Se non si ha la percezione di questa centralità in movimento, di questa sintesi dinamica, non si può capire la valenza culturale e politica del fascismo né si può individuarne la straordinaria attualità e le potenzialità di protagonista del futuro.
In difesa di un patrimonio genetico
Senza questa consapevolezza sarebbe difficile capire la doppia guerra civile (contro il fronte rosso in montagna e sul fronte sud contro la reazione in divisa americana) nella quale il fascismo fu coinvolto negli anni quaranta. Risulterebbe ostico comprendere come e perché la reazione e i socialcomunisti abbiano così spesso collaborato per pugnalare il fascismo piuttosto che vedersela tra loro. Nella vittoria fascista infatti tanto la destra storica quanto la sinistra temevano a giusto titolo l’annientamento perché sarebbero state conglobate e superate in qualcosa di più: di più completo, di più nuovo, di più evoluto.
La consapevolezza della centralità dinamica e dell’identità plurale del fascismo è infine d’obbligo per chi voglia cogliere il pensiero e le aspettative delle generazioni che a quel modello ideale si sono rifatte dal dopoguerra ad oggi. Essa consente, soprattutto, d’individuare e comprendere la costante operazione di difesa di un patrimonio genetico operata dalle basi di fronte a delle classi dirigenti neofasciste troppo spesso subalterne ad interessi e gruppi di pressione che di fascista avevano ben poco e che il fascismo andavano ad annacquare nel pentolone della conservazione o, magari, rigettavano a sinistra nel titanico e velleitario disegno di un fronte sociale ed anticlericale insieme al Psi e al Pci.1
Vocazione golpista e vocazione rivoluzionaria
Senza interessarsi troppo alla questione delle scelte, che fu lasciata a sparute minoranze, i giovani attivisti, militanti, ribelli, fedeli al loro dna storico ed antropologico, si gettavano continuamente nella mischia con un solo imperativo: l’azione. L’azione contro tutto e tutti (democristiani, preti, banchieri, comunisti, russi, americani) non lasciava tempo per stabilire le priorità degli schieramenti nemici. E se nei fatti ce ne fu quasi sempre una reale di priorità, non la si dovette tanto ad una scelta quanto a un dato di fatto: in piazza ce la si vedeva sempre con i comunisti sicché furono l’urgenza e la contingenza e non una scelta ideologica a determinare lo schema degli “opposti estremismi”.
La scelta politica nasceva immediatamente dopo lo scontro, probabilmente per giustificarlo, mai prima, e si poneva in questi termini: far leva sulla conservazione popolare per schiacciare i comunisti allora dilaganti (vocazione golpista) oppure contendere ai comunisti il monopolio delle piazze e delle rivolte e trasformarsi in una vera e propria avanguardia popolare (vocazione rivoluzionaria).
Questione di mentalità, non di etichette
Lo spartiacque tra golpe e rivoluzione ha contrassegnato a lungo, anche presso chi mai ne è stato lucidamente consapevole, il neofascismo italiano e tutto quanto ne è poi scaturito.
A scanso di equivoci chiariamo subito che questa dicotomia, contrariamente a quanto un’occhiata frettolosa potrebbe indurre a sostenere, ha ben poco da spartire con le categorie destra/sinistra.
Basti pensare alla corrente evoliana (che si voleva di destra). Se proprio Julius Evola suggeriva nel colpo di stato una via da intraprendere tanto per raccogliere la sfida dei tempi, ma non certo l’unica, ad un primo Rauti sicuramente militarista ne fece seguito un altro che intendeva modificare la società con un’operazione culturale (chiara vocazione rivoluzionaria). Ancor più spiccatamente rivoluzionaria o anarcorivoluzionaria nel senso jüngeriano del termine, la via intrapresa da Clemente Graziani. Il quale, a differenza di Rauti, peraltro, fu consequenziale ed autentico e la sua scelta la visse fino in fondo.
Evoliano era Leucio Miele, indiscusso e indimenticato capo popolo della Lucania.
Straordinariamente rivoluzionario pur nella concezione golpista era Adriano Romualdi, uomo assolutamente scomodo per tutti, prematuramente scomparso in un incidente stradale nell’agosto del’73.
Mentre dalla corrente di “sinistra” si sviluppa tutta la controrivoluzione oligarchica, borghese, atlantista, operata a strappi autoritaristici da Giorgio Almirante.
Nelle trame golpiste e nelle fogne della strategia della tensione ci si perdono anche epigoni della sinistra più accesa, un nome fra tutti: Sergio Calore.
Ma sempre a sinistra si trovano alcuni degli esponenti migliori del neofascismo italiano, come Filippo Anfuso, precursore di una linea che non è peregrino definire rivoluzionaria.
Insomma, essere più a destra o più a sinistra non significa con ciò essere più golpista o più rivoluzionario.
Le sopravvivenze della mentalità golpista
A differenziare tra loro le due scelte è la prospettiva più spesso dettata dall’indole che non dal ragionamento. Così chi ha maggior frenesia e poca propensione ad un impegno costante, cerca immediatamente di capitalizzare i suoi sforzi per provocare mutamenti favorevoli nei rapporti di forza.
Ma non si tratta solo di colpi di stato, quella “golpista” è, in realtà la vocazione delle scorciatoie: si fonda su di un disprezzo (non proprio incomprensibile) della natura umana e sulla convinzione dell’inaffidabilità delle masse. Chi ragiona così – o anche chi è ragionato intimamente così – premette sempre alle azioni in profondità quelle finalizzate ad un’acquisizione rapida e tangibile di potere.
Questa logica, che insieme ad una superficialità, ad un’ignoranza e ad una presunzione sconvolgenti, fu il collante del funesto e grottesco golpismo sessanta/settanta, la si ritrova oggi a fondamento di altre scelte.
Ad esempio chi pensa di scalare quote di potere in AN da gestire con i suoi camerati più vicini per poi, in futuro, avere la possibilità di modificare “dall’alto” la realtà socioculturale, persegue in qualche modo una mentalità golpista.
Ma anche chi concepisce un partito come un apparato che capitalizza voti e fondi provenienti da un elettorato che non viene coinvolto nell’attività quotidiana, mobilitato in azioni significative, resta legato a schemi golpisti; cioè utilitaristici, opportunistici, oligarchici.
Schemi che hanno contrassegnato quasi interamente la vita politica della Fiamma fino ai giorni nostri. Si tratta, quindi, di una vocazione diffusa; che poi ritroviamo qua e là negli altri partiti della destra radicale.
Il golpismo però non paga. I colpi di stato (a meno di particolari casi di vuoti di potere, come nel 1917 in Russia) non riescono se non a coloro che già lo detengono, il potere. Lo stesso dicasi per le “infiltrazioni” politiche. Da oltre tre decenni si sente parlare di gruppi che vogliono “modificare le cose dall’interno” (di un partito, di un sindacato) ma che, ogni giorno che passa, si ritrovano un passo indietro rispetto alla vigilia. La stessa cosa accade a sinistra malgrado anni di scuola leninista: in realtà, come rivelò maliziosamente Andreotti “il potere logora chi non ce l’ha” e mai viceversa. Ragion per cui tutti coloro che pensano di “consolidare innanzitutto” le loro posizioni per “poi” passare alla controffensiva si agitano inutilmente (egoismo di portafoglio a parte) e si avvitano su se stessi perdendo ogni rapporto vivo con la realtà pulsante. Esattamente come coloro che speravano di imporre una rivoluzione dall’alto, in seguito ad un intervento militare sulla società politica.
Valori ed effetti della vocazione rivoluzionaria
La vocazione “rivoluzionaria” è diametralmente opposta: attenta alle novità, rispettosa degli uomini, anche se nemici, essa predilige l’azione nel sociale, nel popolo, tra la gente, non come puro atto di recitazione di sé perché altrimenti si rientrerebbe nel velleitarismo della società dello spettacolo (che è un male oggi particolarmente diffuso nella destra radicale ma anche nella sinistra estrema). Non si può dire che attualmente esista una strategia rivoluzionaria vera e propria, così come non c’è più una strategia golpista, ma che esistano espressioni di una mentalità di stampo rivoluzionario è fuor di discussione.
Le quali recitano più o meno così: impulso a dare una risposta realistica, autonoma e senza mediazioni, alle ingiustizie alle quali si assiste ogni giorno; necessità di dare un’organizzazione complessiva a queste risposte. E si metta bene l’accento su quest’ultima affermazione, perché se manca la spinta all’organizzazione si resta nel campo dell’atto puro, dunque estetico, e non si può più parlare di vocazione politica.
Questa scelta che si può definire “di base”, estranea alle logiche e alle lusinghe del palazzo, assume poi un’ulteriore valenza positiva: facendo fronte a verifiche quotidiane, ed assurgendo ad una vera e propria mistica del dono, essa richiede imperativamente una continua rivoluzione interiore che offre la garanzia di un’alternativa realmente qualitativa. Queste opportunità vengono invece a mancare presso chi agisce, magari anche a contatto con il popolo ma in una logica partitica, che si fonda sulla distribuzione dei favori (la giustizia sociale è divenuta da tempo immemorabile di tipo clientelare). Non serve un’intelligenza superiore per comprendere la differenza di grado di autenticità tra un rapporto basato sulla collaborazione che si realizza in un atto di riconquista e quello fondato invece sull’elemosina del dovuto, che è la prassi fondante del sistema, per la quale i “diritti” vengono concessi a chi li sa richiedere in una sofisticata logica di scambio. L’autenticità pone a sua volta un imperativo morale ed esistenziale che nei casi di “pragmatismo” viene a mancare. E proprio questo imperativo fa in buona parte da antidoto alle corruzioni in cui generalmente s’incorre in politica. E contribuisce, insieme ai riflessi che si sviluppano nell’azione diretta, a fare della minoranza militante un’avanguardia. Va da sé che questa logica di avanguardia e questa vocazione rivoluzionaria sono autenticamente fasciste in quanto ardite, futuriste e mussoliniane. Diffidare delle imitazioni. 2
Strumentali o funzionali ?
Il nodo sta nella mentalità. Nella mentalità, non nell’atteggiamento. Chi ha inteso strumentalmente il rapporto con la politica, con il popolo, con la gente, chi lo ha concepito strumentalmente con la base militante, ha di fatto tradito per anni la sua matrice e i suoi stessi camerati: chi ha avuto una vocazione idealista e aperta, generosa e funzionale (essere strumento è l’opposto di strumentalizzare), ha realmente portato la fiaccola attraverso il buio.
Questa differenziazione, che è ben significativa, non solo non corrisponde agli orientamenti di “destra” e di “sinistra” come abbiamo potuto constatare, ma neppure si definisce dalle scelte esteriori. Negli anni della contestazione giovanile ci fu chi cavalcò la tigre da “golpista” e chi da “rivoluzionario” nelle stesse formazioni e con le stesse parole d’ordine. Non importa stabilire se Tizio o Caio si trovarono a Valle Giulia, nelle occupazioni liceali, a Palmarola o all’Idrocalce ma come e perché. Chi lo fece strumentalmente inquinò l’azione e s’impigliò in una ragnatela che ci ha avviluppati impietosamente per anni. Fu proprio questa brama di strumentalizzazione che permise lo svilupparsi di rivoli della strategia della tensione nella logica che la sinistra ha da sempre stigmatizzato ben guardandosi dal dire che la medesima mentalità attraversò in lungo e in largo pur essa. Caratterizzando, ad esempio, l’infiltrazione della Fgci nel Movimento Studentesco nel 1968 e quella dei partigiani nelle prime Brigate Rosse; Lotta Continua non ebbe certo una mentalità molto diversa e più pulita. Nella strategia della tensione entrarono, poi, come protagonisti, non pochi quadri trozkisti, specie provenienti da Avanguardia Operaia.
I rapporti ambigui e a dir poco presuntuosi con i servizi segreti italiani, israeliani ed altro, non furono monopolio dell’ultradestra ma contrassegnarono la storia dell’insurrezionalismo marxista per quindici anni almeno, per non parlare delle commistioni tra Gap e Cia via Praga.3
L’alter ego
L’intera storia di una generazione che visse al passaggio tra uno stadio di civilizzazione al tramonto e l’avvio del consumismo lobotomizzato senza più varianti o prospettive, si può anche leggere così: una forza ribelle sempre in bilico tra autenticità e tradimento. In questo scontro interno, “gemellare”, tra dimensione eroica e cedimento, ha avuto la meglio la tipologia di Caino, è stato Remo a prevalere: insomma una morale al contempo biblica ed antilatina che la dice lunga sul senso profondo di un’era… Ha vinto la scimmia, l’alter ego, colui che ha paura di volare, lo spirito di gravità. Ossia la quintessenza stessa dell’antifascismo che è negazione di sogno, di avventura, di disinteresse.
Come Mussolini
Soltanto la vita quotidiana, soltanto la prassi consentono di riconoscere e di domare l’alter ego che è tanto ego e tanto poco sé.
Soltanto la militia, una militia che si verifica nel dono, nella rinuncia, nel fortificarsi.
Per rettificare una rotta palesemente alla deriva, rivoluzione e non golpismo, dunque, in nessuna forma.
Sia però chiaro che tra popolo e palazzo il baratro, sicuramente ampio, non è mai totale e ci sono, sempre, dei momenti di verifica. E a quei momenti si deve sempre giungere attrezzati; dal punto giusto e facendo parte dello schieramento giusto, esattamente come Mussolini.
Sicché coloro che hanno scelto l’altra vocazione, ma lo hanno fatto con onestà ovviamente, troveranno un ruolo ad un certo punto della storia, se questa storia avrà mai un senso compiuto.
Ma il loro ruolo, contrariamente a quanto essi hanno pensato o forse ancora immaginano, sarà di supporto all’avanguardia rivelandosi complementare. A patto, ovviamente, che si formi seriamente questa benedetta avanguardia.
Definiamo lo spartiacque
Salvaguardare – sviluppandola - la vocazione rivoluzionaria è la migliore risposta possibile a sei decenni di tradimenti e di cedimenti. È questo un criterio di riconoscimento e di scelta molto più importante delle disquisizioni ideologiche e degli stessi posizionamenti politici con i quali si è soliti fare delle suddivisioni frettolose, superficiali, estetiche e non sempre corrette. Uno spartiacque, questo, di tutto rispetto perché fa da base ad uno ancor più importante, definitivo ed inappellabile: quello che divide chi è autentico da chi recita un personaggio. In altre parole, chi è tragico, dunque antico, eterno, tradizionale e sacro da chi è soltanto farsesco.
Iniziamo allora da uno spietato esame di coscienza perché stanno maturando i tempi delle selezioni vere.
1 Sin dalla nascita del Msi una cospicua corrente prediligeva il dialogo con le “sinistre”, con le quali fare sponda per incrinare il monolite del conformismo clericale. Furono dei dirigenti importanti, come Massi e Pini a intraprendere questa strada (tra l’altro incoraggiata sull’altro versante da Togliatti e Nenni). Persino Almirante fu pragmatico a riguardo, più ancora di Filippo Anfuso che, tra tutti, era insieme uno tra i più idealisti ed il più realista.
Questa linea produsse anche le migliori avanguardie degli anni sessanta (ad esempio “l’Orologio”) e generò relazioni politiche con gli ambienti repubblicani e laici, relazioni che avrebbero dato dei frutti notevoli se, nel frattempo, non si fosse liquefatta la casa madre, la “direzione strategica”, se, insomma, i vari neofascisti giunti a ruoli chiave in quotidiani come “la Repubblica” non ci fossero arrivati come meteoriti isolate.
Per approfondire un minimo: “Fascisti immaginari” di Lanna e Rossi, edizione Vallecchi, 2003 e “Neofascisti” di Rao, edizioni Settimo Sigillo, 1999
2 Le avanguardie rivoluzionarie lo sono, ed è opportuno sottolinearlo, per spirito e comportamento, non per tematiche e slogan. Troppo spesso infatti si pretende di confondere un verboso ed acceso sentenziar delirante, generalmente pervaso da complesso d’inferiorità verso le sinistre, con una scelta rivoluzionaria. Attenzione, però: tutto ciò che è astratto, estetico, ideologizzato, isterico, nevrastenico, non è rivoluzionario bensì masturbatorio ed è tanto più soddisfatto del suo onanismo in quanto – immancabilmente – tende ad emettere scomuniche nei confronti di tutto ciò che si muove: l’esclusione degli altri è infatti l’unico modo in cui questa parodia può procrastinarsi e fingere di non essere irrisoria e del tutto marginale. Superficiale come la crosta di un graffio.
Non confondiamo, dunque, quel che ha vocazione ed etica rivoluzionaria con le varie chiassose ed insignificanti parodie.
3 Non esistono studi approfonditi sul rapporto tra l’estrema sinistra e la strategia della tensione, ragion per cui dobbiamo ricostruirla dalle carte processuali, dalle testimonianze isolate e dalla logica. L’infiltrazione strumentale della Fgci nel Movimento Studentesco è cosa nota a tutti coloro che si siano interessati di politica negli anni della contestazione. Il ruolo di Lotta Continua come minoranza eterodiretta rispetto al Pci ed “entrista” rispetto al potere non è solo cosa evidente a posteriori tenendo conto delle carriere dei vari Lerner, Mieli, Liguori, e della lobby pro-Sofri ma era documentabile già negli anni settanta dai rapporti stretti che Lc intratteneva con il Psi prima di Craxi e – a detta di popolo – con certi settori tedeschi. Sulle infiltrazioni nelle Brigate Rosse si potrebbero scrivere enciclopedie anche se, probabilmente, è sufficiente quanto affermava il situazionista Sanguinetti nel 1979 nel suo “del terrorismo e dello stato”. Le commistioni tra Sisde, Mossad, criminalità organizzata e alcuni esponenti delle Br, catapultati alla testa della formazione dopo gli arresti di Curcio e Franceschini e le operazioni congiunte dei Carabinieri e della Cia, sono innumerevoli. Non si è mai fatta sufficiente luce – è un eufemismo – sui rapporti iniziali tra partigiani e Br.
In quanto ad Avanguardia Operaia, essa ebbe un ruolo centrale nel trasporre il movimento degli studenti in una logica di scontro frontale che comprendeva la teorizzazione – 1972 – dell’eliminazione fisica dei fascisti.
Indagando sul terrorismo, la Magistratura si è trovata a doversi arenare, trattando del servizio d’intelligence interno ad AO, perché la pista si chiudeva a Tel Aviv. Che quel movimento/partito fosse soggetto a decisioni verticistiche e a nomine dall’alto di dirigenti peraltro stranieri, ne abbiamo testimonianza da parte di Palladini ne “I rossi e i neri”, edizioni Settimo Sigillo, 2002. In quanto a Praga come luogo di controllo dell’ultrasinistra da parte della Cia, ciò rientra presumibilmente nella struttura delle “rat lines” e si trova qualche elemento in proposito nel nostro “Nuovo ordine mondiale, tra imperialismo e Impero”, SEB, 2002.
Ma a prescindere dalle singole ricostruzioni, quel che sembra evidente è che il potere abbia effettuato mosse speculari all’estrema destra e all’estrema sinistra, tuttavia il monopolio dell’informazione detenuto dal Pci ha fatto sì che si abbia consapevolezza delle mancanze e delle complicità da solo una parte della medaglia quando, invece, le responsabilità sono, come minimo, pari.