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È falso sostenere che i giovani delle periferie siano assistiti, protetti, coccolati, viziati dalle istituzioni? Non risponde al vero che una cappa protettiva confezionata dalla chiesa, dai giornalisti, dagli insegnanti, da tutti gli utopisti dell’umanitarismo, li protegge come la larga gonna di una mamma mediterranea? Qualcuno può negare che ogniqualvolta scoppi una lite fra un bianco e un non bianco il primo è comunque tacciato di razzismo? Non sono costantemente concesse attenuanti, anche nella repressione dei delitti, ai non bianchi, specie se sono banlieusards?

E malgrado tutti questi privilegi, che pur ne fanno dei tiranni fra gli emarginati, quei giovanotti rimangano o no in una situazione oggettiva di emarginazione?

Sono domande retoriche, ma le ho poste espressamente perché chi non tenga conto di tutto ciò non può farsi un’idea precisa del fenomeno-banlieue e quindi non può prendere posizione in proposito se non in modo sommario e irrealistico.

 

In autunno non è accaduto nulla

 

Fra ottobre e novembre, come tutti ben sappiamo, si sono avute alcune notti di fuoco nelle periferie transalpine.

Mentre a chi non la conosce la Francia dava l’impressione di star sul punto di esplodere, da noi in molti prendevano partito. Chi a favore dell’ordine contro i facinorosi; chi da questa o quella parte di una presunta “guerra razziale”; chi idealmente a fianco dei rivoltosi visti come una sorta di nuovo proletariato urbano dalle potenzialità rivoluzionarie.

Tutte quelle interpretazioni erano falsate perché fondate sulla non conoscenza del fenomeno. Che tali interpretazioni, espresse anche con fanatismo, ci siano state è però sintomatico; così come lo sono tutte le cristallizzazioni astratte che le aree emarginate continuano a confezionare per darsi l’impressione di essere partecipi – sia pure in veste di tifosi – a una realtà dalla quale sono sempre e comunque distanti.

Personalmente ho preso posizione subito su noreporter con l’articolo “Chat e Souris” . Ho optato per la non/posizione perché, sostenevo, non stesse accadendo nulla se non una serie di manipolazioni disoneste.

 

Gatti e topi

 

Ai primi di novembre facevo notare che le violenze nelle banlieues sono all’ordine del giorno e che la stampa francese ha la consegna tassativa di non propagandarle. Se aveva ricevuto improvvisamente l’input di accendere i riflettori, questo era di certo per stimolare l’imitazione, per creare un effetto macchia d’olio. Inoltre, se il ricercato effetto macchia d’olio poteva allargarsi indisturbato ciò accadeva perché i prefetti non avevano messo in esecuzione le misure restrittive decise dal governo. Per un attimo sembrò che ciò accadesse proprio per mettere in crisi il governo, poi fu chiaro che era stata seguita la medesima tecnica del 1978 contro Autonomia Operaia in Italia: far crescere il fenomeno, farlo lievitare per poi colpirlo massicciamente in una botta sola. Ovvero, si è voluto far paura ai benpensanti per ottenere poi il loro sostegno incondizionato non appena garantito, con sollievo, il recupero della tranquillità. Questo è stato il piano messo in atto dal gatto. In quanto ai topi, dopo aver scorazzato e rosicato formaggio, incendiando qualche migliaio di macchine parcheggiate tanto per divertimento, si sono ritrovati di colpo chiusi in trappola.

 

Una montagna di denaro

 

Cosa aveva animato quel giochino di società? Innanzitutto un doppio conflitto intestino al potere francese. Doppio nel senso che vi s’intersecano le ambizioni personali, in vista delle presidenziali del 2007 e le mire americane di sconvolgimento dei retaggi gollisti. Sarkozy è il paladino atlantico mentre Villepin dovrebbe garantire la continuità del compromesso chiracchiano. Il primo, ministro degli interni, contro il secondo, primo ministro, sono ai ferri corti. Durante la prima fase delle fiction metropolitana si ebbe l’impressione che la trappola fosse scattata su Sarkozy. Invece gli esiti finali inducono a credere che proprio lo Yes Man degli americani sia stato il regista dell’intera operazione. Del resto fu proprio lui a provocare ostentatamente la rivolta con una passeggiata nelle cités che sembra ricalcata sulla visita di Sharon alla spianata delle moschee.

Se le presidenziali hanno animato i “gatti” non sono state però il loro unico movente. I soldi, una montagna di soldi, hanno avuto un ruolo non irrilevante.

Parlo di una “economia di guerra” in miniatura (oltre diecimila auto bruciate da rimpiazzare con la produzione di un’industria altrimenti stagnante, cinquemila imputati da sostenere in tribunale con tanto di parcelle ecc). Soprattutto però il detonatore della fiction urbana è da ricercarsi nel motore della democrazia tutta: le “tangenti” autorizzate.

La società francese “si articola sul territorio” (si dice così…) tramite una pletora di associazioni per l’integrazione degli emarginati e degli immigrati. Quelle associazioni erano giunte all’esaurimento dei fondi loro destinati. Grazie alla rivolta dei “topi” hanno invece ottenuto l’iniezione tempestiva di oltre duecento milioni di euro, fra fondi nazionali e fondi comunitari.

Insomma: la kermesse autunnale è stata un’operazione mafiosa.

 

Il ruolo delle associazioni, delle onlus, delle ong

 

Una breve dissertazione è d’uopo. Le associazioni private, sovvenzionate col denaro pubblico, che fanno da scheletratura nelle periferie francesi sostituendovi di fatto lo Stato, rappresentano il futuro del sistema. Il quale, come faceva notare Zinoviev, gode del sostegno strutturale di alcune decine di milioni di funzionari acefali. Si tratta di un sistema imperniato sulle multinazionali, le banche e le finanziarie che si articola operativamente con le onlus e le ong.

È importante comprenderlo per cogliere la realtà effettiva nell’era del dopo-stato: quindi per evitare di cadere nella rete delle organizzazioni più o meno umanitarie che sembrano operare per il bene (o per il meno peggio) allorché sono, invece, proprio la salvaguardia di ogni iniquità, e infine – ma questo sarebbe forse chiedere troppo – per coniugare un nuovo genere d’intervento politico e sociale.

 

Solo un’operazione mafiosa?

 

Possiamo ridurre tutta la gazzarra autunnale ad un’operazione mafiosa? Non pretendo che mi si creda, ma a mio avviso si tratta proprio di questo. Certo, perché si sia alimentato il fuoco, doveva pur essere acceso sotto le braci, ché altrimenti non avrebbe preso quest’ampiezza.

Ragion per cui possiamo anche evitare di liquidare l’evento come il frutto di una cinica provocazione e cogliere l’occasione per farci un’idea di quello che si nasconde dietro di esso. A tale scopo non ci resta che analizzare il fenomeno, nella sua complessità e nelle sue varie componenti.

 

Perché i banlieusards non possono essere rivoluzionari

 

Alcuni hanno attribuito ai rivoltosi della banlieue una potenzialità che non hanno. Non si tratta di proletari urbani, semmai di sottoproletari assistiti, e c’è una bella differenza! I banlieusards sono “clientes” per chiunque ne voglia approfittare demagogicamente, così come rappresentano un terreno molto fertile per la delinquenza medio-piccola. Non hanno alcuna “coscienza di classe” né alcun genere di rivendicazione concreta da esporre. Colà domina la legge della banda urbana, o quella del branco. Ma nessuno s’inganni: non si tratta della barbarie come la intendiamo noi, non c’è nessuno spirito Fight Club.

Ho avuto la ventura di vivere, pressoché unico bianco e unico non-francese, per oltre due anni in uno dei bastioni dell’immigrazione e so come quelle bande (le bande, non gli individui) funzionano. Sono aggressive con i deboli e rispettose dei forti. Vige una sorta di contratto non scritto con la polizia con tanto di limiti da non valicare. Al di sotto dei quali limiti commerciano tranquillamente in droga in mezzo alla strada. Tra etnie rivali si contendono il controllo commerciale delle vie. Si ammazzano regolarmente (dodici anni fa nel mio quartiere c’era un omicidio di un commerciante ogni settimana) e le autorità lasciano fare purché i regolamenti dei conti avvengano in sordina, silenziosamente.

I più forti stanno nelle bande criminali e rispondono alle mafie; i meno forti vivacchiano disoccupati - con tanto di aiuti economici mensili - nelle bande giovanili delinquenziali (o comunque vi transitano in attesa di far strada). Queste bande giovanili terrorizzano i disperati. È il motivo per il quale più di un vagabondo se ne sta all’addiaccio rischiando di morire di freddo, e spesso morendo congelato, per evitare di venire quotidianamente taglieggiato e malmenato nei ricoveri pubblici in cui impazzano i giovinastri.

 

L’Islam c’entra come i cavoli a merenda

 

In un certo senso è un fenomeno di americanizzazione della Francia quello al quale stiamo assistendo. Alcuni vi leggono un’offensiva islamica e, magari, ipotizzano che le banlieues si siano rivoltate per combattere la loro Jihad. Nulla vi è di più falso. Dell’integralismo islamico i figli sradicati di figli sradicati d’immigrati prendono a prestito solo il presunto odio per l’occidente bianco. Non è estranea a questo filo-islamismo tardivo e superficiale, la disperata ricerca di ancoraggio identitario in cui vaga chi identità è condannato a non avere al di fuori di quella del branco. Le comunità islamiche invece non sono affatto anti-francesi. Addirittura le moschee più radicali sono diametralmente opposte alla cultura dei rivoltosi di periferia. Alle presidenziali del 2002 invitarono a votare per Le Pen.

 

Di chi è la colpa?

 

Le banlieues sono un inferno: un inferno protetto e assistito, ma pur sempre un inferno.

Chi è colpevole di quanto accade? È l’effetto di una troppo frettolosa decolonizzazione? L’immigrazione incontrollata è uno dei dazi al quale deve sottostare l’occidente in cambio della feudalizzazione finanziaria del Terzo Mondo? Probabilmente c’è un po’ di tutto questo alla radice di un disastro socio/esistenziale che oramai ha l’estensione e la morfologia di una metastasi. Né l’integrazione si è mai svolta in modo sano e logico. La Francia, dopo il rovescio algerino, ha rifiutato di accogliere i suoi difensori arabi, gli Harkis. E quelli tra loro che sono riusciti a raggiungere l’Esagono sono stati trattati come pezzenti e chiusi in un angolino provocando così il disprezzo e la disistima dei loro figli. Poi si è passati da un deliro all’altro e con le utopie umanitariste si è costruito un paradiso infernale nel quale si è andata costruendo la miscela esplosiva (o forse più propriamente implosiva) delle cités.

Fatto sta che colpevoli sono più o meno tutti e che bisognerebbe rivedere radicalmente l’intero approccio al problema.

 

Perché non c’è alcuna reazione razziale

 

I banlieusards non sono rivoluzionari neanche potenzialmente. Dall’altra parte (se un’altra parte c’è) non è realistico immaginare una reazione, men che meno razziale. Ci si dimentica che l’immigrazione extraeuropea in Francia prosegue da sei decenni e che, in ogni caso, quella massiccia, sovvenzionata e istituzionalizzata ha oltre trent’anni. I francesi non sono anglosassoni. Questi ultimi sono ipocriti e fingono di accettare ogni cosa ma restano profondamente fobici di ogni diversità. I francesi sono gallo/mediterranei: si sfogano a parole, ma di fatto non sono xenofobi. I matrimoni misti in Francia sono innumerevoli. Non esiste alcun francese di trent’anni che non sia cresciuto sin da piccolo con (tanti) amici di (molte) altre etnie.

Credere nella reazione razziale è altrettanto assurdo che sperare nella rivoluzione dalle periferie.

La denatalità dapprima, l’eccesso di benessere quindi, hanno svuotato la Francia delle sue classi produttrici (le sole ad essere rivoluzionarie e/o reazionarie). Queste si sono internazionalizzate negli anni Settanta e Ottanta per poi declinare a causa degli sviluppi dell’economia “globale”.

Non esiste alcun soggetto sociale che sia rivoluzionario o reazionario in Francia. E supposto che esistesse non sarebbe identitario o bianco.

 

Nessun’aspettativa

 

Alla luce di questa radiografia, posto che sia rispondente al reale e che non trascuri qualcosa di essenziale, non si nota alcun’aspettativa che ci possa venire dalla Francia o da altri paesi ex-coloniali quali il Belgio e l’Olanda. O da nazioni che subiscono il medesimo fenomeno disintegrativo come la Spagna e la Germania.

Né possiamo illuderci che l’Italia, che si trova molto in ritardo su quella china, non venga a sua volta invasa da questo fenomeno per vasi comunicanti.

 

In teoria si potrebbe intervenire

 

Non si può far nulla per frenare, calmierare, rettificare questo fenomeno? In teoria sì. Basterebbe iniziare a tessere una serie di rapporti bilaterali con i paesi da cui partono le invasioni per costituire una serie di collaborazioni economiche, finanziarie, energetiche e politiche. Ma è chiaro che questo è precisamente ciò che non solo gli americani ma il capitalismo multinazionale tutto non vuole che accada. Se avvenisse si potrebbe quindi intervenire drasticamente con la riduzione degli incentivi assistenzialistici e introducendo una serie di criteri selettivi. Fra i quali non sarebbe peregrino immaginare una “conferma della cittadinanza” che andrebbe estesa a tutti i cittadini, ivi compresi i bianchi da più generazioni, inserendo la religione del Dovere al posto di quella del Diritto.

Perché ciò possa verificarsi sono però necessarie, dapprima, una serie di trasformazioni alla radice.

In assenza delle quali nulla ha un senso, nemmeno le sortite demagogiche delle destre sulle misure restrittive di polizia. Come quella secondo cui in caso di delitto un cittadino francese ex extracomunitario possa essere espulso nel paese di origine. Non si sa perché quel paese dovrebbe accettarlo. E poi che si fa del figlio di un marocchino e di una giavanese? E che del figlio francese di un francese asiatico sposatosi con una francese africana entrambi figli di un francese bianco, uno dei quali di origine polacca? La situazione, come vedete, è intricatissima.

 

Una visione imperiale

 

Esiste, ovviamente, una diversa soluzione ideologica per ridare fiato alla Francia, e non solo alla Francia. Si tratta del recupero di un’ideologia imperiale. Della quale molto ci sarebbe da disquisire; e non sarebbe inopportuno farlo: ma con parecchio rigore e abbondante prudenza.

 

Non nascondiamoci quel che è disperato

 

In ogni caso, allo stadio attuale, non c’è alcuna soluzione concreta possibile. Tant’è che, coscienti o meno, anche i più intransigenti paladini della Francia che fu, i più gelosi del patrimonio etnico e memoriale, si sono scoperti identitaires ovvero si autoghetizzano all’americana, illudendosi di difendere in cerchie chiuse un’identità minacciata anche nelle sue vestigia fisiche.

So che deluderò parecchi, perché si vuole sempre chiudere qualunque analisi con una speranza, con un’idea-forza, con un’ipotesi fideistica.

Sic stantibus rebus io non ne ho. E, una volta ancora, preferisco dare un’immagine cruda e impietosa che non imbellettarla di soluzioni provvidenziali. Guardare in faccia la disperazione sarebbe già non poco per procedere verso la strada della virilità stoica, base irrinunciabile di qualunque possibile rettifica. O anche di una degna fine.