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Difatti si può asserire senza tema di essere smentiti che, nella stragrande maggioranza dei casi, nella nostra area si viaggia in ritardo, sempre ammesso che si viaggi.

E il mondo, invece, corre velocissimo.

 

Pensare di poter mettere le pendole all’ora giusta implica, ovviamente, una certa dose di ottimismo, o quantomeno di possibilismo. Criticare per criticare, smantellare per smantellare oltre ad essere troppo facile, sarebbe inutile e gratuito, come sparare sulla Croce Rossa.

Ho avuto occasione in passato di formulare una critica globale (sia distruttiva che, soprattutto, costruttiva) nel documento “Le api e i fiori” che, ristampato per l’università d’estate del 2000, si trova ne “Il pensiero armato” , edizioni Fahrenheit, rinvenibile in Roma alla Libreria Europa, a Milano alla Bottega del Fantastico oppure ancora presso gli editori (e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

Da allora non ho cessato di commentare le evoluzioni quotidiane apportando critiche positive e proponendo diverse chiavi di lettura, talvolta inconsuete, agli eventi in corso ed alle prospettive, anche nefaste, che ne potevano – e ne potranno – scaturire.

Per il numero 201 di Orion, sviscerando i presumibili effetti futuri del cambio di scenario governativo, ho messo l’accento su almeno quattro punti cardinali sui quali fondare una partecipazione politica reale.

Li rielenco:

1° L’imperativo di coniugare radicalismo e pragmatismo.

2° La necessità di concepire le strutture di appartenenza come strumenti e non come bandiere.

3° L’opportunità di scoprire per tempo e di mettere a frutto il valore crescente delle municipalità.

4° Il dovere di rivoluzionare le mentalità per trasformarci in avanguardia.

Questi argomenti saranno sicuramente sollevati in occasione dell’Università d’estate e, mi auguro, nei mesi a venire.

Tuttavia, perché il quadro della riflessione sia più completo, è necessario puntualizzare ulteriormente, approfondire ed arricchire l’insieme.

 

Partiamo dall’intelligenza.

 

E’ possibile pensare positivamente ed agire efficacemente purché si inizi dal principio.

E il principio, in una dimensione politica, è l’intelligenza, ovverosia “la capacità d’intendere e di afferrare con la mente un concetto, la facoltà di formare, comprendere e ordinare i concetti”.

Ovvero “la capacità di intendere e valutare separatamente tutti gli elementi che formano il complesso ambientale, sapendoli però costantemente ricondurre ad unità mediante la sintesi”.

Senza la quale ultima da esseri intelligenti si regredisce al rango di intellettuali.

Chiunque si proponga di confrontarsi con l’ambiente che lo circonda, vuoi per migliorarlo, vuoi per rivoluzionarlo, deve quindi conoscerlo e comprenderlo. Quando provi a farlo non può non accorgersi che è estremamente complesso e che non è possibile ottenere alcun risultato finché se ne ignorano, disconoscono o fraintendono le varie componenti.

 

Il complesso ambientale nel quale ci troviamoè variegato all’infinito. Tuttavia, se proviamo a semplificarlo, dobbiamo definire almeno tre categorie principali che pur interagendo si distinguono tra loro: il potere, la società e le famiglie d’appartenenza.

Le quali ultime sono le chiese, le sette, i partiti comunisti, le logge, l’area neo-fascista e le realtà campanilistiche o urbane (tifoserie, clan giovanili ecc).

I confini tra queste famiglie d’appartenenza sono poi abbastanza incerti in quanto è possibile, ad esempio, che uno skin head sia cattolico praticante e tifoso della Juventus, o che un neo-fascista si ritrovi in prima linea nella tifoseria romanista assieme a  dei comunisti dei centri sociali, o che sharp, metallari e tardo-skin si riconoscano in un fenomeno musicale d’avanguardia.

Dal che si evince che uno dei problemi della cosiddetta area stia nella difficoltà di affermazione piena della propria identità, perché se il Clero, le Logge ed i comunisti riescono – anche per via delle loro quote di potere – a trarre vantaggio dalla complessità urbana, per il neo-fascismo ciò avviene solo in chiave di simbologia e di mitologia. Il che, come vedremo oltre, è importantissimo ma insufficiente.

 

Ma procediamo con ordine e vediamo come sarebbe opportuno modificare il nostro atteggiamento categoria per categoria.

 

Il potere

 

Il Potere è qualcosa d’immenso e di indefinibile. Vi sono, difatti, il potere finanziario e il potere militare (che poi contrariamente ai luoghi comuni è quello che determina il finanziario; infatti proviamo ad immaginare la US Force e tutto il suo potenziale satellitare a disposizione dell’Europa e chiediamoci in quanti giorni si invertirebbe il rapporto di forza tra Euro e Dollaro…). Vi è il potere di suggestione, quello di condizionamento delle coscienze e delle opinioni, quello di fare e disfare la verità.

Vi è ancora il potere di piazzare uomini in posti chiave o comunque di un qualche interesse, il potere di gestire o di amministrare fondi, quello di indirizzare voti e di condizionare gli uomini politici.

 

 

 

Il Potere è una risultante

 

L’errore principale, da parte neo-fascista, allorquando si parla del Potere è quello di concepirlo come uno status di potenza raggiunto da L’AVVERSARIO (sulla cui natura etnica, religiosa o ideologica poi ci si spertica in congetture talvolta preconcette) e, dunque, come qualcosa che gli deve essere strappato di mano.

Alla base di questa concezione sta, in fondo, un’abissale ignoranza storica ed un’estraneità forzata alle relazioni sociali nonché, in certi casi, una buona dose di ottusità.

Il Potere è, in effetti, la risultante di una serie di accomodamenti, di intrecci e di compromessi tra  mille e mille centrali di influenza, che vanno dalle più importanti (Multinazionali americane con la rete NSA-CIA-Pentagono, Alta Finanza) a quelle intermedie (Chiese, Superlogge, Partiti Comunisti) a quelle locali che esprimono in termini organizzativi una legittimità territoriale (come accade qua e là in Baviera, in Tirolo, in Catalogna, in Veneto o in Lombardia).

Che il Potere sia questa risultante è assolutamente naturale: il Potere è sempre una risultante.

Quel ch’è censurabile, ovviamente, non è il Potere in sé bensì l’ideologia dominante, il modus vivendi che lo sottintende nonché, probabilmente, la natura dei suoi principali detentori che, per logica di questo tempo, appartengono a lobbies e gangs, ovvero sono gangsters.

 

Confrontarsi con il Potere

 

Ora, se c’è qualcosa che non si deve fare rispetto al Potere è quello di attribuire ad esso tutte le fantasie primitivistiche che ci contraddistinguono: non bisogna farne un Idolo di pietra, un supermulino a vento contro cui spezzare le nostre lance di legno sotto lo sguardo commiserevole di un ronzino e di un fedele compagno di viaggio.

Inutile chiamare a raccolta il popolo per rovesciarlo (non è infatti una sovrastruttura ma una struttura portante, o meglio una rete fittissima del moderno wide world).

Ridicolo poi è  l’attendere che una Provvidenza di questo o quel colore intervenga per farlo collassare. E’ anche possibile che ciò si verifichi per qualche ragione ma se accadesse, di fronte al disastro epocale che ne conseguirebbe, ci troveremmo addirittura a rimpiangere quel che sarà crollato. Ammesso che si riesca a sopravvivere e che ci restino gli occhi per piangere.

Col Potere ci si deve confrontare e, che lo si voglia o no, si è chiamati a farci i conti.

Va da sé che esistono due modi per confrontarcisi: quello carrieristico tout court e quello che tende a continue rettifiche per ottenere risultati su tre piani: per creare zone franche dal punto di vista ideale e culturale, per condizionare nei limiti del possibile le classi politiche, per veicolare messaggi nella società civile dei quali la stessa si faccia in qualche modo portatrice.

Personalmente è questo modo di confronto che ci interessa.

 

Ciò chiarito dobbiamo comunque suddividere il Potere nei suoi vari piani sì da renderci conto su quali si può in qualche modo intervenire e quelli che, invece, vanno totalmente ignorati perché fuori dalla nostra portata.

 

Uno

 

Nel gigantesco complesso global-capitalista esistono dei centri nevralgici dall’ incidenza infinita.

Non si tratta tanto dei sempre più spudorati organismi privati multinazionali (Cfr, Bilderberg, Trilateral) o dei consessi internazionali non istituzionali che regolamentano l’economia e la politica planetaria (WTO, G8, Banca Mondiale, Fmi) quanto del condensato di potere spionistico-satellitare con quel che ne scaturisce come potenzialità di controllo politico e militare, di veicolazione e filtro delle informazioni, di dominio dei mercati.

A questo proposito si consideri che sin dagli esordi della prima amministrazione Clinton gli Usa hanno dichiaratamente fatto uso dello strapotere satellitare per conquistare i mercati e per spazzare la concorrenza. Più volte la Francia, ad esempio, si è vista scippare all’ultimo istante delle commesse plurimiliardarie in Africa; il Giappone, dal canto suo, è il principale bersaglio dello spionaggio commerciale statunitense.

Questo potere spionistico-satellitare, strettamente relazionato alle Multinazionali americane, è gestito da un nutrito gruppo di funzionari-plenipotenziari appartenenti alla NSA ed alla Cia, parzialmente affiancati da omologhi canadesi, neo-zelandesi, australiani, inglesi ed israeliani.

Si tratta di un potere oligarchico (militari, alti funzionari, tecnici e capitalisti delle Multinazionali) assolutamente intaccabile.

Nel senso che non può essere eluso (il controllo è troppo sofisticato e capillarizzato) né sottratto ai detentori, obbligatoriamente di cultura anglo-americana.

Il che non significa, si badi bene, che evoluzioni d’altro genere siano impossibili.

Nel tempo è ipotizzabile sia una crescita di quote d’influenza (anche nel campo satellitare) da parte europea, sia un cambio di riferimenti culturali delle oligarchie anglo-americane a venire che potrebbero sentire la necessità di fuoriuscire dal progressismo calvinista approdando ad un nuovo umanesimo della tecnica, con riferimenti sacrali, classici e/o superomistici.

Di questo Superpotere bisogna prendere atto, con la sua esistenza si devono fare realisticamente i conti, sulla sua evoluzione si può temere o sperare; agire su di esso è impossibile se non di rimbalzo, per vie sociali e culturali.

 

Due

 

Su di un gradino inferiore va situato il potere politico di tipo istituzionale, o meglio quel che di esso rimane.

Schiacciata nella tenaglia della globalizzazione – ovvero della pianificazione americana – la classe politica ha poco margine di manovra; un margine di manovra che si riduce, di fatto, alla politica fiscale, alla gestione dell’ordine pubblico ed all’indirizzo verso questo o quel finanziamento dei fondi a ciò deputati.

All’interno di partiti quali la Lega o AN determinate componenti si cimentano su questo piano: va da sé che gli obiettivi che possono centrare - ammesso che ne abbiano la volontà effettiva e che le urgenze quotidiane glielo consentano – sono i seguenti:

1° Distribuzione di fondi, nonché di incarichi, a vantaggio della propria base e della propria area.

2° Utilizzo di parte dei medesimi fondi, e del livello d’influenza raggiunto, per una campagna propagandistica di spessore volta a dare identità, quantomeno formale, alla componente di appartenenza.

3° Inserimento concreto nel tessuto per farsi garanti e paladini delle categorie produttive a rischio di soffocamento. (E, viste le circostanze, qualcosa in questo senso, è possibile nel dicastero delle politiche agricole).

4° Sostegno di iniziative d’avanguardia sul piano della comunicazione e del messaggio aventi come obiettivo una positiva innovazione dei costumi.

Questo complesso di cose, se perseguito, consentirebbe ad alcune componenti di porsi come cuneo all’interno di un monolite nel seno del quale, altrimenti, finirebbero prima o poi con lo scomparire.

Pretendere di più, ovvero sterzate in politica estera o in politica economica, sfide allo strapotere americano, crociate nel segno romantico della ribellione, sarebbe assurdo, puerile e velleitario.

 

Tre

 

Vi è poi un terzo livello di potere, quello delle amministrazioni locali.

Con il progressivo accentramento dell’intelligence, del potere economico e del messaggio globale non assistiamo soltanto al declino del potere statale ma al contemporaneo rafforzamento del localismo; un rafforzamento che si produce anche per una sorta di riequilibrio obbligato.

Vi è così recupero del senso di appartenenza (anche nello sport che rappresenta un indicatore di primo piano) con un fiorire di liste civiche, di pubblicazioni cittadine e financo di quartiere. Il tutto condito dal pullulare di associazioni di ogni genere e finalità.

Nell’era del post-partito e del modello globale questo desiderio di radicamento è particolarmente sentito ed è destinato ad un avvenire certo: non coglierlo al volo (come dal  canto loro già fanno clericali e comunisti) sarebbe un errore imperdonabile.

Lo sarebbe ideologicamente, strategicamente, metodologicamente e politicamente.

Innanzitutto questo richiamo ad un radicamento sociale, spontaneo ed identitario va nel senso giusto: quello della democrazia diretta contro la cinquantennale concezione oligarchica della delega che, ovviamente, sottintende la sua metodica e sicura usurpazione.

Ma, anche, in quello della tradizione greca, romana, ghibellina, socialista e fascista, in contrasto palese tanto con la concezione capitalista quanto con la sua variante comunista, al contempo demagogiche, classiste, dirigiste ed esclusiviste per natura e per scelta.

Ma vi è di più: questo localismo non sembra avere il senso pericoloso dell’atomizzazione bensì essere il preludio di un nuovo sposalizio bipolare: quello tra l’identità locale ed un’Idea centrale, universale e trascendente.

Chi amministra il potere – e coglie, dunque, gli input provenienti dalla società reinterpretandoli a proprio uso – prova ad offrire a quest’aspirazione dei surrogati. Surrogati che vanno dall’imperialismo americano rinvigorito e fiero di sé, al Papato, che prova a riproporsi come guida universale, al martellante ideale di uniformità mondiale di stampo comunista. Di surrogati, ovviamente, si tratta che non reggono il confronto emotivo con l’ideale imperiale che di fatto sottintendono. E di cui, per tradizione vicina e lontana, siamo in qualche modo depositari.

Inoltre dobbiamo aggiungere che agire seriamente a questi livelli ed in questa direzione significherebbe perseguire due obiettivi realizzabili:

1° Appropriarsi di parte dei filtri di comunicazione tramite i quali si sviluppa qualsiasi azione politica che non resti effimera ed estemporanea. Ciò che è impossibile su vasta scala per carenze di mezzi, di uomini e di ripetitori è invece possibile localmente in mille e mille spicchi di territorio.

Se ad esempio nei grandi media nazionali non vi è spazio di manovra, lo si ricava però ogni giorno di più nella stampa locale o nelle radio e nelle catene cittadine o nei giornali gratuiti ad ampia distribuzione.

2° Riallacciare quei legami reali, concreti, vissuti, con la società che sono stati smarriti per emarginazione politica – alla quale è conseguito un buon ventennio di autoemarginazione per imbecillità – o che, se mantenuti, hanno finito con il sovrapporsi all’identità politica ed al suo messaggio, com’è stato spesso il caso in seno di AN.

 

Recuperare il rapporto con la società – ovvero vivere organicamente in essa e con essa –  non è soltanto una vocazione ideologica ma è, anche e soprattutto, la strada obbligata per chi voglia rivoluzionare il sistema di potere: il che appunto oggi  è possibile solo attraverso la società.

 

La società

 

Il rapporto concettuale (ed il comportamento conseguente) che lega la destra radicale alla società è particolarmente sofferto.

E se una parte dell’area in questione pretenderebbe di farsi punto di riferimento popolare e paladina della giustizia sociale violata, essa coltiva pur sempre una diffidenza di fondo che ne inficia l’azione.

 

 

 

Una diffidenza atavica

 

La diffidenza in sé è giustificata; la memoria del popolaccio scatenato e delle orge di linciaggio, la ripetuta connivenza, sia pure per via di un semplice atteggiamento passivo, delle folle con gli stragisti del compromesso storico che scaricavano le proprie nefandezze su capri espiatori neo-fascisti, l’assenso alle repressioni feroci nei confronti dei militanti della destra radicale che erano sopravvissuti agli assassinii quotidiani perpetrati al grido di “uccidere un fascista non è reato”, i plausi al rogo dei fratelli Mattei, tutto ciò non ha potuto che produrre disgusto, rabbia e diffidenza.

Ci vogliono una lunga esperienza ed una buona dose di maturità, infatti, per comprendere che la canaglia non è il popolo, che chi strilla più forte è sempre una minoranza demagogica, quella stessa che uccide, rapina, massacra e si attribuisce diplomi di  onorabilità. Che la gente un certo disagio comunque lo prova, la falsità la percepisce e che, dunque, se la canaglia prevale è perché gli altri punti di riferimento o sono stati vinti e resi all’impotenza o latitano.

Ma che, se riescono ad esprimersi adeguatamente, trovano sempre il seguito dovuto.

Purtroppo l’emarginazione forzata, subita nella seconda metà degli anni quaranta e poi nuovamente nel decennio settanta, ha sicuramente compromesso la normalità di un rapporto che dovrebbe, invece, essere continuo, spontaneo, carnale.

Ci si è messa anche l’ideologia,  con certe affermazioni aristocratiche evoliane prese un po’ troppo alla lettera, confondendo il piano politico con quello  della saggezza filosofico-esistenziale che dovrebbe sottintenderlo e qualificarlo ma che non può in nessuna maniera sovrapporvisi, pena il disastro, sia sul piano politico che su quello sapienziale.

L’ideologia si è via via trasformata in autogiustificazione. Allorquando, trovandosi in ambienti emarginati, in parecchi hanno acquisito le categorie mentali della marginalità, il settarismo e la sindrome del critico hanno avuto il sopravvento sui riflessi politici e sociali più elementari, producendo una sclerosi, una fossilizzazione ed una morfologia alquanto sinistre.

Il tutto ha poi finito col condensarsi nella formulazione rozza di un integralismo a presunta matrice cristiana che censura i costumi della società, generalmente osservata con arroganza e con disprezzo, costumi che si vogliono dettati da Satana, ossia dal Male, cioè da un principio unico, da un polo che dovrebbe essere il motore di ogni cosa nefasta e che si dovrà vincere un giorno per grazia ricevuta.

 

Fossilizzazione e farsa.

 

Da quest’evoluzione nevrotica durata un quarto di secolo, traspare l’estraneità alla società civile; nel pieno di una fossilizzazione mentale ed ideologica, la concezione che si ha del popolo, della gente, della folla, quand’anche si volesse ideologicamente nobile (vi è chi crede ancora che la massa sia ignara dell’esistenza dei poteri forti e pronta a contrastarli se informata della verità…) è completamente falsata.

La società, infatti, viene mitizzata o in negativo (il popolaccio da imbrigliare) o in positivo (il popolo che ristabilirà la giustizia) ma in ambo i casi è immaginata come qualcosa di astratto, più impalpabile di un ologramma.

Tant’è che con questa realtà virtuale, in mancanza di meglio, si finisce col dialogare per gesti, per atteggiamenti, per teatralità, mettendo in scena una commedia.

E’ quanto fanno persino le appendici dell’ultrasinistra,  pur sempre più politiche di noi: costoro, dai centri sociali al popolo di Seattle, oramai esistono solo perché mettono in scena se stessi e di fatto dalla società pretendono soltanto di distogliere, di estromettere, di sottrarre individualità scontente da riconvertire nella propria farsa.

Non pretendono più di farsi portatori di agitazioni costruttive e a largo raggio, vogliono sopravvivere ai margini della città. Il fatto che, poi, delle centrali molto intelligenti utilizzino il loro teatrino ai propri fini, che di questi invertebrati facciano dei burattini con il filo, è un’altra storia, che merita, comunque, la dovuta attenzione.

La medesima sindrome la ritroviamo alla destra estrema.

Lo scorso anno, ad esempio, tanto la Fiamma che Forza Nuova hanno sfilato contro il gay pride. Il che, se analizzato da un punto di vista cinico, ha anche pagato (se non altro una formazione a rischio come FN ha potuto presumibilmente godere di una certa simpatia clericale che in fin dei conti le può aver fatto comodo). Se la analizziamo politicamente, questa scelta di pressoché tutte le liste estreme non è brillante.

Qualsiasi cosa si pensi a riguardo del fenomeno pederasta e delle lobbies gay - e personalmente tutto siamo fuorché tolleranti - il fatto che  poche centinaia di individui sfilino  in contemporanea ed in opposizione  ad un evento di malcostume comporta un oggettivo parallelismo; ovvero nei confronti di un’opinione pubblica che, pur non essendo di sicuro pro-gay, non si lascia coinvolgere dall’iniziativa, ci si è di fatto posti come un alter ego, in soldoni come un’altra minoranza ed un’altra devianza, sia pure di segno opposto.

Il che non significa che la scelta sia stata sbagliata di per sé, ma che la concezione sulla quale si è sviluppata, ovvero quella di dare spettacolo per tentare così di porsi scenicamente come referente morale, è assurda.

Una manifestazione del genere è servita a rispondere ad un’esigenza di parte della base ma nel suo insuccesso numerico, nel suo non coinvolgere un enorme potenziale simpatizzante, nel porsi appunto come minoranza e controdevianza (naziskin contro culattoni è l’immagine che ne traspare dai media) ha palesato se non l’estraneità alla società reale, sicuramente l’incapacità di rapportarsi ad essa nei toni, nelle forme, nel linguaggio che le appartengono.

Ma quel che più preoccupa non è tanto ciò quanto il fatto che in genere i militanti di Forza Nuova sono più soddisfatti di questo a nostro avviso inutile se non controproducente baccano senza baccanale che non di altre loro esperienze meno visibili ma molto più concrete e socialmente attive da loro compiute, quali “Compra Italiano” e le colonie estive.

Non perché chi le ha vissute non ne abbia capito la validità o non ne abbia assaporato il gusto sicuramente intenso, ma perché nella gerarchia valoriale di una comunità (in questo caso della destra estrema in genere) hanno la tendenza a prevalere le credenze consolidate ed i riflessi condizionati.

Che recitano così: conta più che si parli di te (anche male o con commiserazione)  che non quello che fai.

Le une e gli altri sono da rimuovere.

 

Noi siamo la società.

 

Va ripristinato dunque il rapporto con la società, dev’essere recuperata la giusta concezione di essa: chiariamoci pertanto le idee in merito.

La società è un essere che vive, che palpita, che respira con il mondo.

E’ alquanto complessa,  un tessuto multicolore che si compone di tante parti, anche irriducibili tra loro ma sempre riconducibili a sintesi (e questa fu la grande intuizione Imperiale e fascista).

Sicché se è errato dire che la società siamo noi, è corretto dire che noi siamo la società.

Chiunque di noi è società; ma vi è di più: noi, come minoranza qualificata (quantomeno esistenzialmente e culturalmente) siamo nella società la quale non è per nulla un elemento a noi esterno, come spesso ci si ostina a pretendere, ma il nostro specchio quotidiano.

La società non è un insieme inerte di imbecilli, di incolti o di ingenui sfruttati come all’estrema destra si ha la tendenza a supporre con una dose di protervia.

O meglio, sicuramente lo è in parte, ma è soprattutto un agglomerato che vive coniugando la sua memoria viva (etologica, filosofica, gastronomica, musicale) con le innovazioni quotidiane, moderando le consuete ed immemorabili imposizioni folli che provengono dalle troppo spesso incoscienti oligarchie dominanti, con un sorprendente buon senso del quale è straordinariamente ed istintivamente ricca.

Le stesse oligarchie che la condizionano, la sfruttano, l’abbrutiscono, fanno pur sempre parte della società, la affiancano, ne sono immerse, ne colgono le esigenze, le domande, le aspirazioni e le manipolano attentamente dandovi delle risposte il più possibile vicine alla loro propria identità ed ai loro interessi, economici e di potere.

 

Oligarchie ed élites operative.

 

Abbiamo già avuto occasione (ne Le api e i fiori ed in un articolo apparso nel n° 195 di Orion) di constatare come l’intelligentsia di sinistra abbia saputo accompagnare la contestazione degli anni sessanta ed offrirle risposte e modelli che aderivano almeno parzialmente agli irrefrenabili impulsi che attraversavano le giovani generazioni occidentali. Ai medesimi impulsi, a patto di averne i mezzi e possedere la giusta mentalità, era possibile offrire risposte di altro colore, forse più calzanti rispetto alle richieste effettuate, sicuramente di tutt’altra qualità, che avrebbero mietuto pari, se non maggiore, successo.

Ma per poterlo fare ci si sarebbe dovuti comportare come altri, ovvero mettere in pratica quell’antico insegnamento ecclesiastico che esorta ad “essere di questo mondo senza essere di questo mondo” come appunto fanno da secoli i clericali e da tempi più recenti i comunisti.

Certo, con una differenza non irrilevante, poiché gli uni e gli altri sono essenzialmente seguaci di sette esclusive che hanno la pretesa di manipolare le coscienze mentre noi, per vocazione, dovremmo rappresentare l’avamposto della libertà e della socialità che si erge contro le strumentalizzazioni e le ghettizzazioni di qualsiasi natura.

Comunque sia, il morale della favola è chiaro: le élites possono operare, ed incidere, solo se sono immerse nella società, se ne fanno parte e se, almeno parzialmente, ne sono espressione. Così è sempre stato e così sarà sempre.

La cultura dominante ed il modello di vita non sono che imposizioni relative.

Lo sono in quanto rappresentano l’interpretazione preconcetta ed interessata che le élites in gioco danno alle esigenze, alle aspettative, alle aspirazioni generali; ma queste ultime sono determinanti.

Al momento di fornire loro una risposta le si può tradire, snaturare, è consentito anche deformarne il loro senso, ma solo fino ad un certo punto;  si deve per forza andare incontro alle tendenze che emergono, che affiorano e, soprattutto, a quelle che serpeggiano sotto la superficie, altrimenti si viene travolti.

 

La società come fattore rivoluzionario.

 

La società, insomma, non è soltanto l’utente passivo, lo stomaco consumistico del formicaio capital-comunista. La società interagisce con il sistema di vita, con la cultura, con la mitologia che vi corrisponde e perciò non è soltanto un terreno di conquista ma resta sempre l’elemento rettificatore in potenza.

Ebbene, se arricchiamo questa constatazione con una serie di considerazioni sulle tendenze attuali e future, possiamo nutrire leciti ottimismi.

Vi è oggi nell’aria una sorta di saturazione dei canoni valoriali di fine secolo, la pentola bolle. Non che si stia preparando una rivoluzione, ma non è peregrino prevedere una nuova scrollata di spalle.

Parliamo di qualcosa di ipotetico, di vagamente assimilabile ad un novello sessantotto (o se preferiamo, a dei nuovi anni trenta o a dei nuovi anni dieci: le rivoluzioni artistiche, culturali e valoriali assumono forme e livelli d’intensità diversi ma danno comunque sterzate rilevanti alle concezioni ed ai modi di vita generali). Ebbene, la direzione verso cui sembra orientarsi questo fenomeno si preannuncia interessante.

L’irrazionale, il fantastico al quale guardano con sempre maggior convinzione le giovani generazioni, ed in particolare la mitologia fantasy, promettono bene.

Così come lascia ben sperare il recupero della mitologia storica ed eroica oggi presente a tutti i livelli, Hollywood compresa.

Ed è un fenomeno che si estende a macchia d’olio.

Chi sia stato per le vie di Roma una settimana dopo la conquista dello scudetto da parte della squadra che ne porta il nome, non può non esserne rimasto colpito.

Centinaia di migliaia di persone in delirio dall’alba al tramonto, affascinate dalle figure della Legione, dall’idea dell’Urbs Aeterna, dai simboli guerrieri.

Tutte, senza distinzione di ceto, di sesso, di cultura, di famiglie politiche.

Tutte orientate ad una vaga idea di Impero, tutte a cimentarsi con la storia ed il latino, perfettamente controcorrente rispetto ai dettami delle riforme scolastiche in vigore.

I comunisti (dai DS a RC), colta l’eccezionale potenzialità dell’evento, hanno subito provato a cavalcare l’improvvisa marea, complice il potere municipale (e qui torniamo all’importanza crescente che esso assume in vista di rivoluzioni culturali e di riassetti sociali).

E non vi sono riusciti: un milione di persone al Circo Massimo ha spontaneamente rifiutato i tentativi d’interpretazione e di strumentalizzazione da parte dei santoni comunisti accorsi attorno al cantautore deputato allo scopo, il quale non è riuscito ad incanalare l’emozione collettiva come e dove intendeva. 

Il sorprendente flop di Venditti e Veltroni (che sono assolutamente impossibilitati per cultura a cogliere un input che non è solo calcistico) ha portato la stampa progressista della capitale ad interrogarsi con qualche inquietudine su quel che stava accadendo e a sperticarsi per esorcizzare l’impatto del risorto fantasma dell’ Antica Roma (“non è fascista!”…)

Certo, chi ha assistito alla manifestazione attraverso il filtro televisivo non se ne è potuto rendere conto, ma il rigetto è stato forte e generalizzato e l’insuccesso della fazione comunista è in qualche modo paragonabile a quello che a suo tempo Lama subì all’università. Con una variante: l’insofferenza stavolta non è venuta da sinistra.

Con ciò non vogliamo dare importanza eccessiva ai richiami superficiali che provengono da un fenomeno di delirio popolare troppo legato allo spettacolo agonistico, ma è importante rilevare che le forme nel quale esso si è riconosciuto molto probabilmente oltre ad essere assai significative sono tutt’altro che effimere.

Queste ultime vengono da lontano e, se si manifestano come si sono manifestate, è perché nella vita di tutti i giorni, nel continuo rapportarsi di milioni d’individualità nei confronti di un mondo virtuale, di una socialità virtuale e di un’etica virtuale, proprio i riferimenti che si sono imposti nelle piazze esistono e risultano particolarmente familiari: in essi si è silenziosamente appreso a riconoscersi.

Una società che parla poco, che analizza poco, che si parcellizza in individualità continuamente a rapporto con sistemi informatici, le quali congiuntamente alla solitudine vivono il recupero della fantasia, ha vari sbocchi.

Quando non naufraghi in nevrosi violente o masochistiche né devii in dimensioni surrealistiche, l’individuo torna inesorabilmente ai valori puri e magnifici della fanciullezza, lasciandosi alle spalle l’immaturità e l’aridità adolescenziale proprie al modello post-bellico fino ad oggi imperante.  

Il nuovo linguaggio di comunicazione sociale infatti si modula sulla falsa riga del Microsoft, ovvero si elementarizza certamente, ma si fa immaginifico e simbolico, cosa, questa, che sottintende una vera e propria rivoluzione intimistica ed idealistica che probabilmente non potrà che essere, come inizia ad essere, ad indirizzo classico (e più precisamente neoplatonico e pitagorico).

La stessa ingegneria, assumendo queste nuove tecniche con i suoi valori intrinseci e muovendosi al contempo inesorabilmente verso concezioni anti-materialiste a lungo osteggiate (pensiamo ai Quanta) pone la sua candidatura ad elemento rivoluzionario della cultura dei prossimi decenni.

E qui addirittura di autentica rivoluzione si tratterebbe perché investirebbe la visuale, l’immaginario, nonché la tecnica quotidiana e le scelte di vita di milioni e milioni di persone.

Non possiamo infine non constatare come il progressivo abbandono delle consuete categorie democratiche spinga in due direzioni divergenti ma complementari: il verticismo con riscoperta della concezione gerarchica ed il localismo con riproposizione praticamente certa della democrazia diretta.

Il potenziale, allora, è deflagrante.

 

Noi

 

Una volta tanto, forse la prima da svariati decenni, allora non dobbiamo nemmeno andare controcorrente, anzi possiamo trovarci a fungere da battistrada.

Un gran peccato per una buona metà dei nostri compagni di viaggio (?) i quali fra breve non avranno forse più scuse da accampare per giustificare i propri limiti, la propria pigrizia, la propria aridità e la propria ottusità.

Si aprono, dunque, notevoli prospettive. Ma per chi ?

Per chi la smetta di stare alla finestra e abbandoni finalmente la presunzione di possedere il Verbo, per chi decida di apprendere ad agire su se stesso fino a farsi carico di un potenziale enorme che trascura e sopravvaluta allo stesso tempo, si aprono davanti agli occhi vere e proprie praterie.

E a questo punto, accantonando ogni entusiasmo prospettico, resta da spendere qualche parola sull’argomento “noi”.

Perché l’azione si compia, perché il verbo si declini fino a definirsi nel complemento, perché tutto sia perfettamente aggettivato, serve, comunque, il soggetto.

Ed è innegabile che questo al momento sia incompiuto.

Esso esiste da un punto di vista emotivo, caratteriale, psicologico, simbolico: è un vero e proprio microcosmo con la propria storia, la sua musica, la sua letteratura e la propria mitologia. Politicamente parlando, invece, questo soggetto non esiste se non a sprazzi: lo si può definire di tipo pre-politico.

Per il passaggio alle categorie della politica esso ha ancora molto da imparare.

 

Trasformarsi in avanguardia

 

Ma se le premesse da noi esposte sono valide, ancor più di questa necessarissima acquisizione di competenze è indispensabile una trasformazione radicale della mentalità ed un recupero della sensibilità e della capacità di comunicare.

Ovvero ci si deve trasformare in avanguardia:  artistica, esistenziale e sociale (nel senso letterale della parola che non riguarda le questioni contrattuali ed assistenziali alle quali si è usi legarla, bensì il modo di relazionarsi, ovvero la qualità della vita civile).

 

Un noi istituzionalizzato

 

Vi è chi, con diversi gradi di consapevolezza, marcia in questa direzione, soprattutto nel campo del messaggio musicale.

Vi è chi si prova a farlo, nel dominio generico della metapolitica.

Vi è chi lo fa, nella dimensione del sociale, in zone e quartieri della periferia e della provincia, forte di mezzi acquisiti nell’ambito di AN o in quello leghista o, come accade in varie zone del sud e specialmente nel napoletano, senza nemmeno passare per strade partitiche.

A quest’insieme manca spesso il necessario grado di consapevolezza e quasi sempre un ampio respiro strategico, cui è comunque possibile approdare nel tempo.

 

Un noi chiuso in se stesso

 

Se vi è concretezza, quantomeno potenziale, in certi settori di AN, della Lega, della metapolitica, della trasversalità civica, particolarmente spiazzata risulta invece l’area militante che si riconosce in liste (o in gruppuscoli) di aspirazione estremistica e puristica.

La logica alla quale essa si abbarbica è solitamente particolare: per via dell’estraneità al mondo, la politica è vissuta come una sceneggiata, come un gioco di ruolo che si svolge sulla falsa riga di Risiko per piantare qua e là bandierine a discapito di un rivale limitrofo che poi nella realtà è assolutamente identico al concorrente.

Si assiste, così, ad una continua e snervante battaglia per centrare un risultato al contempo irraggiungibile ed inutile: il monopolio del ghetto.

Quest’area, o meglio questa porzione d’area, sembra piuttosto frastornata dalle evoluzioni quotidiane ed esclusivamente votata alla logica ininfluente di rappresentazione di se stessa.

Anche se va rammentato che iniziative quali le colonie estive di Forza Nuova promettono bene, preannunciando forse cambiamenti di mentalità assolutamente auspicabili.

 

Un noi finalmente attivo

 

Ovunque, allora, c’è qualcosa di valido, sia pur non nella stessa misura o con le medesime motivazioni; ma soprattutto c’è molto da correggere; ad iniziare dalla concezione che si ha di sé, della società e della politica.

Che ognuno militi lì dove frequenta; ma che lo faccia positivamente, con vocazione alla trasversalità e con la capacità di discernere le priorità reali da quelle dettate dalla legge del branco e dalla logica di comitiva.

Che lo faccia secondo i dettami del disinteresse, dell’impersonalità, dell’interventismo, della costruttività, con il recupero della capacità di comunicazione e nella logica dei vasi comunicanti.

 

Verso il futuro.

 

Per concludere proviamo a ricapitolare.

 

Il Potere si snoda a tre distinti livelli.

Quello più alto, proprio ai vertici imperialistici e del capitalismo multinazionale è del tutto al di fuori dalla nostra portata e non siamo, né saremo, in grado di sfidarlo.

Possiamo interagire come variegato sistema di forze (anche da posizioni contraddittorie: partitiche o apartitiche, governative od antigovernative, movimentistiche o metapolitiche) per intervenire sugli altri piani.

Allo scopo di consolidare sacche culturali e sociali alternative e dinamiche, soprattutto ai livelli municipali e locali laddove le gestioni degli spazi si declinerebbero con la veicolazione di messaggi politici e di scelte sociali.

 

La società è un elemento vivo, di cui siamo parte integrante e nei cui confronti è d’uopo porsi come élite di riferimento e di rinnovamento.

Essa rappresenta un fattore rivoluzionario notevole che si orienta, in maniera discreta ma inesorabile, sempre più verso riferimenti qualitativi, culturali ed etologici che non possono non piacerci, che forse ci consentiranno di acquisire il peso specifico che ci compete e che possono essere forieri di una rivoluzione culturale e valoriale la quale, nell’arco di alcuni anni, avrà magari un salutare effetto sulle stesse oligarchie dominanti, intaccando e sconvolgendo così anche il primo livello di Potere, quello che oggi non possiamo nemmeno prendere in considerazione.

Dal che si evince che non stiamo proponendo una via minimalista ma al contrario una scelta veramente ambiziosa, probabilmente l’unica che lo sia.

 

Intervenire al tempo stesso sul Potere alla nostra portata e nella Società da avanguardie, significa, infatti, fare una scelta operativa e rivoluzionaria, nel senso vero del termine, perché atta a modificare i canoni valoriali, i rapporti di forza, le dinamiche, i costumi e gli orizzonti collettivi.

Certo non si tratta di una scelta facile perché si basa esclusivamente sulla volontà, sulla capacità, sull’efficienza e si può realizzare soltanto abbandonando schemi psicologici preconcetti, prediligendo la concretezza rispetto alla  visibilità, la qualità umana rispetto alle appartenenze di branco.

 

Se questi sono gli obiettivi ai quali mirare, si deve puntare senza esitazioni al futuro ed agire da ora sulla società, anzi nella società, per via emozionale, simbolica, lessicale e di organizzazione di stile di vita.

La politica, nel senso abituale del termine (che poi è assolutamente improprio, la politica essendo, in realtà, proprio la vita associata quotidiana) deve servire da supporto, da luogo d’incontro e di organizzazione per un impegno a duplice caratterizzazione.

Quello rivoluzionario del solve testé definito e che procede per via musicale, artistica, etologica prima ancora che ideologica o politica.

E quello solido del coagula che affianchi e metta in pratica nel quotidiano i messaggi nuovi, le nuove formule, i costumi rinnovati, contrassegnando il terreno di zone franche  con spazi autogestiti, non da noi soli ma da noi per tutti,  con tutti, in una trasversalità diagonale che annunci tempi nuovi che vivremo da protagonisti.