E sì che da tempo negli ambienti politici radicali si sta facendo strada faticosamente una presa d’atto della realtà. S’inizia a capire che il potere è saldamente nelle mani di lobbies private, transnazionali, che perseguono obiettivi antinazionali e antisociali.
La forza di quelle lobbies, più ancora che nella gestione delle finanze, sta nel monopolio e nell’utilizzo ipnotico dei media con il quale fanno credere - e fare - a tutti qualsiasi cosa desiderino.
Il potere reale si trova al crocevia degli interessi economici che puzzano di Crimine Organizzato (droga, armi, mafie farmaceutiche, mafie energetiche ecc).
Le amministrazioni politiche, le istituzioni, svuotate di sovranità e di qualsiasi margine di manovra sono totalmente sottomesse a quelle lobbies multinazionali. Di più: non si fa carriera politica se non si è portaborse e lacché; se qualcuno si provasse a fare il politico (all’Andreotti o alla Craxi per intenderci) si troverebbe fuori gioco immediatamente.
La politica istituzionale si è trasformata nella commedia della politica mentre la gestione concreta delle risorse e delle decisioni spetta ad organismi privati di estrazione criminale (Cfr, Wto, banche, Ong).
La società dello spettacolo (o dello psicodramma come controbatte Miro Renzaglia) è ovunque, ha preso il posto della società reale che invece è implosa. Tanti atomi ipnotizzati, servi felici dell’iperconsumismo, ne formano il tessuto inorganico e dissociato.
Ogni giorno che passa s’indeboliscono i residui anticorpi di sovranità e di socialità.
Chi si dice: “a tutto questo c’è un limite, il sistema sarà preda delle sue contraddizioni” francamente non ha capito granché: è proprio il sistema – quello reale non quello di copertina – che incoraggia l’accelerazione di questa disgregazione.
D’altra parte l’oligarchia propsera e si consolida proprio sul terrore quotidiano, sull’insicurezza.
La jungla d’asfalto rappresenta il modello socioculturale anglosassone da sempre; gli oligarchi inglesi sulla degenerazione urbana hanno costruito un impero, assicurandosi così che il popolo non li mettesse mai spalle al muro.
Gli Usa lo hanno addirittura sublimato questo modello di depravazione socioculturale; e proprio con esso gestiscono l’impero oligarchico a scala più o meno planetaria.
Non vi è dubbio: noi europei e latini, ci troviamo in una fase completamente nuova di civilizzazione (così si chiama una struttura meccanica, antitrascendente, di civiltà). Un quadro sociopolitico assolutamente diverso da tutti quelli che precedono gli anni Ottanta.
Non vi è dubbio: per fare qualcosa in un mondo rivoluzionato ci si deve mettere radicalmente in discussione; non si possono copiare i modelli del dopoguerra.
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Messe di fronte ai rovesci quotidiani, le varie componenti della destra post/neofascista convergono, almeno dal punto di vista teorico, nel fatto di dover cambiare registro. Comprendono, o perlomeno così dicono, che non c’è democrazia, non c’è libertà, non ci sono spazi di manovra (se non quelli che ci si costruisce faticosamente da soli) e che non esistono condizioni per un miracoloso risveglio sociale o nazionale.
Concordano – chi più chi meno – che ogni qual volta la telecrazia ci espone con enfasi e insistenza una notizia “preoccupante” (guerra, terrorismo, epidemie, frizioni sociali) persegue scopi diversi dall’informazione e, soprattutto, lo fa mentendo e mistificando.
Esiste poi una tradizione di cultura critica, che risale addirittura al neofascismo degli anni Sessanta, che smascherò il gioco delle parti a livello internazionale, denunciando l’inesistenza dell’alternativa fra Usa e Urss e, anzi, la loro complicità essenziale.
A questa si aggiunga una lunga e nutrita pubblicistica critica da parte della destra radicale italiana e francese sulle fitta rete di complicità fra vigente fra gli Stati Uniti e l’integralismo islamico.
Verrebbe allora da chiedersi come chi è cresciuto in quell’humus possa seriamente sperare qualcosa dall’Iran.
Vi è di più. Con eccesso di complottismo, l’estrema destra aveva immediatamente denunciato, e ben oltre la misura del reale, le partecipazioni degli agitatori americani ed israeliani alle contestazioni sessantottine, fino al punto da sottovalutare gli elementi spontanei di quel fenomeno e il suo straordinario dinamismo. C’è allora da domandarsi come un ambiente che ha lungamente sostenuto queste tesi eccessivamente (ma non totalmente) paranoiche possa oggi tifare per o contro le banlieues.
Come può un mondo che sembra aver raggiunto qualche saggia certezza, mostrarsi sempre adolescenzialmente disponibile a qualunque input esterno?
Al punto da scambiare i banlieusards – che sono ragazzotti assistiti, viziati e viziosi – con un inesistente proletariato urbano. O da confondere la tranquillità della borghesia multinazionale francese con la coscienza e la difesa della razza bianca.
L’una e l’altra di queste astrazioni differiscono tra loro per gusto ma non per realismo, ché sono entrambe campate in aria.
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Eppure basta che un telegiornale trasformi una frase di un uomo di stato, o che giochi torbidi facciano porre i riflettori (generalmente spenti) su alcuni disagi della contemporanea società patologica, perché la gran parte della destra radicale si getti a capofitto nella guerra degli slogan; totalmente presa dalla sindrome della curva.
Perché? Semplicemente perché anche le presunte avanguardie si rifiutano di credere alla realtà, non differiscono in fondo dalla popolazione mondiale che si lascia menar per il naso in ogni circostanza credendo a tutto l’irreale che le viene ammannito: da Bin Laden all’aviaria; e perché no all’Iran, alle banlieues o alla spontanea rinascenza bianca?
Perché credere davvero nella realtà, o meglio avere il coraggio di fissare gli occhi nell’abisso significherebbe doversi mettere in discussione, rimboccarsi le maniche, agire altrimenti, abbandonare la commedia (e spesso l’avanspettacolo) della politica, non lasciarsi invischiare nelle finte alternative create a tavolino, rivedere completamente la funzione oltre che l’immagine del partito e del movimento.
Significherebbe opporre allo show nientificante la costruzione pragmatica, quotidiana, di realtà sociali, economiche e culturali autonome; al contempo popolari ed elitarie. Andare, insomma, a costituire organizzazioni identitarie, così come il marxismo agì mediante le organizzazioni di classe.
È faticoso e costoso e, soprattutto, lascia poco spazio al tifo e sempre meno allo spettacolo.
E così non appena ci viene propinata una messinscena dai toni un po’ forti i più ci cascano a pié pari. Vuoi vedere che il sistema salta? Che il popolo si risveglia? Che il Poggibonsi vince lo scudetto, anzi la Champions League? E che il Duce vive?
Ma quel treno immaginato, qualunque esso sia, non passa mai.
Si deve fare affidamento sulle proprie forze e costruire il mondo intorno a sé. Con le leggi tradizionali della fondazione, nella virilità spirituale, nello spirito di comunità. Hic et Nunc.
Ogni ectoplasma sul quale s’intenda fare leva si rivelerà inconsistente e sarà foriero solo di ulteriori disillusioni e di disorientamento.
Lasciamo l’Iran e le banlieues alle farse del telefratello.