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Questa legge impietosa s’applica a tutta la verità storica. Si pronunciano i mediocri, le comparse, quasi mai gli attori. E coloro che, in qualche maniera, si ritengono continuatori, eredi o sostenitori di un’esperienza storica, si fissano più facilmente sull’esteriorità che non sulla consistenza.

Sicché le figure più sostanziose – e ovviamente più schive – vengono dimenticate o comunque poco celebrate; è accaduto a Pavolini, Mezzasoma, Bombacci, sicuramente meno gettonati, nel dopoguerra, di un Borghese o di un Maresciallo Graziani che furono elementi prettamente “militari” e dunque meno imbarazzanti in quanto non fornivano modelli politici. È avvenuto anche in seguito, durante il neofascismo, che ha mantenuto sulla cresta dell’onda nomi di illustri signor nessuno togliendo invece spazio a uomini davvero validi come Clemente Graziani.

 

Un ordine di tutti: dimenticare la Socializzazione

 

Questa impietosa legge umana è sicuramente ingiusta; ma non è soltanto iniqua, è fuorviante perché contribuisce a falsare il ricordo delle esperienze storiche e, dunque, a stravolgerle.

Ed è quanto è accaduto con la Socializzazione e con l’intera esperienza storica della RSI.

La sinistra, ricompattatasi dietro i carri angloamericani nell’operazione di epurazione reazionaria e di restaurazione capitalista del 1945, non poteva lasciare alla storia l’esempio di una rivoluzione in atto alla quale non soltanto essa, in quanto strutture e centri di potere, era stata estranea ma contro la quale si era eretta a guardia bianca. Il neofascismo reazionario e subalterno che, in piena guerra fredda, aveva finito col costituire quella ruota di scorta della Dc che oggi in molti, non si sa bene perché, idealizzano e rimpiangono, era in imbarazzo profondo per quell’eredità che metteva chiaramente a nudo le contraddizioni in termini del Msi.

Né fu d’aiuto ad una rivendicazione storica la critica evoliana, così metafisica ed aristocratica, che liquidava in modo sin troppo disinvolto le leggi sociali della Repubblica. Una critica eccessivamente filosofica che fu mutuata da buona parte delle avanguardie dell’estrema destra più a giustificazione di un’estromissione dal sociale (vista come il frutto di uno sdegno aristocratico anziché come del fallimento politico che l’aveva in realtà provocata) che non per una vera e propria maturità ideologica. A chiudere il cerchio ci si mise il velleitarismo delle sinistre neofasciste, spesso attanagliate da un complesso d’inferiorità verso il fronte rosso, che si misero a teorizzare, erroneamente, la Socializzazione e lo spirito della RSI come una rottura col Regime, una smentita del Ventennio. Il che non era, ma il pretendere che lo fosse non fece che aumentare la confusione e la frammentarietà. A discapito della verità storica e delle soluzioni politiche future.

 

Mussolini: un rivoluzionario oggettivo

 

La differenza profonda fra Regime e Repubblica sta nel fatto che, sin dal settembre del 1943, Mussolini è convinto di andare incontro alla sconfitta bellica e alla fine del suo percorso politico e vuole, allora, trasformare la guerra in esperienza rivoluzionaria in modo da lasciare in eredità all’Italia che verrà le mine sociali. Perché Mussolini come altri rivoluzionari della sua epoca (Corridoni, Bombacci, Costa, Labriola) aveva a cuore i risultati oggettivi delle azioni molto più del profitto che da esse l’individuo, il partito o la fazione riescano a trarre.

Ed è sulla base di questa mentalità che Mussolini durante i diciannove mesi repubblicani si dedica, più che alla guerra alle realizzazioni sociali.

L’accelerazione del processo rivoluzionario di Mussolini in Repubblica dipende da due fattori: dalla ristrettezza dei tempi a disposizione (e dunque dalla riduzione obbligata della gradualità progettuale) e dall’affievolimento della resistenza interna che fino al 1943 corona, industriali e chiesa avevano esercitato senza soluzioni di continuità rappresentando in qualche maniera lo “spirito di gravità” di nietzscheana memoria.

Chiunque legga l’operato del Duce dal 1922 al 1943 non può non rendersi conto che Mussolini aveva perseguito un ininterrotto progetto sociale e rivoluzionario, compiuto dall’alto, d’autorità. Sua avversaria fu sempre la destra (o il centro che è la stessa cosa) mentre tutta la politica dettata dal Duce era figlia della cultura del “Mussolini rivoluzionario”, ovvero del capo socialista degli inizi del secolo.

In Repubblica, il popolano di Predappio non fa che portare a compimento, con un’evidente accelerazione, il processo avviato con coerenza sin dal novembre 1922. Questo è un dato di fatto di cui si dovrà iniziare a tener conto se non si vuol continuare ad errare in balia di preconcetti astratti e non rispondenti a verità storica.

 

Il compimento estremo d’una rivoluzione sociale

 

La Socializzazione rappresenta indiscutibilmente il compimento estremo della rivoluzione sociale mussoliniana. Economicamente essa rappresenta il punto di rottura con il capitalismo.

Non è assolutamente vero che durante il Ventennio l’economia fascista sia stata capitalista: tutt’altro. Ogni intervento legislativo attesta la continua aggressione, da parte dello stato nazionale e proletario, allo strapotere privato. Il Corporativismo, all’inverso di quanto ha voluto sostenere la propaganda marxista, ha rappresentato un’esperienza controcorrente rispetto al capitalismo, incentrata sull’organicità sociale. Il capitalismo, ovviamente, esercitò da sempre un’azione di contenimento rispetto alla rivoluzione autoritaria del Duce; sicché, inchiodato in una logica di azione/reazione, il Regime aveva finito col riuscire ad imporre agli industriali un rapporto di armonia tra lavoro e capitale, tra società e individualità. In questa logica di armonia (contrassegnata dal procedere inesorabile dell’azione sociale del Capo) si mantiene il rapporto capitale-lavoro durante il Ventennio.

In Repubblica la presenza della reazione è scarsa e il suo peso specifico ridotto; è così che Mussolini può spingersi oltre. Il capitalista viene riassorbito dal tessuto sociale organico; egli resta, tranne in casi in cui questo ruolo travalichi la sfera politica, proprietario del capitale e dell’impresa. Ma il suo ruolo acquisisce una validità solo se ha funzione sociale; è così che diviene compartecipe e corresponsabile. Non è più al di sopra degli altri, non è più padrone ma co/gestore, corresponsabile.

La spiccata vocazione sociale è evidente. Il che ha un indubbio significato economico ma un’ancor più importante valenza politica.

 

Cooperare per una comunità di destino

 

La proprietà è garantita: ma quella dell’iniziativa, del capitale; cessa di essere proprietà degli uomini. Rompendo la concezione di sudditanza e riaffermando quella di cittadinanza, la Socializzazione chiama a raccolta tutte le parti sociali facendole corresponsabili dell’impresa. Non si tratta solo della distribuzione degli utili (che diverse multinazionali hanno poi scimmiottato in uno spirito diametralmente opposto) ma della partecipazione alle scelte, della creazione della proprietà sociale. La tendenza è quella di edificare uno spirito di équipe, di armonizzare le diverse maestranze, di cooperare per una missione, per una comunità di destino. Una comunità che non è solo quella della fabbrica, così come si verifica ai nostri giorni in certe culture turbocapitaliste americane, coreane, giapponesi, bensì comunità nazionale.

Perché la Socializzazione prevede il riutilizzo delle eccedenze in investimenti produttivi di valore sociale.

Non solo ci troviamo nello spirito e nella lettera dei fasci del 1919 (“dei combattenti e dei produttori”) ma nella logica dell’investimento sociale, che garantisce mattone e lavoro alle generazioni che verranno. L’opposto esatto della filosofia attuale che trasforma gli immobili in beni di speculazione, che aspira l’industria in borsa e taglia posti di lavoro in continuazione.

Politicamente la Socializzazione fa definitivamente pendere l’ago della bilancia dalla parte della comunità rispetto a quella dell’individualismo: è quindi il passaggio dal liberismo al regime sociale.

E contrassegna anche la fuoriuscita dagli schemi egoistici del mondo industrializzato nella riproposizione dello spirito ellenico, romano, ghibellino delle Poleis, della Res Publica, dei Comuni.

 

Oltre il liberismo, la socialdemocrazia e il comunismo

 

Il cittadino è infatti chiamato a partecipare direttamente all’impresa; sia in termini economici che sociali che amministrativi. Bombacci che, da comunista serio, o comunque da socialista rivoluzionario, intravedeva nell’operato di Mussolini la rivoluzione sociale, non si sbagliava di certo. Né avevano torto quegli sparuti trozkisti toscani che a metà degli anni Settanta affermarono, sull’organo del PCd’I : “il solo momento felice del proletariato italiano si è verificato durante la Repubblica Sociale”.

Non è però sufficiente sostenere che Mussolini realizzò la rivoluzione sociale, poi smantellata dalla reazione rossa e a stelle e strisce. Dobbiamo qualificarla questa rivoluzione sociale.

Essa metteva fuori gioco il liberismo, inteso come concezione di proprietà individuale (o familiare) dell’impresa, del lavoro e dei lavoratori.

Neutralizzava la neutralizzazione sociale espressa dalla socialdemocrazia che altro non era se non un liberismo “illuminato”, assistenzialista, che intendeva la figura del lavoratore come inorganica, funzionale e priva di soggettività attiva.

Travolgeva infine la reazione comunista in quanto, esattamente all’inverso delle esperienze sovietiche, non solo non aboliva la proprietà ma la favoriva ovunque. Proprietà privata e proprietà sociale rappresentavano, per il socialismo mussoliniano, elementi imprescindibili di dignità e di libertà.

 

Uno spartiacque di civiltà

 

La portata della Socializzazione – che fu immediatamente abolita dal primo governo consociativo antifascista in cui era interamente e massicciamente presente la sinistra “rivoluzionaria” – è evidente.

Essa segna uno spartiacque non solo legislativo ed ideologico ma addirittura di civiltà.

Basti pensare all’evoluzione che si è in seguito verificata in seno alla globalizzazione (o occidentalizzazione che dir si voglia). I tre angusti soggetti ai quali la Socializzazione aveva fornito una risposta piena, articolata ed efficiente (cioè liberismo, socialdemocrazia e comunismo) si sono infatti saldati tra loro dando vita ad un nuovo modello di ipersfruttamento dell’uomo, dell’ambiente, della terra, della cultura, che s’incentra su tutti i difetti portanti di quella trimurti.

L’egoismo liberista, l’assitenzialismo socialdemocratico, il collettivismo (con tanto di abolizione della proprietà) del comunismo, sono altrettanti assi portanti del nuovo modello economico sociale improntato, tra l’altro, interamente sul cinismo e sull’internazionalismo.

La partecipazione, sociale, culturale, politica oltre che economica, avviene solo dal punto di vista dello spettacolo e del tifo. La cittadinanza è stata abolita, sostituita dalla sudditanza piena.

La Socializzazione rappresentò, all’opposto, la sintesi completa di tutto quanto va in senso contrario all’odierno: in senso sociale, partecipativo, civile, culturale, classico, ghibellino, qualitativo.

Certo, non si tratta solo di lettera ma anche di spirito. Perché aveva ragione Bombacci nell’ammonire le maestranze operaie quando sosteneva che ognuno era chiamato a sormontare l’egoismo, altrimenti gli operai non sarebbero stati migliori dei padroni e la Socializzazione non sarebbe servita a nulla.

A fondamento di essa, affinché valga davvero, dev’essere una mobilitazione costante e gioiosa, la coscienza di appartenere ad un tipo umano nemico dello sfruttamento, dell’usura, della speculazione, dell’accomodamento, dell’approssimazione, dell’interesse meschino. Di essere, cioè, combattenti e produttori. Nella logica, così mussoliniana e pavoliniana della “rivoluzione continua”, ovvero della continua messa in discussione di sé. Un autentico spartiacque di civiltà, insomma.