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La Russia si rifiutava di concedere carta bianca agli Usa contro l’Iraq. A Bush che gli aveva proposto il sostegno americano in caso volesse agire militarmente in Cecenia, Putin aveva risposto che per muovere guerra all’Iraq era necessario il permesso dell’Onu e che, per evitare il veto russo, gli Americani avrebbero dovuto impegnarsi per il rispetto, anche nel caso dell’instaurazione di un nuovo regime in Bagdad, dei contratti petroliferi tra Iraq e Russia.

In pratica la Russia si era posta da sentinella degli interessi europei (ed indirettamente iracheni) e da principale ostacolo alle mire americane.

Gli obiettivi collaterali dell’azione della Dubrovka

Fermo restando che i guerriglieri ceceni hanno fatto di testa loro e che tutt’al più sono stati manovrati inconsapevolmente da eventuali burattinai, le centrali americane hanno colto l’occasione per perseguire immediatamente tre risultati.

1) Gettare la Russia nella fornace di una crisi politico-militare in Cecenia (ossia in una regione asiatica a religione islamica) proprio in contemporanea con la manovra americana in Iraq e, con la probabile azione parallela di ulteriore genocidio condotta dalle armate di Sharon nei territori occupati.

2) Generare una solidarietà tra Usa e Russia raffreddando al contempo i rapporti tra Putin e l’occidente europeo.

3) Ottenere da Putin il via libera per l’azione in Iraq.

Le apparenze delle contromosse di Putin

Putin, trovatosi con le spalle al muro, sembra andare nel senso voluto dagli americani. Ma solo apparentemente: difatti il raffreddamento ad ovest non si è verificato verso Berlino e nemmeno verso Parigi, malgrado qualche protesta di prammatica per le manifestazioni di piazza inscenate dagli islamici nella capitale francese, bensì nei confronti della neutrale Copenaghen che ha accettato di ospitare la conferenza degli indipendentisti ceceni. L’avvicinamento con gli Stati Uniti inoltre è un puro e semplice battage propagandistico. Il rapporto di collaborazione e di reciproca freddezza tra Mosca e Washington, preesistente ai tragici fatti della Dubrovka, non è mutato di una virgola.

La sostanza delle reazioni di Putin

La chiamata alle armi è stata fatta contro “centrali del terrorismo internazionale” senza aggettivazioni (la cui sede può intendersi Teheran, Bagdad, Pechino come New York o Tel Aviv).

Sulla questione irachena Putin non ha fatto marcia indietro ma ha riconfermato le sue legittime pretese economiche e politiche.

La sostanza della politica di Putin

È una politica volta al recupero di potenza e fondata essenzialmente sul realismo. Putin gioca a tutto campo ed è così al contempo alleato e rivale di chiunque, dagli Usa alla Cina, da Israele all’Europa. Oggettivamente parlando, ovvero fondandoci sugli imperativi economici e geografici oltre che culturali, la potenza russa non può comunque che tendere ad un esito: quello di porsi come punta di lancia di un’Europa protesa verso l’Asia centrale oltre che sul Mediterraneo.

La sostanza della politica americana in Eurasia

È principalmente incentrata ad evitare che questo scenario si produca. Per queste ragioni, seguendo lo schema proposto da Huntington (o meglio teorizzato da Huntington allorquando era già politicamente in atto), gli Usa hanno interesse a creare un état d’esprit di contrapposizione per blocchi religiosi e culturali tra occidente ed Islam.

Gli errori da evitare

Come insegna lo stesso Putin, il primo errore da evitare è quello di universalizzare le distinte situazioni. La Cecenia, l’Iraq e la Palestina sono, per esempio, tre realtà diverse; il Pakistan, l’Arabia Saudita, l’Afghanistan sono a loro volta differenti. Immaginarle come un blocco o, peggio ancora, trasformarle in un blocco, che sia per opporcisi fermamente in nome di un anacronistico revanscismo crociato oppure per sostenerle strenuamente in virtù di un amore incondizionato per gli oppressi, servirebbe solo a rafforzare gli equilibri di un imperialismo scricchiolante.

Il secondo errore da evitare è proprio quello di mettere sullo stesso carro le diverse potenze egemoni: Usa, Cina, Russia ed Israele.

Potenze che hanno una diversa storia alle spalle ma che, soprattutto, sono protese verso orizzonti assai discordanti.

È fondamentale saper discernere e, soprattutto, identificare in tutto ciò chi è in grado di tirare la volata per un revanscismo europeo che, consequenzialmente, gioverebbe anche ai popoli oppressi.

Dal che non può non derivare un deciso sostegno, sia pure sub iudice, a Vladimir Putin.