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E non è finita. Qualche genio ha pensato bene di riprendere la provocazione televisiva di D’Alema, senza comprenderne il senso recondito, e di dire “è vero, Mussolini andava processato e non giustiziato”. Tanto sono contenti di questa furbissima infamia leninista da richiedere al più presto un processo postumo al Duce.

Ricevuta in tal senso una mail entusiastica, rispondevo “siete pazzi, come vi viene in mente?” e la replica era “cosa le fa pensare che verrebbe condannato?”.

Nel che tutto si spiega. Ci si espone al ridicolo di richiedere un processo postumo, neanche lo si potesse resuscitare, nella speranza che venga assolto, dunque riabilitato. R i a b i l i t a t o !

Ecco il primo dei miei perché sulla sentenza di condanna che esprimo nei riguardi del revisionismo cuorneristico. Induce taluni a elemosinare e, costoro, prostrandosi, ci mortificano tutti.

 

Pace, resa o pietà

 

Abbiamo deciso di dedicare parte di questo numero a commentare tale genere di operazioni, visto che le nostre opinioni in merito sono discordanti. Soprattutto diversi giovani vedono con un certo favore il revisionismo, indice di un clima rasserenato e premessa ad un riconoscimento storico e morale. Questo lo capisco, benché non lo condivida perché non penso affatto che le cose stiano così, né nelle intenzioni reali dei promotori, né nelle conseguenze derivanti dagli scritti. I più giovani non hanno vissuto quegli anni, non hanno visto quegli sguardi, non hanno accompagnato quei corpi; pretendono quindi una giusta equità teorica come se fosse compensativa, come se fosse possibile. Non sanno che non l’avranno mai, a meno che – cosa assai improbabile – non vincano. Non l’avranno mai perché gli altri, i vincitori, sono disonesti nell’animo, profondamente disonesti anche quando cercano di essere obiettivi.

Anche tra i meno giovani ci sono persone che hanno visto con simpatia l’operazione. Molti di essi sono ingenui (ovvero, etimologicamente, di buona razza, privi di malizia) altri sono vinti almeno un po’. Si ripropone il dramma dei reduci della RSI.

Alcuni di essi, non pochi, tribolano da decenni per essere riconosciuti. Altri, come il gen. Luigi Emilio Longo, allora brigatista nero, rispondono: “ma chi lo vuole quel riconoscimento, che ce ne facciamo? Il riconoscimento da parte di chi? Di criminali, vigliacchi, banditi?” E noi siamo con il generale.

Essere riconosciuti infatti vuol dire non essere più guardati male, come appestati, con insolenza e cattiveria o con sufficienza, esser riconosciuti vuol dire essere infine normalizzati, pacificati.

Alcuni proprio questo desiderano e li capisco, ma ritengo che sbaglino perché non vi è pace senza spada, altrimenti questa si chiama resa o, peggio, pietà.

 

Distanze

 

Non fraintendetemi. Non si tratta affatto di aggrapparsi all’immagine di esaltati irriducibili, di untori della peste, di emarginati per vocazione, non si tratta di essere quelli che fanno paura per come camminano e per come si acconciano. Non sono così fragile da trovare la mia forza nello sconcertare gli altri, nell’ épater le bourgeois. Nemmeno sono un superuomo, tuttavia credo che un animo pacificato sia un animo allegro e sorridente che se ne frega di quello che pensano gli altri, vieppiù del dover sempre correre ad handicap; cosa che, quando riesce (ed è riuscita alla quasi totalità di noi dopo ogni disfatta) arricchisce e rafforza.

E nelle riletture del nostro passato prossimo e remoto quest’animo gioioso e forte c’è e non c’è.

O meglio, quando traspare sembra non l’effetto di una catarsi spartiata ma una caratteristica umana, troppo umana. Umani, troppo umani, appaiono infatti i nostri in quei racconti e la pietà di quelli che dicono “in fin dei conti non erano poi così cattivi, non bisognava ucciderli” fa la rima con il verbo di coloro che vorrebbero ora processare Mussolini e che neanche si rendono conto del sacrilegio che commettono ipotizzando che il Capo di Stato legittimo degli italiani, il Padre della Patria potesse essere processato da banditi al seguito dell’invasore. Di fucilarlo avevano tutto il diritto – diritto da predoni – di processarlo proprio no!

Per ridurre le distanze con la plebe affamata, per cortesia, non si riduca la statura dei giganti!

 

Virtù che rimpicciolisce

 

Questa è la prima, se non l’unica vera ragione per cui ritengo il libro di Telese, così come quelli di Pansa, un libro negativo. Al di là di come è scritto (forse un po’ troppo sulla falsa riga dei thriller alla Faletti), al di là delle grosse imprecisioni storiche, al di là delle forzature di personaggi nobilitati o ingigantiti a scapito di altri che incredibilmente sbiadiscono, al di là di calunnie riportate inconsapevolmente.

Al di là del trasporto certo dell’autore, che quei drammi in qualche modo ha fatto suoi, così come poteva farli suoi per via del suo specifico sentire che non è il nostro né è in grado di coglierlo. È un libro negativo perché, volendo rendere omaggio a giovani dimenticati, anzi rendendo omaggio a giovani dimenticati, contribuisce a ridimensionarli e, soprattutto induce ad abbassarsi quei sopravvissuti che cercano la pace al di fuori di sé, che l’invocano nella considerazione e nella commiserazione degli altri. C’è in quest’impresa un po’ troppo di “virtù che rimpicciolisce” per dirla alla Nietzsche. C’è troppo amor missionario; un abbracciarti per convertirti.

 

Altre ragioni di dissenso

 

Poi ci sono ragioni razionali a spiegare le mie perplessità. La prima è che questo genere di ricostruzioni storiche non smuove di una piuma ciò che sostiene la storiografia ufficiale. Pansa ci dice in sostanza: i giovani della RSI stavano con il Male Assoluto, tuttavia non era giusto ucciderli tutti ed ucciderli così. Telese ci dice: questi erano ragazzi normali, di cuore che stavano dalla parte sbagliata ma non dovevano essere uccisi. Questo non sarebbe avvenuto senza un’ideologia fondamentalista e fanatica che caratterizzò quegli anni. Telese la nascita di quel fanatismo omicida a sinistra lo attribuisce alle reazioni al golpismo strisciante invece di accorgersi che nasceva dalla presenza attiva nelle file rosse dei partigiani ancora nel fiore degli anni. La scelta della lotta armata a sinistra infatti data dal 1967... Comunque sia, ci dice Telese, senza quella follia ideologica quei giovani – che pure sbagliavano - non sarebbero stati ammazzati così assurdamente.

Insomma: attenzione agli eccessi. Morale: non siate troppo fanatici e confrontatevi serenamente nel Tempio della Ragione. Siamo sempre alla “virtù che rimpicciolisce” nel trionfo della banalità.

Poi non si può disconoscere che Cuori Neri ha anche una funzione elettorale, particolarmente trasversale, tanto che lo cavalcano sia AN che Veltroni.

Né va scordato che Telese ma soprattutto Pansa hanno guadagnato a piene mani su quei libri. E se permettete non sono molto felice che prima ci ammazzino per poi disseppellirci e fare i soldi sulle nostre ossa.

 

Non tutto è disastroso in quel libro

 

Certo non tutto è disastroso in Cuori Neri; a qualcosa sarà servito di sicuro: per esempio a far sapere a molti ragazzi come e perché è morto questo o quello degli Angeli Custodi ai quali ogni anno dedicano il Presente. In una lettura sacra e mitica del gesto non so nemmeno quanto sia un dato positivo, in una dimensione più umana probabilmente lo è. Il libro può esser servito poi a ricordare ai giovanissimi che i comunisti sono assassini; ma di questo dovremmo parlare ore. Oppure sarà servito a tizio o a caio per esternare; il che non è necessariamente un qualcosa di edificante perché, di solito, le storie le raccontano quelli che non le hanno vissute o coloro che ne sono stati comparse o, infine, i più indegni e curvi; quasi mai i migliori.

Ma tra le pagine del libro una mi è piaciuta davvero tanto. La risposta di Benito Bollati, ex brigatista nero lombardo, all’autore. La riporto

 

Benito Bollati

 

“Sulla morte del suo amico (Enrico Pedenovi n.d.r.), Bollati ha scritto anche un libro(…) Bollati ha parlato con gli uomini del commando che spararono all’avvocato, li ha conosciuti in tribunale; con qualcuno di quelli che si sono pentiti e ravveduti ha persino stretto rapporti di conoscenza e di stima. Ed è difficile immaginarselo, lui, l’ex ragazzo in camicia nera con il teschio sul berretto e il mitra in mano, a colloquio con un altro ex ragazzo degli anni di piombo, che in un altro tempo aveva sognato l’avvento della dittatura del proletariato a la lotta armata, con la P38 in tasca (…)

E con lui il rapporto è nato, con altri no.“Quello che non posso sopportare, di certi personaggi, non sono gli errori di ieri, ma la vigliaccheria di oggi”. Poi Bollati si alza e mi dice:

Lo sa cosa accadde nella primavera del 1975, un anno prima che sparassero a Enrico? Mi aspettarono sotto casa, con le chiavi inglesi. Erano in quattro. Mi circondarono: iniziarono a massacrarmi di botte, selvaggiamente. Io avevo la pistola nella tasca, e non sapevo cosa fare con le mani, mentre piovevano i colpi… Se continuare a ripararmi il cranio, insomma, o se rischiare la vita per estrarla. Ero già a terra, non vedevo più nulla, il sangue mi colava sugli occhi, con la forza della disperazione sono riuscito a prendere l’arma e a impugnarla. Loro se ne sono accorti, e un altro colpo di chiave inglese mi ha fratturato la mano. Ma sono riuscito a puntarla lo stesso, verso i miei aggressori che avevano tutti i passamontagna calati. Ho letto la paura nei loro occhi. Sa com’è andata? Che ho tenuto la pistola dritta e loro sono fuggiti via, a gambe levate.

Bollati prende un sospiro: “Da trent’anni convivo con questa certezza. So che se non avessi avuto la sicura innestata, ne avrei stesi almeno un paio. È un pensiero… un pensiero….” Che le dà sollievo, chiedo? E lui, voltandosi, come stupito per la domanda: “No. A esser sinceri, è un pensiero che mi dà ancora rammarico. Non fosse stato per quella sicura, almeno uno di quei vigliacchi lo avrei di sicuro lasciato per terra”.

 

Storia, epica, o romanzo borghese

 

Questa è per me la pagina più autentica e più bella del libro di Telese. Non quelle in cui l’autore si lascia trasportare da sicuro affetto verso Mario Zicchieri o Nanni De Angelis, non quelle, struggenti, da cui emergono figure di familiari che sembrano estratte da tragedie greche o più propriamente da drammi di Eduardo. Questa è la pagina più autentica, perché in essa un fascista esprime – naturalmente - il suo sentire fascista, al contempo magnanimo, aperto al dialogo, anche al perdono ma mai perdonista, l’animo di un forte che non abbisogna riconoscimenti di sorta.

Telese invece non poteva non umanizzare, non normalizzare, vittime e familiari, pur sottolineandone la sofferta grandezza, pur restando attonito e ammutolito. Lì si è però fermato perché non poteva andare oltre. Non poteva perché per giungere a certi cieli, l’inferno iniziatico bisogna averlo attraversato non lo si può immaginare né farselo raccontare.

Telese forse non sa, allora, che il capolavoro della sua opera sta tutto nelle parole di Benito Bollati, di colui che quella tempra, quella natura, quel modo di essere, definito in modo a mio avviso poco brillante e poco calzante “cuori neri”, esprime con naturalezza, con tranquillità, quasi si trattasse di una seconda pelle.

Ecco perché, per tutti gli altri protagonisti che, scomparsi, non hanno potuto ovviamente parlare, il libro un po’ stona; non si addice loro, non è infatti né storia né epica, ma romanzo storiografico dallo spirito borghese. Tribolato, sofferto, ma sempre e comunque borghese.

E di piacere ai borghesi perché ci confondano con uno di loro, di abbassare gli eroi per renderli più vicini a chi non ha scalato alcuna vetta né si appresta a iniziare una marcia, francamente non solo non me ne frega niente ma mi dà anche un po’ fastidio. Né credo che sia utile o produttivo. In ogni caso non è giusto né armonioso. Valga quel che vale, conti quel che conta, io Cuori Neri lo boccio.