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Ha suonato nell’Ottantanove, ha suonato nelle strade vuote,

è il tamburo che accende la folla: è il tamburo della Bastiglia.

È il tamburo della Vandea , suona piano nella nebbia scura.

È il tamburo che non perdona: è il tamburo della ghigliottina

È il tamburo del Diciassette: è il tamburo che non si arrende. È il tamburo che infuoca le steppe, è il tamburo delle guerre perse.

È il tamburo che guida le masse, brandisce e arrota le asce, è il tamburo che non si scorda: è il tamburo dell’avanguardia!

È il tamburo del Ventidue, è il tamburo che ha già suonato: è il tamburo che alza la polvere sulla piazza del Plebiscito. È il tamburo di mille torce. È il tamburo sulla strada per Roma, è il tamburo che se ne frega: è il tamburo che non perdona!

Già suonava nelle trincee ora sotto le bandiere nere, già scuoteva le armate nel fango, è il tamburo che ferma il tempo, è il tamburo della terra scura, è il tamburo del marmo bianco; è il tamburo che non si scorda: è il tamburo dell’avanguardia

Con la pelle del mio somaro, con il legno dell’ultima quercia è il telaio del mio tamburo: il tamburo dell’ultima marcia, è il tamburo della riscossa, è il tamburo che suona all’alba. È il tamburo che non si scorda: è il tamburo dell’avanguardia!

 

“Avanguardia” Sottofascia semplice 1998 (Trifase-Perimetro ed)

 

 

 

 

 

 

“Mister Tamburino non ho voglia di scherzare” così cantava Battiato nel mettere a nudo la mascherata esistenziale e la residua pulsione a ribellarsi ai primissimi degli Ottanta. Tamburine Man era stato cantato una dozzina d’anni prima da Bob Dylan, uno degli apostoli di quella rivolta anni Sessanta made in US e destinata al nihil. Tant’è che Dylan è finito conservatore…

Mario (Katanga) alias SFS rifece il verso e ci ricordò che avanti alle rivolte, a tutte le rivolte, c’era sempre il tamburo.

Non un tamburo qualunque ma un tamburo dalla fattura particolare, che attesta un’architettura sofferta e profonda. “Con la pelle del mio somaro, con il legno dell’ultima quercia”.

Quel tamburo, che non si arrende, è sempre lo stesso tamburo, che sia giacobino o vandeano, bolscevico o squadrista. Quel che conta è che suoni a ritmo, che accenda le folle, che scuota le armate nel fango. Quel che conta è che sia il tamburo dell’ a v a n g u a r d i a.

 

Avanguardia; chi era costui?

 

Avanguardia, cos’è? Spesso questa parola è un’attribuzione disinvolta che si regalano per nobilitarsi e darsi un tono coloro i quali sono tristemente isolati. Artisti falliti che, talvolta, diventano famosi perché appartengono per lignaggio alle famiglie che contano o perché hanno avuto la fortuna di trovarsi al momento giusto nel posto giusto per essere artefici (e soprattutto beneficiari) di una delle tante truffe che il sistema oligarchico propina nel gioco delle plusvalenze.

Artisti falliti e fortunati che diventano anche miliardari (pochi, gli altri muoiono di fame) ma non danno vita ad alcuna corrente seria perché la loro sregolatezza e il loro estro non tradiscono il genio ma l’inconsistenza, sicché i loro prodotti, nel migliore dei casi, sono dei bluffs.

Da cinque decenni a questa parte, eccettuato il campo della pubblicità, ben poco si vede in fatto d’innovazione artistica (il che non significa che sotterraneamente questa non ci sia ma solo che lo scollamento collettivo è elevato e quindi la comunicazione è caotica e la percezione diviene impalpabile). Per un certo periodo, forse per dare una speranza di soluzione al ’68 incompiuto, si è cercato di ingannare l’universo parlando di “arte d’avanguardia” ma si trattava di sperimentazioni di emarginati e/o di nevrotici che non hanno combinato nulla.

 

Questione di metri

 

In politica le cose non stanno altrimenti. Molti si danno l’attribuzione di avanguardie ma se di lì a poco non riescono, sia pure “per simpatia” a (far) muovere qualcosa, a incidere sul pensiero, sulla moda, sui comportamenti, vuol dire che sono solo degli isolati, degli emarginati. Da qualche decennio a questa parte le sole avanguardie politiche che si manifestano sono di taglio mondialista, tutte le altre culture trovandosi in oggettiva difficoltà rispetto al nuovo scenario occidental/globalista.

Eppure dalle sacche del prurito - destro o sinistro - è tutto un pullulare di neo-avanguardismo con tanto di rilettura (e ricopiatura) delle esperienze ad aspirazione avanguardistica del passato; dagli anni Venti ai Settanta, ché, dopo, non se ne trovano più, ed è anche per questo che c’è tanto riflusso negli integralismi religiosi.

Queste neo avanguardie, in realtà post-avanguardiste, non si avvedono che i loro balzi in avanti, sulla falsissima riga de l’Orologio, di Jeune Europe, di Lotta di Popolo o di Terza Posizione, non sono – nel quadro oggettivo – altro che scartamenti a lato.

Diceva un grande rivoluzionario (penso si trattasse proprio di Mao) che l’avanguardia marcia pochi metri avanti all’esercito: se perde il contatto non è più avanguardia.

E quindi l’avanguardia (l’aspirante avanguardia) deve, oggi, stare molto vicina alla sua base. Sia alla sua base identitaria (clan, tribu) che alla sua base sociale (popolo).

 

Artisti

 

Esiste oggi in Italia una piccola avanguardia. È nata, come spiega Di Tullio nel suo libro, capitalizzando certe aperture innovative degli anni Settanta, sul solco di azioni artistiche, musicali e persino nel campo della moda. Importantissimo il ruolo svolto negli anni passati da Dart e poi da Perimetro che perdura.

Quest’avanguardia di ghetto ha cessato di essere prigioniera del suo orticello quando ha portato la propria spinta oltre il messaggio musicale, quando si è trasformata anche (è bene sottolinearlo) in avamposto sociale con le OSA e il MS.

Un passaggio, questo, di maturità politica, dettato anche da elementi contingenti, ma nondimeno iscritta nel gene dei suoi promotori che sono artisti e innovatori. Come hanno dimostrato rivoluzionando la comunicazione (il manifesto di Gerri è finito a blob 2005 a Capodanno, tanto per fare un esempio).

Non è un caso. Alla base di tutto questo movimento c’è un gruppo musicale (e quindi un mondo che ha un collante musicale) gli Zetazeroalfa. Alla testa di tutto c’è una figura, Gianluca Iannone, alias Sinevox (o Boccia) che oltre ad avere le caratteristiche naturali del capo è un artista. Ed è per questo che le cose vanno in un certo modo.

 

Il guerriero dipinge

 

Intendiamoci: sono un fanatico del passaggio nel quale l’onorevole Tritoni (Ugo Tognazzi) in “Vogliamo i colonnelli” spacca la chitarra sulla testa del figlio che considera debosciato. Non avete idea quanti cantautori e strimpellatori “d’area” manderei a casa in malo modo. Non perché cantino o compongano ma perché cantano e compongono la propria tristezza e mettono in musica i loro intestini e le loro debolezze. Non sono artisti, sono bravi ragazzi che dovrebbero fare qualche centinaio di flessioni, un po’ di corsa e qualche escursione in montagna per poi cantare, in coro, solo canti allegri tipo “Siam le Brigate Nere!” o “Le donne non ci vogliono più bene” invece di piangersi addosso e di propinarci litanie.

Non basta che ci siano una chitarra, una batteria, una voce per essere artisti.

Gli artisti però ci sono e si sentono. Si sentono soprattutto perché danno forma – come è missione naturale degli artisti – al “sentire” dell’anima, dell’anima comune.

Non avete idea quanto i migliori combattenti, a volte i più sanguinari, abbiano profonda la sensibilità artistica.

I migliori guerrieri degli anni Settanta, anche prima dei Nar, li ho scoperti artisti; in particolare pittori, ma anche scultori o musicisti.

Il più guerriero di noi, Peppe Dimitri, aveva una profonda sensibilità musicale. E l’altro guerriero, Nanni De Angelis, dipingeva.

Se oggi c’è una ripresa nella direzione dell’avanguardia è perché alla testa ci sono degli artisti.

 

Tra i Beatles e le SS

 

Agli inizi degli anni Settanta il responsabile neofascista del mio liceo abbandonò la politica perché, diceva, non potevamo competere con un movimento che era nato sulle note dei Beatles e che non era assolutamente contenibile senza un contraltare. “Aspettiamo dei nuovi Beatles che indichino una direzione nuova!” riuscì a suggerirmi. Penso fosse un’ottima scusa per cedere alle pressioni della ragazza senza perdere la faccia, tuttavia va considerato che qualcosa in quell’affermazione era sensato. Dico qualcosa perché i Beatles (con Kerouac) potevano benissimo essere un’avanguardia di costume che ci corrispondeva, non era obbligatorio che fossero l’emblema della sinistra; il problema, semmai, stava nella nostra incapacità di adattamento (e dunque di espressione concreta di una tendenza in salsa nostrana). Il nostro difetto, la nostra incapacità risiedeva nella scarsezza di elasticità rivoluzionaria che era tipica dell’area. Tant’è che già i Beatles, divisi, stavano tramontando ma nessuno riuscì a cogliere al volo l’ondata hard (già da tempo in auge) dei Rolling Stones, tanto per fare un esempio rivelatore.

Lasciamo perdere le nostre peripezie di allora e torniamo al punto. Non c’è alcun fenomeno rivoluzionario senza avanguardia: entrambi sono al contempo causa ed effetto l’uno dell’altro.

Né c’è avanguardia che non sia artistica. Prova ne ho avuta lo scorso anno in Fiandre quando, vistando la collezione di un Reduce del Fronte dell’Est mi sono imbattuto nelle ceramiche che le SS producevano agli inizi degli anni Quaranta. Tenute nascoste per un paio di decenni, sono proprio quelle ceramiche, copiate in modo indecoroso, ad aver segnato uno dei pochi elementi artistici innovativi del dopoguerra, l’ art déco degli anni Sessanta.

 

E vai con il tamburo!

 

Che altro dire? Tornando a SottoFasciaSemplice, ribadirei che non c’è rivoluzione senza tamburo. Che il tamburo è del MIO somaro, con il legno dell’ultima quercia…

Qui il cerchio di tutto quello che abbiamo detto, finalmente, si chiude. È il tamburo che non si scorda: è il tamburo dell’avanguardia!