissimo.
Ora si tratta di assimilare quell’indispensabile mentalità rinnovata che concettualmente si è chiarita alla perfezione ma che è ancor lungi dal dettare i tempi ed i modi dell’analisi e dell’operato: è il passo più difficile ma decisivo, chi lo compierà diventerà protagonista – ci auguriamo impersonale – dei prossimi decenni.

Ottimismo si, ma condizionato

Nell’introdurre il mio editoriale apparso su Orion del mese di luglio, Maurizio Murelli si dimostrava leggermente perplesso riguardo al mio ottimismo sulle prospettive della cosiddetta area, la quale, a suo avviso, è afflitta da sintomi depressivi non dissimili da quelli della contemporanea società.
Maurizio, ma non solo lui, è cauto rispetto alla mia fiducia nell’avvenire, così come, in ampia e qualificata compagnia  era (e non so se lo permanga) sostanzialmente incredulo quando manifestavo timori di un ritorno della strategia della tensione.
Pertanto, prima di proseguire ricapitolando le prospettive emerse durante i lavori nonché la messa in luce degli errori che vanno imperativamente evitati, mi sembra opportuno chiarire alcuni concetti:
1.    Sono convinto non meno di Maurizio che l’area oggi soffra di sindromi depressive, anzi, peggio, di una sorta di impotentia coeiundi: non è da essa com’è ora ma dalle sue potenzialità e dall’incontro possibile di queste ultime con il frangente storico che andremo ad attraversare, che traggo il mio ottimismo. Ottimismo che prescinde da qualsiasi coinvolgimento emotivo ma è intuizionale e razionale al tempo stesso.
2.    Ritrovo nell’area vari fattori che possono far sperare in una rigenerazione imminente. Essi sono: la consapevolezza di trovarsi da tempo e tuttora fuori ruolo e fuori gioco (o, qualora si rivesta un ruolo, istituzionale o di presunto antagonismo, la consapevolezza di non avere uno schema di gioco); la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un cambio epocale (del potere, della cultura, della sociologia); consapevolezze che non possono che essere rafforzate dal fatto che per la prima volta da oltre quattro decenni, un’area, o comunque parte di essa, si trova a dover fare i conti con istanze pratiche (amministrazioni, cooperative, ecc); si aggiunga il fatto non trascurabile che per la prima volta in quasi mezzo secolo la repressione non ha falcidiato le giovani generazioni, lasciando così al loro posto coloro che frattanto sono divenuti trentenni e si sono inseriti nella società (il che non è di poco conto per il superamento della sindrome dell’emarginazione); ultimo ma non ultimo, va messo in attivo il recupero di quarantenni ed ultraquarantenni che mettono a disposizione l’incommensurabile ricchezza di rapporti stabili, consolidati per via di un’antica militia provante e selettiva che ne ha marcato le esistenze.
3.    Le ragioni di ottimismo non si limitano alle potenzialità di rigenerazione totale dell’area, ma vengono anche dall’aver intravisto difficoltà non agevolmente sormontabili da parte delle fazioni avverse. Sono difatti convinto che le rapide quanto radicali modifiche che si verificano nell’onda di quel fenomeno impropriamente definito come “globalizzazione”, stiano creando problemi di identità e di psiche soprattutto ai reduci delle ideologie antifasciste e delle utopie scientiste che si indeboliranno ogni giorno di più e troveranno notevoli difficoltà a cambiar pelle, posto che al contrario di noi, hanno da difendere svariate roccaforti di potere. E, con esse, le giustificazioni ideologiche e le forme di finanziamento pubblico che di queste roccaforti permettono l’esistenza.                                                                                                  Paradossalmente, proprio il non aver nulla da perdere rischia di rivelarsi per noi un vantaggio di non poco conto. Al cospetto di innovazioni radicali (che pretendono nuove tecniche, nuovi modi d’organizzazione e nuovi comportamenti) sono in genere soggetti nuovi, precedentemente marginali, ad assurgere al ruolo di protagonisti. Così, quando ci si trova alle prese con una rivoluzione tecnologica, sono solitamente i Paesi più avanzati a perdere terreno rispetto a quelli sottosviluppati che si permettono tranquillamente di edificare in corsa strutturazioni d’avanguardia, bruciando in tal modo sui tempi - e sui costi - le ristrutturazioni di chi invece non solo non deve partire da zero ma è chiamato rispondere all’imperativo di salvaguardare i livelli acquisiti. Tanto per esempio si prendano in considerazione i passi da gigante compiuti dalla Spagna durante la rivoluzione informatica che, sovrapponendosi ad una struttura alquanto primitiva e spesso fatiscente, le ha concesso di colmare il gap abissale che la separava perfino dall’avanzatissima Francia. Ebbene: non è forse lecito affermare che di fronte ai mutamenti continui si trovano in difficoltà oggettive quelle realtà parassitarie che hanno amministrato il potere culturale e territoriale negli ultimi decenni ? E possiamo ipotizzare che esista qualcuno più sottosviluppato di noi nella vita politica e nella conduzione delle strutture pubbliche ?     Chi, più di noi, può, quindi, assumere con la massima rapidità e senza grandi lacerazioni i canoni necessari per adattarsi  ai tempi che si preannunciano ?
4.    Infine, un notevole elemento di ottimismo va tratto, a mio avviso, dalla linea d’evoluzione del sistema socioculturale. I tempi che si annunciano prevedono infatti con tutta probabilità una serie di fattori che si possono coniugare agevolmente con il nostro patrimonio ideale e con la nostra etologia specifica. Su questi fattori mi sono dilungato proprio nell’editoriale di Orion del mese di luglio; qui mi limiterò a ricapitolarli brevemente.                                                    Intanto si procede inesorabilmente nella direzione della dis-ideologizzazione (ed il fascismo, a differenza del neo-fascismo, si caratterizza proprio per la sua non ideologizzazione).                     Ci stiamo assuefacendo ad una dimensione trans-nazionale dell’economia, della politica e, parzialmente, della cultura. Il frutto di tutto ciò può essere si mondalista, come si ha la tendenza a credere, ma per le più svariate ragioni di conflitti economici, etnologici ed etologici che si ravvisano e che probabilmente si acuiranno all’interno delle cerchie dominanti, non è da escludere che si dia vita ad una poliarchia, la quale può essere la condizione preliminare al nuovo emergere dell’Europa (nostro mito e nostro sogno indimenticato). E quand’anche  l’Europa permanesse lungamente una colonia del capitalismo angloamericano, il fatto stesso di giungere ad una sua composizione e ad una sua propria connotazione (nell’identità e nell’immaginario), rappresenterebbe di per sé la realizzazione di un piedistallo sul quale potranno ergersi e dal quale potranno spiccare il volo le generazioni future. Il potere, infatti, è deperibile, così come i sistemi d’organizzazione, ma vi è qualcosa di più profondo: nel gene, nella psiche, nella storia, nel ricordo, e questo qualcosa non potrà non essere favorito dall’europeizzazione.                                                                                                                            I nuovi tempi, e le oligarchie che cercano di contrassegnarli, prevedono inoltre una trasformazione radicale del sistema di potere che se si accentra per tutto quanto concerne le decisioni di fondo, contemporaneamente si ritira dalla gestione della cosa pubblica favorendo con ciò la localizzazione e la regionalizzazione (e perciò il recupero di ispirazioni tradizionali, di radicamenti etno-culturali, del costume della partecipazione diretta).                                   Questo radicale mutamento esautora di fatto la partitocrazia (cui è prevedibile che seguirà una già abbozzata connessione di natura esclusivamente pragmatica di tante realtà civiche federate in poli di rappresentanza nei rispettivi esecutivi nazionali) contrassegnando in pratica la fine, annunciata già nel 1973 da Kissinger, della democrazia delegata.                                               Questo comporta l’avvento sempre più marcato come primi attori delle minoranze organizzate che si scoprono dotate di poteri enormi (il cui ruolo incontrastato già possiamo constatare non soltanto per quel che concerne le lobbies finanziarie, militari e religiose, ma  anche con lo strapotere delle gangs farmaceutiche – vere e proprie assassine organizzate – delle associazioni consumatori o delle lobbies gay). Il che, se di certo preoccupa per il futuro della società, lascia anche pensare a quel che può divenire una minoranza – indissolubilmente differenziata e sentimentalmente omogenea – se si organizza.                                                                                Inoltre assistiamo ad una rivoluzione del linguaggio collettivo; una modifica tesa verso il primitivo che, però, è anche un recupero, assai promettente, della ricerca del simbolo.                       E ci fermiamo qua per non ripetere quanto già scritto sullo scorso Orion a proposito degli orientamenti valoriali che ravvediamo nelle intenzioni, e nei possibili rivolgimenti, dell’attuale società.                                                                                                                                                Vi sarebbe da aggiungere, ma l’argomento merita ben altro spazio, come l’era che sta nascendo si presti, a nostro avviso, metafisicamente per una via virile allo spirituale. E con ciò avremmo addirittura quadrato il cerchio.
E’ alla luce di tutto ciò che sono ottimista. Un ottimismo che si fonda, anche, sulla volontà e sulla convinzione di contribuire  ad operare per una rigenerazione concettuale, metodologica, operativa, che ci porterà in carreggiata.
Il che potrà avvenire in seguito ad una trasformazione interiore che prevede il superamento e l’abbandono di una gran percentuale di riflessi condizionati, di preconcetti paralizzanti, tuttora dominanti ma dei quali, fortunatamente, i più cominciano ad essere stufi.
Sarà necessaria una vera e propria catarsi, intellettuale, etica e del pathos disordinato: oggi come oggi, infatti, le scorie impure sovrabbondano così come riaffiorano puntualmente la meschinità, la grettezza e l’ottusagine.
Specie quando i singoli nel ritrovarsi in gruppo  si uniformano acriticamente alle logiche elementari ed anguste di clan, gelosamente conservate per un terror panico che appartiene a tutti i soggetti collettivi atomizzati, perché sono loro indispensabili per mantenersi coesi quando vegetano, come solitamente fanno, ai margini della vita; ma che di converso sono del tutto  fuorvianti e paralizzanti per qualsiasi ipotesi costruttiva.
Ebbene, io ritengo che questa trasformazione, poiché è ricercata e richiesta più o meno da tutti, avrà finalmente luogo. Se ci fossero frequenti momenti d’incontro come l’Università d’estate essa si realizzerebbe rapidamente; se i partecipanti metteranno a frutto gli insegnamenti ricevuti (e quelli dati) in quel contesto, assisteremo comunque ad un’importante e salutare accelerazione.

Le insidie che aleggiano

Spendiamo ora qualche parola sulle insidie in agguato.
E’ dallo scorso autunno che il sottoscritto – trovando incredulità sia a destra che a sinistra – va suonando il campanello d’allarme.
Che nel frattempo si sia messa in atto una qualche strategia della tensione, anche se tutto sommato ancora di basso cabotaggio, è innegabile.
Che essa possa divampare non è certo ma è tutt’altro che impossibile. E le ragioni sono evidenti.
Innanzitutto, come ha giustamente denunciato Bossi, da un certo livello di tensione dipendono le fortune di uno spiazzato fronte comunista (Ds-Rifondazione-Comunisti Italiani-frange di ogni tipo).
E ben sappiamo per esperienza (1944, 1974, 1980),  per la natura umana (il comunista doc è malvagio e meschino), per cultura (la strategia leninista), che se costoro si mettono a giocare con il fuoco non vi sono scrupoli che li fermino.
Inoltre, cosa tutt’altro che irrilevante, Israele si trova in grossi guai. E sappiamo, quantomeno per esperienza, che quando Israele è a rischio il Mossad ha la cattiva abitudine di incendiare e destabilizzare l’area del Mediterraneo.
Ed il Mossad, che ha un’influenza notevole sul Sismi, non è assente dall’ultima strategia dei veleni, tant’è vero che una sua informativa, pubblicata in aprile sul Corriere della Sera, additava nella destra radicale, e particolarmente nell’ambiente di Terza Posizione, una sorta di grande vecchio che avrebbe coordinato l’antiglobalizzazione addirittura da destra e da sinistra contemporaneamente.
Nientemeno !
L’intento criminalizzante è lampante così come l’intromissione nello scenario è palese e deve far riflettere.
Infine va rammentato che ci troviamo in un momento di trapasso durante il quale sono in atto numerosi regolamenti di conti tra interessi  di potenze occidentali, con relativi servizi segreti al traino (o alla guida), e che queste guerre dietro le quinte si combattono anche all’interno della coalizione governativa e dell’opposizione, ragion per cui è plausibile ipotizzare che vi sia chi subisca la tentazione di alzare i livelli di tensione.
Ciò premesso non è affatto detto che la strategia della tensione prosegua e si intensifichi. Né è detto che essa debba per forza rivolgersi verso di noi e contro di noi.
E’ comprensibile che chi si è scottato con l’acqua calda tema anche la fredda.
Ed è perciò abbastanza logico che proprio quanti erano perplessi lo scorso autunno sul riproporsi della strategia della tensione (forse anche nel tentativo di esorcizzarne il ritorno) siano ora oltremodo preoccupati.
A mio avviso il quadro va però osservato freddamente e le conclusioni non devono essere affrettate, né, soprattutto, incentrate sui nostri coinvolgimenti emotivi.
E’ innegabile che a chiunque abbia avuto conoscenza diretta dell’area della destra radicale negli anni settanta ed ottanta, appaia scontato che la strategia della tensione la necessiti e persino la brami come irrinunciabile capro espiatorio.
E’ difatti attraverso la sua criminalizzazione che i mestatori del partito Cia-Mossad e dell’abbraccio catto-comunista di matrice partigiana hanno devastato l’Italia privandola del suo ruolo politico nel Mediterraneo, per poi condurla, attraverso la parentesi tangentista, in braccio alle centrali
finanziarie angloameriacne che ne hanno soppresso l’autorità statale derubandola al contempo del patrimonio pubblico e demaniale.
La situazione ora è, evidentemente cambiata. Il risultato è stato raggiunto e consolidato e, tra gli autori di quell’epocale insieme di misfatti, i soli comunisti hanno perso un po’ di peso specifico; il che non dovrebbe essere sufficiente a spingerli su vie così pericolose.
Tutto sommato, il problema dovrebbe essere circoscritto a motivazioni strategiche di politica estera di Washington e di Tel Aviv; per cui, trattandosi di una questione militare non convenzionale, che si fa politica solo formalmente, possiamo sperare che non ci si voglia trascinare dentro per i capelli, ad ogni costo, con chiare difficoltà, contro ogni evidenza.
Ma il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio; e neppure il pregiudizio. E se non altro per questo vi è da essere legittimamente preoccupati.
Difatti chi si occupa per mestiere di provocare, di ricattare, di destabilizzare, non è di solito provvisto di gran genialità o fantasia, ragion per cui insegue, per forza di cose, uno schema collaudato efficacemente. Uno schema che ci riserva un ruolo-chiave: quello del cattivo da inviare al rogo.

Gli ostacoli oggettivi per una criminalizzazione

Agli occhi di questi signori (e dei facitori d’opinione pubblica legati ai vari carri comunisti) è dunque indispensabile individuare un’estrema destra violenta, da presentare come pronta a tutto ed in odore di terrorismo.
Questi signori sono però innanzitutto dei mediocri e dei manipolatori: dei burattinai di terza serie che lavorano con il materiale che si trovano davanti.
Negli anni settanta il mondo neofascista era composto di decine di migliaia di militanti abituati allo scontro quotidiano con il fronte avverso (guidato da criminali e, perciò, ad alto fattore criminale), esso viveva nell’illusione di una rivoluzione imminente (o di un imminente regolamento dei conti), ed era infine reduce da una cultura di inserimento nello Stato (non diversa né più accentuata da quella praticata dalle sinistre sedicenti rivoluzionarie) che aveva prodotto contiguità pericolose.
E, inoltre, cosa intollerabile per i nostrani Mangiafuoco, le giovani generazioni emergenti avevano decisamente cambiato rotta e musica, mettendo così a rischio il controllo dell’intera area ad opera del partito atlantista ed andavano perciò stritolate. Il che era possibile perché questo strappo epocale, storico e nobilitante, ebbe luogo nel pieno di una vera e propria guerra civile.
Il cocktail, evidentemente, era esplosivo, così come i colpevoli designati per le nefandezze di loggia, di servizio segreto o via dicendo erano credibili perché avevano un’oggettiva potenzialità insurrezionale nonché un’irriducibile e sfrontata natura ribelle.
Oggi il prosieguo storico di queste esperienze è composto da poche migliaia di bravi ragazzi, in genere disabituati alla rissa, che non hanno la cultura dello scontro, che non hanno uno slancio insurrezionale, o rivoluzionario, o reazionario che si voglia, e che non intrattengono rapporti ambigui di alcun tipo né personali né tantomeno ideologici.
Inoltre c’è da considerare che lo sviluppo frenetico dei mezzi di controllo (di cui il mitico Echelon è solo una componente) permette a più centrali investigative di controllare allo stesso momento, e spesso in tempo reale, tutti gli appartenenti a qualsiasi area politica; il che, per chi è al di fuori da qualsiasi logica illegale, finisce con il risultare un vantaggio perché  rende meno credibili le criminalizzazioni pilotate. Soprattutto se queste sono volute da alcune fazioni ma non da altre, di queste rivali, le quali magari non esiteranno ad intervenire per sbugiardarne gli autori.
Tenendo conto di tutto ciò, possiamo ragionevolmente sperare di restare al di fuori da spirali insane e violente che, se continueranno, si orienteranno probabilmente su ambienti più credibili.

La bomba di Venezia

Una riprova forse l’abbiamo avuta in agosto, quando chi ha cercato di instillare il dubbio della presenza di un neo-fascismo bombarolo in occasione  dell’attentato al tribunale di Venezia,  si è visto obbligato a ricorrere ad una pista sofisticata: una presunta cellula eversiva all’interno delle forze dell’ordine.
Anche se poi il giudice Casson, una volta intraprese le indagini, ha finito con l’imboccare lo stesso un’improbabile pista neofascista; ma c’è da chiedersi se si sia gettato da solo in questo presumibile vicolo cieco o se non vi sia stato appositamente depistato.
Rammentiamo infatti che tra i Magistrati che si occuparono dell’istruttoria al processo di Piazza Fontana (quello recentemente conclusosi con le condanne clamorose – ma politicamente scontate per il primo grado di giudizio – di Maggi, Rognoni e Zorzi), proprio Casson fu l’unico a prediligere la pista – Cia su quella neofascista, ragion per cui si vide scippare l’indagine che si è quindi andata ad incanalare nel percorso obbligato che conosciamo.
Non è perciò tanto assurdo chiedersi se Casson si sia infilato in quest’ultima pista solo perché mosso da pregiudizio ideologico o se vi sia stato invece lanciato espressamente, con quella tecnica collaudata dai servizi che già in passato ha dato tanti frutti  ai depistatori, ed in particolare a proposito della strage di Bologna.
Venezia, del resto, è sede storica di istruttorie scippate.
Nella piccola Yalta italiana, a partire dal 1946 essa serviva a fare da contrappeso e da equilibrio al dominio militare americano, di cui il Triveneto aveva, ed ha ancor più di allora, un valore di protettorato.
E proprio il Tribunale di Venezia, tanto per chiarirne il grado di parziale autonomia, ha condannato il Mossad per l’abbattimento sul nostro suolo dell’aereo militare italiano Argo 16.
Venezia, dunque, può esser letta anche con altre chiavi oltre che con quella della rinnovata ministrategia della tensione.
Come una Matrioska che contiene tante bamobole…

I pericoli da sventare

Ebbene, vediamo di restare in ogni caso fuori da questa strategia rinnovata; rimaniamo, da spettatori, ad attendere che la tragicommedia finisca e che il sipario cali sui saltimbanchi che avranno accettato di prendervi parte.
Per non essere coinvolti dobbiamo evitare di incorrere in alcune tentazioni.
1.    La brama di presenzialismo. Il fatto che la sinistra aniglobal si sia appropriata (in modo assai impreciso del resto) di una tematica che ci caratterizza da quasi vent’anni non ci deve far perdere il sonno né indurci a partecipare ad una farsa. La commedia inscenata non ha alcun valore - se non quello di istituzionalizzare di fatto nella psiche collettiva i centri decisionali non istituzionali - ed è, molto spesso, utilizzata da centri di interesse internazionali e cavalcata dai DS a fini cinicamente tattici. Sul palcoscenico si svolge una recita tra maschere: le persone serie, chi vuol operare radicalmente (ed è consentito farlo sia nelle categorie sociali, sia culturalmente, sia in vere e concrete alternative di vita) non ha nulla a che vedere con questa buffonata. Né con imitazioni parallele di essa. Restarne fuori è fondamentale; sia per serietà politica, sia per concretezza, sia per non essere risucchiati in spirali e tornare a fungere da capri espiatori. E chi del capro espiatorio avesse la vocazione non venga poi a piangere quando finirà sul rogo, sarà stato puramente e semplicemente accontentato com’è giusto che sia nell’economia del mondo.
2.    La brama di differenziazione. Problema eguale e contrario al precedente, dettato comunque dai medesimi difetti, ovvero dall’incapacità di immaginare la politica come qualcosa  di articolato, se stessi come qualcosa di più della propria proiezione scenica, e l’azione come qualcosa di costruttivo, che non necessita sempre e comunque del suono di carcassa, perché non mira solo a trovar palcoscenico nella società dello spettacolo né si esaurisce nel piazzare qua e là una bandierina affinché i capi trovino facile gratificazione sfilando davanti a decine di soldatini devoti, frettolosamente arruolati, che sembrano piuttosto delle Giovani Marmotte che non dei Legionari.                                                                                                                                         Il volersi comunque porre sulle piazze, accettando di essere l’alter ego dei Centri Sociali e compagnia bella, non solo non ha senso e paga molto poco in quanto a quantità di adesioni o a gestione di consensi (e per giunta  in un’ottica sì superficiale diviene ardua anche la qualificazione degli aderenti) ma può significare il rimettersi a disposizione del gioco della strategia della tensione. Come bersagli.                                                                                                                           Prima di muovere qualsiasi passo in una similare direzione per portare a casa qualunque risultato – sempre e comunque magro – che sarà pagato con un rischio che si fa ogni giorno più alto, ci si pensi dieci volte. E se alla decima si è ancora convinti di farlo, si rinunci lo stesso. Per rispetto degli altri e per la responsabilità che si ha nei confronti di chi segue.
Come abbiamo avuto ripetutamente modo di chiarire, personalmente siamo molto scettici su tutte le realtà politiche ed organizzative (pur riconoscendone, come abbiamo sempre fatto, tutte le valenze positive che talune di esse svolgono) perché le riteniamo ideate su di un modello che è superato da almeno venti anni. Pensiamo che l’operazione vada invece svolta in profondità, ed in concerto oggettivo, sui piani sociale (con tanto di rivendicazioni categoriali, giuridiche  ecc), culturale, metapolitico, locale e via dicendo, avendo come obiettivo proprio l’azione concreta e costruttiva e non l’ampliamento di un gruppo, il quale non dev’essere più inteso, erroneamente, come un fine in sé e come il depositario di una purezza fittizia, di una verità sbiadita o come il luogo d’incontro e di organizzazione di un’avanguardia rivoluzionaria che non esiste, impegnata in uno scontro virtuale e del tutto immaginario con l’oligarchia al potere.
Per noi è dunque più agevole ragionare come facciamo e predicare con ciò la fuoriuscita da schemi angusti, obbligati, snervanti, sfiancanti e persino pericolosi. Ma pure coloro che per età, per indole, per poca fantasia o per maturata convinzione, sentono il bisogno di essere rappresentati da una sigla che essi poi a loro volta rappresentano, possono agire per consolidarla localmente e socialmente (anche se nel sociale tutte le esperienze insegnano che non si ottiene granché senza l’utilizzo di strutture parallele) senza bisogno di rincorrere citazioni nella stampa o sui telegiornali che sono, poi, il luogo dove si costruiscono i mostri. Quelli che i “giustizieri” abbattono poi, tranquillamente, a sangue freddo.

Strade da percorrere

Per non rimanere con l’amaro in bocca, non concluderemo con i rischi, e con i difetti propri all’area radicale ma ricapitoleremo piuttosto le strade da percorrere, a breve e a medio termine, per rigenerarla, qualificarla e concederle dignità di protagonista.
1.    Un’opera di rielaborazione concettuale tanto delle categorie del politico quanto di quelle del potere; categorie sulle quali ci siamo ampiamente soffermati nell’Orion di luglio.
Opera che presuppone un’apertura naturale e spontanea alla società ed una capacità di cogliere, intuitivamente oltre che razionalmente, gli impulsi rettificatori che in essa affiorano.                                                                    
2.    Un’opera di presa di coscienza, di presa d’atto, di concretizzazione e di raffinamento del soggetto (o meglio dell’arcipelago plurale, convergente per autocentratura) che veicolerà cultura ed identità classica (e quindi fascista e ghibellina) nello scenario rinnovato concedendo loro di influire sui destini del nostro popolo.
3.    Un’opera di affrancamento dai condizionamenti e dai ricatti esterni; e cioè un’operazione di strutturazione economica e finanziaria che è lungi dal rappresentare una chimera, come bene hanno constatato i partecipanti all’Università d’estate.
Per tutto questo, che a mio avviso è già in parte in atto, serve un periodo di calma e di assoluta serenità, al di fuori da qualsiasi contenzioso; ad occhio diciamo un triennio.
In quest’ottica può anche venir bene la giostra dell’antiglobal con tutte le sue drammatiche pagliacciate.
Lasciamo che in essa si snervino, a colpi di coda, i nostri vari avversari e noi occupiamoci d’altro.
Perché non è dietro a chi fa strepito ma intorno a chi costruisce nella discrezione, rinnovando eterni valori, che silenziosamente gira il mondo.