Insieme al passo egli articola la parola. L’uno e l’altra sono legati insieme dal pensiero e dal sogno.
Azione e pensiero non sono affatto disgiunti nello stato di autenticità, anzi, sono talmente correlati da essere quasi la stessa cosa.
La crescita però è una lunga serie di affermazioni e di rinunce. L’adattamento passa così per il tradimento dei sogni, o comunque di taluni sogni; il che porta ad una separazione completa tra fantastico e reale e scaturisce nella concezione di una vita a compartimenti stagni. Non a caso Nietzsche – che resta probabilmente il massimo lirico greco dell’era moderna – coniò un’espressione d’inaudita e scanzonata saggezza. Un’espressione che suona pressappoco così: voglio mantenere verso la vita quello che essa mi promise un giorno ma che non seppe mantenere. Un’espressione che afferma la massima sfida: quella con se stessi per divenire adulti restando sempre fanciulli, cioè sognatori.
I disastri di un peccato originale
L’individuo cresciuto vive quindi al di fuori dal sogno e dunque dell’autenticità. Disgiunge ciò che era uno. Dunque il pensiero – che diviene speculazione, riflessione, sfogo o sfoggio – e l’azione che, abbandonata l’allegra volontà di potenza assoluta, si trasforma in atto pratico rivolto ad uno scopo.
Persa la brama di conquista e – soprattutto – quella della ricerca del limite, chi diviene “maturo” non va alla ventura ma occupa spazi. Nella vita, nella carriera, nella politica.
Il pensiero intanto si astrae e si fa schizofrenia. Analisi, psicoanalisi, filosofia astratta, giustificazione della morte vivente, alibi per il tradimento di sé.
Né il pensiero che non sia azione può essere altra cosa. Come altra cosa da un cinico insieme di atti insensati non può essere l’azione che non sia pensiero. Nella separazione (dia-bolica in greco) si comprende tutto il senso della frantumazione esistenziale che caratterizza l’era moderna e borghese. Dagli effetti disastrosi di questa disgregazione si cerca di uscire ricorrendo ad una protesi artificiale che tiene insieme il corpo sociale. Una protesi che – in sostituzione dell’unità perduta – è costruita sul perenne ed irrisolto schema duale, ovvero sull’opposizione fittizia e reiterata infinitamente fra bene e male, destra e sinistra, questo e quello, che altro non è se non un insensato monologo di fronte a un specchio che riflette da ambo i lati due zeri grigi, ognuno dei quali si considera bianco in quanto pretende che l’altro sia nero. Ognuno dei quali assume un’identità fittizia solo e soltanto dalla negazione della fittizia identità altrui.
È su questa costruzione artificiale, edificata su di un’impalcatura inconsistente che, ad esempio, si basa il bipolarismo. Un bipolarismo che si compone di una Nonsinistra che gli altri chiamano destra e di una Nondestra che gli altri chiamano sinistra. Nessuna delle due poltiglie ha un’identità propria ma ciascuna ne assume una virtuale solo e soltanto grazie alle accuse che riceve dalla sua altera imago.
In politica, come in tutto il resto, oggi si vive per procura, per riflesso, per mistificazione.
Deduzioni
Tutto questo si è esposto per introdurre una serie di punti fermi che aiutino a chiarire la funzione del pensiero, della letteratura, dell’editoria, e non solo di quella cartacea, nella società e nella politica.
Quando pensiero ed azione vanno disgiunti – qualunque dei due elementi sia quello sacrificato – vi è impotenza creativa, impantanamento esistenziale, agonia.
Se il pensiero non aiuta l’azione a ri-creare il mondo, a modificare gli spazi, ad allargare i limiti, esso è schizofrenia e conduce all’inautenticità, alla recita, alla buffonata.
Il pensiero e l’azione sono, insieme, marchi di individualità e di universalità e, dunque, linguaggio con o senza le parole, sun-taxis che tesse e connette il mondo animato.
Dal che si comprende agevolmente il significato profondo che aveva il motto fascista “libro e moschetto”.
Dal che si possono comprendere le ragioni del fallimento della strategia detta gramsciana che pretenderebbe di modificare la società tramite il dibattito intellettuale.
Dal che si può tracciare il bilancio dell’inconsistenza strategica – se non altro in chiave metapolitica – da parte di istituzioni “nonsinistre” che in teoria dovrebbero rifarsi ad un vitalismo irrazionale antimaterialista.
Dal che, infine, si possono ricavare, con un certo sforzo analitico, i risultati positivi che una serie di tentativi caotici hanno comunque prodotto e continuano a produrre; ed infine ciò che se ne dovrebbe fare per finalizzarli strategicamente.
Il vizio congenito del “gramscismo di destra”
Andiamo con ordine.
La cosiddetta strategia gramsciana degli intellettuali neodestri è nata morta. È nata morta proprio in quanto ha accettato la separazione tra pensiero ed azione ed ha apportato una gerarchia, se non di valore quantomeno di tempo e metodo, secondo la quale l’azione scaturirebbe dal pensiero.
La tesi di fondo era che la Rivoluzione Francese sarebbe stata il frutto dell’Illuminismo per cui, prima di pensare a un’ulteriore Rivoluzione (o ad una Controrivoluzione per i neodestri italiani che, a differenza dei corrispettivi transalpini, sono innanzitutto antigiacobini) si dovrebbe introdurre un equivalente dell’Illuminismo e pertanto lavorare per sensibilizzare gli intellettuali.
Invece, come avevano ben capito i sintetici squadristi, tra Rivoluzione e Teoria c’è una correlazione intima e costante: l’una e l’altra non possono vivere disgiunti.
La ricerca di un concetto astratto, accattivante e sconvolgente che permetta di apportare modifiche profonde alla realtà, si basa dunque su un non senso storico ed esistenziale: la tesi è falsata in partenza. Nella realtà, infatti, la mente non costruisce bensì attiva, rettifica e armonizza il gesto che a sua volta rimanda la verifica e l’esperienza al cervello il quale così lo assume e lo migliora tendendo alla perfezione. Nulla esprime meglio la natura umana, e dunque la storia che è il filmato del protrarsi continuato dell’uomo, dell’arte marziale in cui pensiero e azione sono la stessa cosa e vanno alla medesima velocità.
D’altronde basta soffermarsi a guardare intorno, indietro, dentro di sé, per scoprire che i momenti di autenticità nella vita sono quelli che corrispondono all’arte, all’eros e alla guerra: il pensiero e l’azione in tutti questi casi si fondono e il momento riflessivo, il distacco, si verifica non nell’antinomia rispetto al gesto ma in una dimensione di alterità presente, dunque metafisica.
Il non aver colto questa verità elementare è stata la causa del non successo strategico del presunto gramscismo di destra che non è riuscito a trasformare la teoria in prassi; né avrebbe potuto farlo. E che poi si differenzia dal gramscismo originario che, invece, intende la metapolitica come utilizzo di tutte le vie sottili di comunicazione sociale (musica, arte, sport, oltre che cultura). Una strategia che pur essendo viziata da pregiudiziale materialistica, resta comunque in buona parte organica e naturale, dunque efficace. E che, nella sua versione completa ed originaria, è validissima.
La farsa fallimentare della Nonsinistra
L’irrealismo e l’inconsistenza della strategia (non dell’operato, che in gran parte resta valido e fruttuoso) della nuova destra si palesa vieppiù oggi che le istituzioni sono aperte alla propaganda delle tesi degli intellettuali nonsinistri.
Ebbene: dopo due anni e mezzo di governo del polo, la penetrazione culturale è insignificante.
E si badi bene: non lo è tanto per via della difesa dei privilegi e degli spazi effettuata accanitamente dalle oligarchie del potere e del sapere saldamente in cattedra, quanto per una ragione più preoccupante, elementare e profonda. Perché, tanto per cambiare, la dicotomia pensiero-azione è data per scontata. E, nella concezione pragmatico-cinica del centrodestra, il pensiero non è altro che ostentazione salottiera, fregio accademico: un fiore all’occhiello.
Ciò è il prodotto della cultura dominante, una cultura borghese che è frutto di una vera e propria selezione inversa, particolarmente evidente nel filone post/neofascista.
Il neofascismo, vittima della selezione al contrario
Sin dal dopoguerra, allorché gli altri potevano godere di sostegni politici, finanziari e mafiosi, i neofascisti dovettero barcamenarsi. Non esistendo i mezzi (ma neppure la volontà quando vennero i mezzi) di far scuola di partito né di costituire strumenti economici e professionali, le forze vive furono costrette dagli imperativi della vita a lasciare il MSI e a guardarlo di lontano.
Ci furono allora, e si ripeterono di generazione in generazione, tre grandi selezioni al contrario.
1. Gli idealisti e i più impulsivi – a differenza di quanto accadde negli altri partiti a forte connotazione ideologica – finirono in carcere o in esilio o falciati da fuoco antifascista.
2. I popolani, i proletari, i poveri, dovettero rimboccarsi le maniche e mettere il sudore della propria fronte a disposizione delle proprie famiglie
3. I capaci, gli inventivi, i costruttivi, impegnarono le proprie risorse in maniera imprenditoriale. Finendo, esattamente come i lavoratori manuali, col seguire il partito distrattamente e da lontano.
Per selezione inversa rimasero i parassiti, quelli che scambiavano il partito con un ente di parastato, un luogo nel quale sopravvivere economicamente e fingersi uomini veri. Solo questi ebbero l’occasione di fare carriera e la fecero.
E la fecero nel nome, nel segno, nella mentalità e nell’etica della finzione, della spocchiosa immobilità borghese, nel credo dell’inutilità della vita e delle passioni. Ma anche – in fondo è la stessa cosa – dell’inutilità delle azioni, delle imprese, dei compiti laboriosi.
Nessun atto, qualche gesto, molte parole: a questo può ridursi il fil rouge di un annoso recitare quel che non si è, un recitare quel che non si è che – nel suo spietato irrealismo, nella sua totale inaderenza alle cose surrogata dalla più assoluta aderenza ai clichets che nascondono le cose – ha trascinato generazioni intere di politici neofascisti in una dimensione virtuale, astratta, non vera.
Finti, atteggiati, sovente cialtroni.
I quali, soprattutto oggi che sono personaggi illustri, “che contano”, non hanno esitato a promuovere e finanziare farse intellettuali con pantofolai sovente vigliacchi che decantano le lodi di Jünger, Evola, Nietzsche, Mishima. Con quale concezione dei medesimi non si fatica ad immaginarlo. Uno spettacolo !
Ma gli asini portano le reliquie
Dal che si dovrebbe desumere l’insignificanza e l’inefficacia dell’azione intellettuale e culturale.
E si commetterebbe un errore. Perché se è vero che, se mancano i presupposti dovuti, l’azione intellettuale e culturale non può definirsi strategia né si confà pienamente al termine metapolitica, è pur vero che essa fruttifica comunque, in modo irrazionale ed irregolare ma pur sempre in larga misura, ben al di là dei suoi limiti.
Gli intellettuali borghesi e i militanti autodidatti della metapolitica, così come le strutture editoriali e propagandistiche, fungono sempre e comunque da asini delle reliquie e raggiungono migliaia e migliaia di individualità anonime, sconosciute, che si formano indipendenti, per conto loro, spesso cogliendo e mettendo a frutto il messaggio dell’autore ben diversamente da come lo interpretano, e sovente lo distorcono, gli intermediari che ne vorrebbero fare un uso politico. Per non parlare, ovviamente, degli intellettuali salottieri della marmellata “nonsinistra” che lo maciullano, lo masticano e lo insalivano come gomma americana.
Milioni di individualità isolate
La strategia, sempre ammesso che ce ne sia una, è mal designata, ma i risultati ci sono a prescindere, per effetto carambola.
Dalla loro individuazione e comprensione, scaturisce la possibilità di ideare una strategia efficace.
La società post/borghese è disarticolata, soprattutto nelle forme. Un grande blob gassoso e nientificante ha preso il posto dell’insieme organico: un grande blob gassoso nel quale ci si massifica volatilizzandosi. Per effetto di compensazione, e di riequilibrio, l’individuo è isolato, chiuso in se stesso, senza riferimenti: se li deve cercare da solo. Alcuni si limitano a recitare per tutta la vita e muoiono senza nemmeno essersi accorti di esistere. Altri hanno momenti di lucidità che cercano di esorcizzare definendoli crisi o attimi di follia. Altri ancora – e sono tanti – viaggiano da singoli erranti alla ricerca di se stessi. E il linguaggio dell’arte – e della letteratura, e della storia vissuta, che sono pathos messo in forma e, dunque, arte – offre loro dei simboli, dei riferimenti, delle aperture.
Essi sono milioni. Ricercano l’identità. Non un’identità qualsiasi, la loro identità. Rifuggono dall’orrore della livella, dell’informe uniformità, della rassegnazione, del godimento spicciolo, dell’ipocrisia. In poche parole rifiutano la cultura dominante e si rivolgono alla ricerca di ciò che È.
Ciascuno di essi può essere improvvisamente raggiunto da quel che cerca, perché tutto già è stato scritto e descritto e va solo incontrato e assimilato. E, successivamente, può adoperarlo per agire in profondità dentro di sé. Ciò accade sempre più spesso ed è un fenomeno che si intensificherà.
Rivoli carsici
Ad una prima frettolosa analisi si potrebbe allora concludere che, in risposta all’uniformità imperante, l’azione metapolitica abbia solo un valore esistenziale personale perché, anche se il suo effetto viene moltiplicato per milioni di casi, questi non hanno un rapporto organico, organizzativo e, dunque politico, tra di loro.
Ciò è vero solo a metà. Infatti, se ci ricolleghiamo a quanto affermammo all’inizio di questa disquisizione, possiamo dedurre, o quanto meno ipotizzare, che l’uomo che sogna, pensa ed agisce in modo unitario e non separato, influisce sul mondo, lo ri-crea, ne allarga i limiti. Il che, se ci atteniamo alla percezione limitata che egli ha della sua esperienza, vale solo per un microcosmo. Tuttavia ogni azione in un microcosmo ha a sua volta effetti diretti o collaterali che si ripercuotono nei microcosmi limitrofi. E quando poi l’azione si svolge in tanti microcosmi paralleli e non comunicanti, essa produce rivoluzioni silenti ed impercettibili ma inesorabili e inarrestabili, perché sono l’effetto di milioni di rivoli carsici i quali s’ignoran tutti ma scorrono sotto la superficie e cambiano il mondo.
E questo è il bicchiere mezzo pieno; il mezzo vuoto sta, invece, nel riconoscimento della carenza organizzativa e strategica degli intermediari che si pongono tra la Kultur ed il blob, i quali spesso pretendono di fungere da avanguardie.
La strategia, questa sconosciuta
Tecnicamente, i motivi per i quali queste avanguardie non superano il livello di strumenti di un’azione sottile ed impersonale sono abbastanza elementari. Certo il più gettonato motivo di scarso successo è la penuria di mezzi; è un problema, ovviamente, ma è soprattutto un falso problema. Laddove c’è convinzione c’è energia, c’è dunque fantasia ed operosità, ci sono mezzi e soprattutto capacità d’investirli fruttuosamente. E poi abbiam visto come in periodi economicamente favorevoli, quali quelli in cui le istituzioni promuovono una cultura alternativa, la kermesse intellettuale si dimostri fallimentare perché tarata alla base.
I motivi di mancato successo sono altri e si trovano a monte. In primis ravvisiamo un uso improprio della comunicazione editoriale e della pubblicistica che deriva proprio dallo schema di separazione tra pensiero ed azione. Difatti, per procedere strategicamente, bisogna partire dal concetto che l’azione non può essere secondaria. E si deve allora concepire la divulgazione dell’analisi e della teoria come propedeutica a qualcosa di concreto e non come puro esercizio estetico. Ciò in realtà non è chiaro, oppure viene implicitamente negato, sicché quand’anche un buon messaggio giunga corretto all’utente anonimo – ed è già questa una scommessa – quasi mai lo fa recando con sé gli stimoli e le condizioni perché egli interagisca con chi ha fornito il supporto tecnico alla circolazione del messaggio (casa editrice, distributrice, redazione della rivista). L’inorganicità ci appare ancor più palese se teniamo conto della reciproca estraneità che vige tra metapolitica cartacea e metapolitica musicale che, anche se si supportano vicendevolmente, lo fanno più nello spirito del buon vicinato che non nella convinzione di rappresentare una sorta di doppio filo di ascia bipenne. Insomma vi è inconsapevolezza di quello che si rappresenta davvero. Inoltre lo scollamento tra metapolitica concettuale e azione metapolitica diretta (volontariato, impegno sociale) tradisce la disorganizzazione degli asini delle reliquie. I quali, tra l’altro, si dimostrano particolarmente impolitici nel quotidiano perché, anche quando cercano di migliorare il prodotto, disdegnano costantemente di curarne la distribuzione che, invece, dovrebbe essere il loro primo obiettivo se davvero ragionassero in termini strategici.
C’è insomma ancora un bel dislivello da colmare: come prese da una disarmonia motoria, testa e gambe vanno per conto proprio.
Essere Nietzsche
Il pensiero e l’azione hanno valore solo se connessi, altrimenti scadono nella farsa. E questo è il secondo, ma probabilmente il più importante motivo, per il quale le avanguardie metapolitiche sono inconsistenti e mancano di credibilità.
L’alternativa che propugnano, infatti, è eroica, mistica, ascetica, guerriera, solidale, impersonale, generosa. Raramente accade, però, che gli alfieri di questa radicale differenza corrispondano a qualcuno dei tratti esaltati, sicché s’impantanano vergognosamente nella più pietosa delle caricature. Ed esattamente come tanti parroci noti ai loro parrocchiani per vizi squallidi e sordidi, recitando nei secoli splendide omelie hanno disaffezionato i fedeli più di quanto abbiano fatto centrali ostili al Cristianesimo, i nostri “eroi” arrecano più danni loro a quel che professano di quanti non ne producano invece gli avversari dichiarati.
E questa finzione si ripercuote sulla concezione stessa dell’alternativa, perché a prescindere dallo scarso valore generale dei suoi paladini, è errata anche l’impostazione dell’antagonismo culturale. Non si può opporre Nietzsche al Maurizio Costanzo Show o Evola a Striscia la notizia. E persino più grottesco sarebbe rispondere a Vattimo contrapponendogli Jünger, quasi si trattasse di un confronto tra due formazioni di calcio. L’azione rivoluzionaria del pensiero sta nella sua aderenza piena all’essere ed all’esistere. Non si deve leggere Nietzsche, si deve essere Nietzsche. Non si può proporre Evola, bisogna essere Evola. L’alternativa non è mai teorica è sempre completa. La farsa dev’essere irrisa e la persona va liberata in una gioiosa e cosciente tragedia. Dall’aderenza piena ad un modo di essere scaturiscono comportamenti consequenziali che sono assolutamente differenti da quelli comuni e, dunque, agiscono sullo scenario e lo modificano. Perché l’azione metapolitica è soltanto questo: un’operazione sottile volta a modificare lo stile di vita e la gerarchia dei valori comunemente accettati; dunque a fare e ad essere rivoluzione.
Marinetti, Evola, Pavolini.
Sosteniamo da tempo che i soli uomini di cultura che ci piacciono sono di un tipo preciso, e si possono chiamare Marinetti, Evola, Pavolini. Ci piacciono perché la loro cultura non è di salotto o di museo ma è stile di vita, meglio ancora è vita di stile. Uomini che non predicano quel che non praticano né compiono quel che non affermano. Uomini interi ad ogni costo. Non uomini che credono in quel che fanno – che è cosa facile e diffusa – ma uomini che fanno quello in cui credono, il che è essenziale ed eccezionale. Uomini che vanno in fondo alle cose, davvero in fondo.
E non a caso questi uomini di cultura sono artisti e uomini di guerra e con una notoria carica erotica esplosiva: sono uomini e non larve, autentici, non costruiti.
La rivoluzione sta infatti esattamente lì: nell’autenticità che strappa le maschere, che mette a nudo le finzioni, che dissipa le nebbie del blob aeriforme e inchioda i pagliacci, i buffoni, i finti ribelli, i fascisti della domenica, i no-global stipendiati dalle multinazionali, i portaborse che si rifanno il trucco con la “cultura alternativa”.
La rivoluzione è scarnamente compresa nel motto di un tempo “libro e moschetto”; ed in quello che esso realmente significa si trovano i dettami di qualsiasi azione efficace.
L’alternativa metapolitica non si risolve nel contrapporre titoli e nomi e teorie ad altri titoli, nomi e teorie ma, tornando alla citazione iniziale, nel mantenere nei riguardi della vita quel che essa ci promise un giorno e si scordò di mantenere. È gioia, tragedia e sorriso che si articola magnificamente e che giunge organicamente a farsi carico di milioni di rivoli carsici. È autenticità, è fedeltà a se stessi ed è lama. Editoriale e non soltanto.
Rigore e innocenza.
La metapolitica è, dunque, innanzitutto azione rigorosa su di sé. Quindi è capacità di cucire quel che viene prodotto facendone possibilità d’interazione con la realtà. Interazioni che siano, però, non tanto volte all’acquisizione di potenza quanto alle opportunità di ri-creare il mondo, di liberare la forma dalla materia, di sacralizzare lo spazio, di assumere significato.
Il differenziale pertanto non può essere, nel modo più assoluto, astratto, teorico; esso risiede esclusivamente nel vissuto, nella gerarchia dei valori quotidiani che deriva da una scelta. La contrapposizione pur essendo concreta – dunque preoccupata del quantum – dev’essere soprattutto qualitativa. E parliamo di un Quale vero, non ipotetico, di una differenza assoluta e cosciente che non si esaurisce nell’abito del monaco o nella camicia dell’ardito bensì nel vivere la quotidiana mistica dell’ardito che è spontanea, naturale, semplice e allegra. Che detta, naturalmente quanto immancabilmente, uno sguardo sul mondo che lo incanta nuovamente, lo plasma, lo trasforma liberandolo dalle pesanti e grigie muraglie della “maturità” che lo soffocano in tutte le piccole cose.
La scimmia e lo spirito di gravità
Su questi parametri, il nemico non è tanto il blob della cultura imperante, quanto quel duplice avversario che Nietzsche individuò per Zarathustra: la sua scimmia e lo spirito di gravità.
Capite allora dov’è la falla, la causa incapacitante, la de-mitizzazione razionalistica, robotica e borghese, su cui si fonda la pochezza strategica della cultura alternativa ? Alla quale mancanza, o meglio voragine, qua e là più d’uno ha iniziato a porre rimedio compiendo atti alla sua portata che per i più sembravano e tuttora appaiono impossibili da compiere. Atti magari provocatori e di non facile comprensione nella loro improba attuazione, come la Guardia d’Onore che è metapolitica e cultura ben oltre ogni immaginazione. Un esempio che, ovviamente, non dev’essere preso come la soluzione organizzativa o dialettica al problema, ma come un emblema paradigmatico e paradossale dell’atto intimamente rivoluzionario che deve fondare qualsiasi affermazione controcorrente: letteratura, lirica, poesia. Cioè politica, cioè vita. Perché Hic et Nunc – qui ed oggi - significa sempre e dipende solo da te.