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Sicché la logica avrebbe voluto che Carlo sbarcasse, non trovasse nessuno, si seccasse molto di questa prova di scarsa considerazione, attribuisse quindi a Walter una qualche ostilità nei suoi confronti e s’indignasse infine per la sfrontatezza con la quale quest’ultimo si sarebbe ostinato a pretendere di non aver ricevuto non uno ma ben tre telegrammi… Il che, ovviamente, sembrerebbe impossibile a chiunque, ma, si sa, la verità è sovente inverosimile.

Invece le cose andarono altrimenti. Walter ed io facemmo un salto a Catanzaro al processo di Giorgio Freda il quale ci esortò ad incontrare Carlo. Non rammento come, ma era al corrente del giorno e dell’ora dello sbarco, che era previsto una trentina d’ore dopo il nostro incontro calabrese.

Walter però lavorava ed era troppo tardi per prendere congedo. Sicché convinsi Fiorella a farsi prestare la macchina dal padre per andare a fare una gita al mare; mi venne a cercare alle cinque del mattino e giungemmo a Civitavecchia prima delle sette, ora in cui il traghetto sul quale viaggiava Carlo doveva attraccare. Qui superammo l’ultimo ostacolo (due navi in arrivo in contemporanea con attracchi diversi non aiutano a riconoscere qualcuno che non si è mai visto..) ed evitammo una lacerazione probabilmente insanabile.

 

Un visionario pazzo

 

Fu così che conobbi Carlo; o meglio che lo incontrai perché aveva poco tempo a disposizione prima di prendere il treno per Firenze. Inoltre, vai a capire il motivo, fummo entrambi abbastanza formali.

Su Carlo ero un po’ prevenuto. Prima d’intraprendere l’esperienza Ar aveva scritto su Quex. Se non erro aveva proprio esordito con un articolo nel quale prevedeva l’implosione dell’impero sovietico. La cosa mi fece alquanto ridere e ritenni Terracciano un visionario pazzo. Era una specie di legge del contrappasso al contrario perché sono certo che lo stesso sia avvenuto nei miei confronti per tutte le mie successive predizioni. In tutti i casi, nel suo e nel mio, dovevamo scoprire che se è vero che la storia ti dà ragione è pur vero che non se ne ricorda nessuno, nemmeno quelli che ti hanno deriso.

La previsione apparentemente incredibile di Carlo si verificò pienamente, anche se con sei o sette anni di ritardo rispetto alle sue stime, ma non mi sembra che nessuno – a parte il sottoscritto – se ne sia ricordato. Così come quasi nessuno si è ricordato delle mie previsioni sulla caduta del Muro di Berlino, su Tangentopoli e sul Msi al governo. Ma, in fondo, chissenefrega?

 

Le scarpe di Terracciano

 

Il successivo incontro con Carlo, molto più affettuoso, avvenne a Parigi durante il primo inverno di latitanza. Di quei giorni conservo qualche flash. Come le scarpe da ginnastica che regalò a Walter e che furono ribattezzate dalla comunità dei profughi “le scarpe di Terracciano” e che divennero il titolo di una vera e propria cantilena. Ricordo, come fosse ora, quando lo accompagnammo a prendere il pullman per Firenze che partiva da piazza Stalingrado. Un Terracciano in inverno a piazza Stalingrado è un quadro d’autore…

Poi lessi sui giornali, mentre ero in Italia in latitanza operativa, nel 1982, che era stato arrestato per Quex e, se non erro, per Adel, una confraternita che, dicevano i magistrati, avrebbe costituito Freda.

 

La lacerazione

 

Trascorsero un paio d’anni e Carlo, uscito di prigionia, pensò bene come prima cosa, tanto per farsi dimenticare dagli inquirenti, di contribuire ad animare Orion sul quale poteva finalmente esaltare e propagandare il nazionalcomunismo, lui che nazionalbolscevico lo era da sempre. Io no, io non lo sono mai stato. Poiché non credo in quasi nessuna delle etichette ma soltanto in équipe che funzionano - e quella sembrava poter funzionare - pensai comunque di collaborare sia pur da lontano ad Orion e infatti iniziai, tramite Roberto Salvarani che vi scriveva egli pure, con l’inviare un paio di pezzi sotto pseudonimo. Credo che neppure Maurizio abbia mai saputo che erano miei. Solo che intervenne subito l’equivoco-Ansaldi. Io, tramite un portavoce, protestai; Carlo, ovviamente s’inalberò. Finì che ci mandammo reciprocamente ma elegantemente a quel paese. E c’ignorammo per anni. Carlo, Maurizio, Alessandra ed altri si misero a tessere relazioni nazionalcomunistiche ed eurasiatiche che ai miei occhi di allora e di oggi avevano il pregio del romanticismo e non quello dello scientismo e del realismo che pretendevano d’incarnare. In ogni caso sono certo che furono esperienze ricche e soprattutto belle. E divertenti, visto che ottennero il riconoscimento ufficiale del Partito Comunista Sovietico… Del che non c’è da stupirsi più di tanto: arriviamo puntualissimi all’appuntamento con qualunque disfatta.

Noi restammo comunque estranei, anche perché i corrispondenti francesi di Orion non erano assolutamente potabili, il che non facilitava la comprensione.

Eppure quando Walter morì l’unico in Italia che sentì l’imperativo di dedicargli un bellissimo omaggio fu proprio Carlo. E il vero dramma in tutto ciò sta nel fatto che loro due non si siano potuti riabbracciare.

 

Contro il mondialismo moderno

 

Tornai in Italia nel 2000; diciannove anni dopo l’ultimo incontro con Carlo. E ancora una volta andavamo in direzioni diverse. Io proponevo un pragmatismo realista, tutt’altro che esaltante ma puramente costruttivo, ne “Le api e i fiori” e lui un’alternativa forte a tutto e a tutti, una sintesi di Evola e di geopolitica: “Rivolta contro il mondialismo moderno”.

Per Carlo la mia scelta era minimalista ed incomprensibile come mi disse a più riprese fin dal primissimo incontro che avemmo quasi subito a Firenze dove mi ero recato con Salvarani. Ma non avevo voglia di spiegargliela perché avrei dovuto mettermi a smontare il suo costrutto ideale e non mi andava. Negli anni sono arrivato a molte conclusioni, tra queste al fatto che sovente se gli uomini cercano di aderire a determinate forme lo fanno per una ricerca di armonia interiore. È per questo che in Francia, ad esempio, ho sempre detto a Philippe Baillet (uno dei più lucidi intelletti degli anni Settanta nonché grande traduttore dall’italiano) che per me è un giacobino ed è solo per questa ragione che è letteralmente assetato di Tradizione e mistica. Credo che Carlo che è un romantico e un idealista inseguisse per la medesima necessità di equilibrio degli schemi razionali ad ampio respiro.

Tra le conclusioni che ho maturato c’è poi quella che le opere degli uomini sono dettate da ispirazioni, spesso illusorie, da progetti che vengono delineati anche con veemenza e fede, ma alla fine i risultati dipendono solo dagli uomini e dai metodi che sono i soli elementi concreti che sopravvivono alle illusioni e ai castelli in aria.

 

È per questo che spingo contemporaneamente in due direzioni: una, che potremmo definire interiore, di forte radicalità ideale ed esistenziale ed un’altra, definiamola politica, di lettura della realtà nuda e di confronto metodologico e strutturale con essa.

Non potevo affrontare il tema con Carlo; primo perché non avevo la minima intenzione di freddare i suoi entusiasmi; secondo perché o freddavo i suoi entusiasmi o mi mettevo sulla difensiva e neanche questo mi andava.

Sicché stabilimmo una tacita frontiera e i nostri rapporti rimasero improntati ad un minimo di reciproca soggezione.

 

Ottimista romantico

 

Le nostre differenze erano ideologiche? Direi di no, su questo piano ho trovato di rado affinità così frequenti e piene come con Carlo. Erano tipologiche? Certamente no. Senza volermi esaltare più di tanto, penso di far parte di una precisa genia che sicuramente Carlo incarna come pochi.

Erano di simpatie internazionali? Neanche qui si trova un vero e proprio spartiacque. È vero che Carlo aveva la massima fiducia negli iraniani dei quali invece ho la tendenza a diffidare, ma per la Palestina, l’Iraq, la Russia, l’Europa, eravamo sostanzialmente d’accordo, così come lo eravamo sull’individuazione dei nemici, sin dagli anni Settanta: gli Usa, Israele, la City.

Di prospettive personali? No. Abbiamo sempre e solo dato senza prendere mai e se mai avessimo ricevuto qualcosa in ritorno ci saremmo sentiti – e ancor oggi mi sentirei – oggetto di una truffa.

La vera differenza a mio avviso sta nel fatto che Carlo, alla fin fine, era ottimista sugli uomini mentre io, contrariamente a quanto crede Maurizio, sono assolutamente pessimista. Di un pessimismo cosmico, ma metafisicamente entusiasta, nonché cocciuto come un capricorno. E da pessimista preferisco sbatter loro in faccia la nudità della realtà e metterli alla prova senza stampelle. Conto solo su di me, ma nello stesso tempo permetto ad altri di cimentarsi, di formarsi e di organizzarsi. Sono certo che così – disillusi dall’inizio – nove se ne perderanno ma uno si rafforzerà; forse è poco ma è qualcosa.

Carlo, da ottimista, si aspettava dagli altri quello che sovente non trovava. Per questo esaltava tutti i lontani guerriglieri di ogni causa e per questo a casa, deluso da quasi tutti, finiva col litigare violentemente con chi gli era vicino.

Carlo da ottimista e da romantico cercava una causa santa. Ma da metafisico virile, da tradizionalista autentico, non si aspettava che vincesse. Solo voleva che fosse combattuta.

 

Ci siamo sempre parlati con il silenzio

 

“Bisognava avere un piede nella fossa per poter rivedere certi amici!” Con queste parole ironiche e taglienti Carlo accolse il fatto che, nell’ultimo suo anno, quello che va dall’agosto del 2004, quando gli fu diagnosticato il tumore al pancreas, al settembre 2005, quando la metastasi se lo portò via, sia Salvarani che io iniziammo a frequentarlo con assiduità.

Purtroppo la vita scorre così: t’impegni su una cosa, poi su due, su tre, quattro, sei, otto. Così passi il tempo a curare tutte le imprese alle quali ti sei dedicato (e che se non stai attento ti vampirizzano) e il resto lo accantoni. Non vivendo nella stessa città, non frequentando gli stessi ambienti, non inseguendo le medesime illusioni, come avremmo trovato l’occasione d’incontrarci?

Dovevamo aspettare il male per conoscerci davvero. Anche se Carlo non nascondeva sorprese. Tranne, per quanto mi riguarda, la grande capacità di novelliere che gli scoprii leggendo la sua raccolta “La ruota del destino”. Non si è romantici per niente…

Gli scoprii anche una forza interiore senza pari. Ma di questa sua forza sinceramente non dubitai mai un attimo. Forte nel dolore, forte nell’accettazione della morte, forte nella preparazione del trapasso, nella preparazione del dopo. Forte quanto dignitoso. Il dolore lo celava, fu sempre nobile, anche quando se ne stava raggomitolato in coma, un briciolo di ossa rattrappite, quando lo lasciai per l’ultima volta ventotto ore prima che se ne andasse per sempre.

Nobile come l’ultima volta che ce ne andammo in giro da soli nella sua macchina (e che a ben riflettere fu anche la prima volta) e mi condusse senza spiegarmi perché al cimitero tedesco sugli Appennini. Capii che voleva che colà fossero cosparse le sue ceneri. Fui commosso e onorato dal privilegio e dalla familiarità che mi aveva concesso. Con Carlo, d’altronde, ci siamo sempre parlati con il silenzio, le parole avrebbero stonato.

 

Sembrava un Samurai

 

L’ultima volta che lo vidi cosciente non stava propriamente benissimo. Benché si stancasse subito, tanto da assentarsi ogni tanto per andare a riposare nell’altra stanza, non cessava d’ironizzare e di scherzare.

Lo sentii per telefono alla vigilia della sua entrata in coma; mi accorsi che stava davvero male.

Quando andai a trovarlo l’ultima volta, proprio un giorno prima che spirasse, trovai la casa letteralmente occupata da camerati davvero amici che lo vegliavano ininterrottamente. Il cellulare di Francesco non smetteva mai di suonare. Scherzando quest’ultimo mi disse “per essere uno che ha litigato praticamente con tutto il mondo non c’è male!” Con quel caratteraccio da maledetto toscano, (anche se nato a Bologna più toscano di così è impossibile) Carlo aveva mandato a quel paese davvero tutti. Ma chi si era offeso? Chi se l’era presa? Chiunque si rendeva conto che la sua collera era causata dalla generosità. Tranne qualche imbecille e qualche verme tutti lo amavano, anche quelli che aveva apostrofato con la massima veemenza.

Non posso dire che lo vidi morire, ma di certo lo osservai. Fui colpito – ma non sorpreso – dalla sobrietà, dalla dignità, dalla forza di carattere, dalla lucidità. Sembrava un Samurai o un SS.

Quando Francesco mi comunicò che Carlo se n’era andato non fui sorpreso; razionalmente ne ero sollevato ma provai un groppo in gola.

Per consolarmi pensai – con quelle pretese simbolico/metafisiche con le quali maschero il mio scetticismo generale – che era riuscito a dare dei forti segnali anche con la data di morte.

Carlo, non c’è dubbio, era nazista ed è riuscito a morire a cinquantasei anni, alla stessa età del Führer; era polemico sopra ogni cosa ed è riuscito a perire nell’anniversario della dichiarazione di guerra delle plutocrazie alla Germania; era nazionalbolscevico ed eurasiatico ed ha scelto per andarsene una data in cui, sessantasei anni prima, la Germania e la Russia erano alleate.

Se non è un modo di far dispetto anche alla morte questo…