Erano giunti all’estremo limite ed avevano appreso che non esistono limiti invalicabili se non quelli che ci costruiamo da noi: così nell’elementarità e nella precarietà più assoluta avevano appreso la saggezza, la serenità, la calma e l’incorruttibilità.
Erano combattenti di trincea, travolti da quelle tempeste di acciaio che Junger ha immortalato in maniera impareggiabile. Chi riusciva a superare la lacerazione, la follia, la disperazione, raggiungeva stadi olimpici. Come i combattenti francesi di Verdun presi in foto nella pausa tra un’offerta sacrificale inutile ed un’altra alla mietitura dell’artiglieria tedesca ma così serafici nell’assurda attesa della pioggia di fuoco che di lì a poco li avrebbe quasi tutti smembrati e sepolti per l’eternità, da infondere un senso di pace ancora oggi a chi li osserva in effige.
Alle spalle si erano lasciati il proprio alter ego, il gemello inferiore che ognuno porta in sé, e con lui tutti i pescecani del mercato nero, i politicanti da strapazzo, gli affaristi piccoli piccoli, gli invidiosi di ogni razza e stampo, gli scrivani, gli intellettuali, i ruffiani, le prostitute a pagamento e quelle di ogni altro tipo e sesso.
Quando la vittoria mutilata o la pugnalata alle spalle li obbligò a rinunciare ad un palmo di patria, essi non tornarono al calore della casa paterna o muliebre ma combatterono a Fiume o sul Baltico, senza un soldo, con poche speranze ma in nome di un imperativo che sentivano superiore ad ogni altra cosa.
Quando tornarono infine, furono linciati da plebaglia vile quanto idiota che non sopportava di vedere in loro la grandezza di chi col proprio sacrificio ne aveva indirettamente smascherato la meschinità; vennero sminuiti nella dignità da autorità civili e militari pusillanimi e arroganti; trovarono ovunque speculazioni ignobili, cinismo, ingiustizia sociale, miseria d’animo e di sentimenti.
Di fronte a tanto sfacelo non potevano né vollero starsene con le mani in mano. Trovarono un capo, o almeno lo trovarono in Italia ed in Germania, e così marciarono alla volta di un nuovo destino, che volevano più giusto.
Così nacquero i fascisti.
I fascisti
Gli storici del novecento, i pochi seri ovviamente, ci diranno altre cose.
Soffermandosi sull’aspetto ideologico, ci racconteranno che il fascismo fu il frutto della lunga incubazione del socialismo romantico ed irrazionale e delle connesse pulsioni nazionaliste, il figlio naturale di quella che l’israeliano Zeev Sternhel ha definito “destra rivoluzionaria”.
Ci spiegheranno che fu il prodotto di eventi storici particolarmente emotivi; che seppe coniugare, grazie alla grande intuizione del suo capo, la cui figura ha dettato i capolavori storiografici di De Felice, l’emergere delle masse con il recupero di quei valori forti provenienti dal recente passato che la borghesia dominante aveva da tempo tradito, come si evince anche dagli studi del Mosse.
Ma il punto saliente del fascismo non sta nell’ideologia o, se vogliamo, nell’ottica attraverso la quale esso interpreta e plasma la realtà: ben prima di tutto questo, la chiave si trova nella mentalità di fondo, nel suo modo d’essere e, dunque, di pensare e di agire.
E come definirli questi fascisti ?
Furono di destra e di sinistra senza essere di destra né di sinistra.
Erano pragmatici; non di certo nel senso ignobile che il termine ha assunto oggi, perché utilizzato impropriamente per attenuare la mancanza di punti fermi e di coerenza dei politicanti d’ogni colore, ma in quello più preciso di prevalenza della pratica sulla teoria.
È certamente corretto definirli reazionari perché reagirono: alle bassezze ed alle ingiustizie. Ma non reagirono nel modo tipico dei reazionari, cioè a riflesso condizionato, in contrasto o in imitazione di un’azione altrui: lo fecero prendendo l’iniziativa.
È pertanto calzante il definirli interventisti perché, fedeli allo spirito che animò il volontariato della Grande Guerra, dettarono ed attuarono le linee d’azione, intervennero, addirittura in molti casi precedettero le iniziative dei fibrillanti socialcomunisti, aprirono essi stessi le strade che percorsero.
E, una volta al potere, cambiarono dalle fondamenta l’assetto sociale ed economico della Nazione, così come quello morale, imponendo l’etica ad una terra che allora era pervasa dall’ipocrisia savoiarda e papalina.
In tutto e per tutto furono, dunque, rivoluzionari.
Affascinati dall’impeto di una modernità da plasmare e da dominar, essi non furono mai retrivi, non soffrirono di torcicollo, semmai vennero ripetutamente tentati dall’avanguardismo di ogni genere, specie dal futurismo.
Entusiasti e vincenti guardavano al domani, ad un domani prossimo, che avrebbe visto risorgere la patria, travolgere le barriere sociali inique, che sarebbe stato contrassegnato dal progresso sociale e morale, nel nome della dignità e della giustizia.
Una nuova Roma, pratica, frugale, guerriera, operosa e costruttiva.
L’aratro traccia il solco, la spada lo difende.
Il fascismo-regime
Il fascismo-regime fu il figlio legittimo degli squadristi; esso, infatti agì - e compose con tutte le altre forze di potere - sempre con occhio vigile: il manganello a protezione della virtù.
Il governo dovette patteggiare con Casa Savoia e con il Vaticano e, dunque, eccedere nel pragmatismo, fino ai limiti del compromesso.
Ma era inevitabile e per certi versi fu anche giusto e proficuo. E poi, in fondo, proprio nella capacità di comporre tra le diverse forze, nella volontà di irrigimentarle senza schiacciarle, nella sfida riuscita con se stessi di venire a capo dei compromessi senza cedere in dignità, in tentazioni, in debolezze ma affermando sempre e comunque uno stile di vita sobrio e dignitoso, sta la principale grandezza dell’azione di Mussolini.
In ogni modo tutto l’operato del regime fu incontestabilmente volto a migliorare le condizioni di vita degli Italiani, ad abbattere le barriere ipocrite del classismo, ad accrescere il prestigio italiano nel mondo, ad infondere valori morali sostanzialmente stoici e frugali, e non ipocritamente moralistici.
Il progresso costante delle telecomunicazioni, il varo di quello che fu probabilmente il miglior stato sociale di tutto il XX secolo, il riscatto della dignità femminile (si pensi al valore restituito alle ragazze madri, un evento a dir poco sconvolgente per il contesto storico), la crescita economica, l’inversione di tendenza rispetto ai flussi d’emigrazione, obiettivo raggiunto tra l’altro proprio in piena crescita demografica, il che ha del miracoloso, la politica demografica stessa, relegano addirittura al secondo piano delle opere mastodontiche, del tutto impensabili per il regime del dopoguerra, come le bonifiche pontine.
Tutto l’operato del fascismo fu volto alla ricerca, sicuramente fruttuosa, della giustizia sociale, tanto che possiamo dire che l’unico periodo di socialismo concreto che si sia conosciuto ci è stato offerto da Mussolini.
Così come l’unico momento storico in cui si poteva girare per il mondo a testa alta, orgogliosi d’essere Italiani, fu proprio il cosiddetto Ventennio.
Dopo, per aver qualcosa di cui essere fieri, avremmo dovuto ricorrere a Nino Benvenuti, a Felice Gimondi, a Pietro Mennea, a Paolo Rossi, a Bruno Conti o alle gagliarde ragazze della scherma e della pallavolo.
Il tarlo del Ventennio fu la sua durata. Nel corso della lunga permanenza al potere si produsse uno iato fra la generazione che aveva dato vita alla rivoluzione fascista e quella che avrebbe poi combattuto per l’onore sulla linea gotica.
Gerarchi arrivisti, adulatori d’accatto, spiriti che si definivano guerrieri per semplice retorica, vennero in auge e, al momento di fare i conti con la realtà nuda dei fatti, si sbriciolarono dando un esempio pessimo, degno di Casa Savoia.
Ma in realtà le dimensioni del crollo del fascismo furono di gran lunga inferiori a quanto ci vogliono far credere.
La parte antifascista, fino a che le sorti della guerra non furono definitivamente chiare, restò assolutamente minoritaria ed oligarchica, né avrebbe inciso granché senza l’apporto della mafia e della massoneria. Né il 25 luglio né l’8 settembre furono del resto il frutto di una rivolta o di una pressione popolare: si trattò di mosse successive di una guerra di corridoio, di due tappe di un colpo di stato che avvenne solo perché la coabitazione con Mezzo Feto Vittorio Emanuele III aveva permesso l’avvento di una crisi altrove costituzionalmente impensabile.
Di fronte alla fuga vigliacca del re e di Badoglio ed allo sbando generale, pochi altri popoli, messi alla prova, avrebbero reagito come quello italiano che schierò quasi ottocentomila volontari per l’onore. Un fattore, questo, che va ascritto all’attivo della nostra gente di allora e, dunque, dell’esempio mussoliniano e che attesta al contempo l’ampio consenso di massa di cui godeva il Duce e l’efficacia del suo insegnamento etico.
Né può essere un caso se oggi, a cinquantasette anni dalla morte e ad ottanta dalla presa di potere, Mussolini è ancora così amato dal suo popolo che lo ricorda con passione e rispetto, tramandandone la memoria di generazione in generazione. Che a Predappio, ogni anno, sfilino rispettose, in raccoglimento, centinaia di migliaia di persone di ogni ceto e di ogni età vorrà pur dire qualcosa.
La Repubblica Sociale
Il fascismo della RSI fu in parte diverso.
Il fascismo repubblicano, in lotta per l’onore nell’assoluta certezza dell’immancabile sconfitta, impone uno sguardo diverso da quello squadrista. Non può esservi l’ottimismo pragmatico di colui che raddrizza i torti e piega la schiena ai gaglioffi; è il tempo della disperazione stoica anche se gaia di chi va al patibolo piuttosto che strisciare.
La Repubblica Sociale in fondo è un grande tramonto. Se fosse stata tedesca avrebbe avuto toni wagneriani, essendo nata in Italia si affidò a una lirica più semplice, quasi acqua e sapone che, nella sua particolarità, fece sì che la tragedia, l’immane tragedia, l’ingiusta e sproporzionata tragedia, avesse luogo sotto il segno del sorriso.
Il fascismo movimento fu un inizio, l’inizio di ogni possibilità.
Il fascismo regime era stato un’affermazione continua, pragmatica e costruttiva.
Il fascismo repubblicano non poteva essere che la presa di consapevolezza della fine certa e, perciò, il desiderio di fissare in un attimo d’eternità un messaggio che, proprio in quanto istantaneo ed eterno, si voleva completo ed assoluto.
Questo spiega in buona misura più di un tono incondizionato.
Lo stesso socialismo della RSI, per l’eccessiva retorica di cui s’accompagnava, è sintomatico.
In chi lo proclamava in modo così acceso e ridondante non era probabilmente estranea una sorta di competizione verso quegli pseudorivoluzionari che contemporaneamente - e quasi sempre in mala fede - dall’altra parte della penisola lanciavano programmi sociali utopici ed impossibili.
I quali demagoghi, tra l’altro, in parecchi casi erano stati dirigenti dei GUF, gli organismi del fascismo universitario, e spesso alla vigilia avevano rappresentato i punti di riferimento di molti fra i socialisti repubblicani del 44. Il che contribuì non poco a spingere questi ultimi a mostrarsi più spregiudicati degli ex camerati, ora divenuti loro antagonisti, sul terreno dello scontro dell’ideazione.
Paradossalmente, se teniamo conto sia della consapevolezza della fine con la consequenziale volontà di lasciare un segno indelebile per i posteri, sia della competizione intrapresa con i demagogici voltagabbana, si può allora sostenere che emotivamente la socialità anelata dalla Repubblica del nord fosse più un effetto reattivo che non una serena ricerca, come era stato invece il caso nel Regime mussoliniano.
Il che non va frainteso. Il programma sociale dell’RSI era d’avanguardia e realistico al tempo stesso, tanto che a tutt’oggi può offrire moltissime soluzioni ai problemi irrisolti; lungi da noi il ridimensionarlo nel paragone con le grandiose realizzazioni del Ventennio.
Ma va abbandonato definitivamente l’assioma ritrito e inesatto secondo il quale il fascismo autentico sarebbe quello della Repubblica e che il resto sarebbe un puro e semplice compromesso. Un assioma che in seguito, nella riproposizione politica successiva alla sconfitta militare, proprio a causa della fissazione ideologica troppo rigida del fascismo rivoluzionario, avrebbe contribuito a frenarne l’impeto creativo.
Ambo i periodi, Regime e Repubblica, sono rilevanti sia politicamente che moralmente ma immancabilmente pervasi da stati d’animo diversi.
È comprensibile che da buoni romantici, quali sono sempre i più giovani ed i più ribelli, noi si senta una predilezione istintiva verso la tragedia senza speranza della RSI, ma è opportuno saper prescindere dai propri sentimenti e valutare le cose così come sono. Che ci dicono che il Regime, figlio legittimo e naturale del fascismo, ne è l’attuazione politica, ovviamente incompleta come sono incomplete tutte le opere degli uomini, e che la RSI più che la realizzazione spregiudicata del suo programma ne è invece l’esaltazione esistenziale, è la stoica e magnifica affermazione, nel proprio sangue, dell’onore ed ella fedeltà.
Il neofascismo
Il neofascismo nasce nel 46 e, nei suoi percorsi talvolta indecifrabili, con l’andare degli anni si trasforma e si diluisce in tante diverse cose al tempo stesso: in postfscismo, in estrema destra, in destra radicale, in memoria del fascismo e magari anche in nuova gestazione del gene fascista, chissà. Ai posteri il sentenziarlo; intanto già possiamo dare un’ampia valutazione di mezzo secolo di testimonianza.
Il neofascismo è stato al contempo grandissimo e piccolissimo.
Grandissimo moralmente, per la sua tenacia, per il suo sacrificio, per il numero dei suoi giovani offertisi in sacrificio, uccisi dal terrorismo di stato e da quello comunista.
Piccolissimo politicamente perché sempre periferico, marginale, fatuo, incapace di prendere l’iniziativa e di essere fisicamente e mentalmente nell’attualità, eccezion fatta per poche parentesi, peraltro minoritarie assai.
Benché si debba computare a suo vantaggio qualcosa che solitamente tutti dimenticano e cioè di aver fatto da diga all’avvento di un regime comunista che, altrimenti, avrebbe anche potuto prender piede, è indiscutibile che politicamente il fenomeno neofascista sia stato carente.
Oscillante tra una subalternità imbarazzante rispetto alla DC e agli Angloamericani ed un radicalismo incondizionato, senza mezzi termini, costantemente innamorato di qualsiasi causa persa, il neofascismo non ha saputo proporre una via percorribile. O la sudditanza o il ghetto.
I fascisti odiavano i dogmi, sia religiosi che laici; aborrivano le griglie d’interpretazione preconfezionate, detestavano l’autocommiserazione, l’inattività, il non essere operativi.
I neofascisti più radicali si sono lasciati troppo spesso imprigionare da dogmi ideologici e da scelte di campo preconfezionate, di solito in difesa del cattivo della commedia, da Gheddafi a Bin Laden, ed hanno fatto della contestazione verbale e marginale a tutto e a tutti l’alibi per la loro inerzia.
Nella loro rivolta psichica ed estetica contro la totalità non sono quasi mai stati politici (intendiamo nel senso di azione allargata alla polis, non in quello di accomodamento politicante, ovviamente). Come gli ultimi combattenti del ’45 essi, o almeno alcuni tra i migliori di essi, hanno scritto comunque, nel proprio sangue, le pagine più belle dell’Italietta snervata e flaccida sorta dal dopoguerra.
Ma persino nel loro sacrificio, politicamente parlando, non hanno potuto essere granché artefici perché tutte le situazioni in cui si sono puntualmente immolati erano state create da altri: comunisti, atlantisti, massoni.
Comunque di pagine belle quantomeno ne hanno incise e poiché nulla che venga scritto col sangue è inutile, hanno, sia pure in modo impercettibile, sicuramente influito sui destini del mondo.
Ma che dire dei nuovi pragmatici, di quelli che a furia di accettare la subalternità, se non addirittura di lustrar scarpe, si sono ritrovati al governo ? Solo un parallelo assai frettolosamente imperniato sul pragmatismo può accomunarli ai fascisti. Perché se è vero che prima della Marcia questi si allearono con le destre nel blocco nazionale, è altrettanto vero che lo fecero nella veste di locomotiva dell’alleanza, di un’alleanza, tra l’altro, fondata sulla base del nazionalismo e non su quella del liberismo.
Il ruolo dei fascisti era quello dei padroni di casa, quello dei “postfascisti” è il ruolo dei camerieri.
E non si tratta di una sfumatura né di un rapporto di forze che possa essere modificato.
I pochi di tempra o cultura fascista che sapranno mettere a frutto le occasioni offerte dalla contingenza, contendendo palmo a palmo il potere locale cattocomunista e creando minuscole sacche di respiro faranno bene; ma, a prescindere dalla loro soggettiva, o magari microcomunitaria, identità, non possono seriamente pretendere di trovarsi storicamente allineati con il fascismo.
Così come non lo sono le cento e cento schegge isolate che, in accesa polemica con i cugini postfascisti, si compiacciono del proprio isolamento e si gratificano del recupero di un’iconografia generalmente ridotta al folclorismo.
Anche se tra queste frange annoveriamo non pochi spiriti ribelli ed irriducibili che, forse poco fantasiosi, si ostinano comunque con grinta e tenacia a pungolare chiunque li ascolti mettendo così in mostra lodevoli qualità morali.
Ma gli uni e gli altri elementi virtuosi, che siano decine, centinaia o migliaia, sono comunque il frutto di percorsi individuali e tutt’al più la riprova di una buona tempra genetica.
Politicamente parlando, ovverosia nella complessità delle relazioni vive che caratterizzano un mondo, il bilancio è ben altro.
Il fascismo non può essere accomodamento o subalternità, né marginalità, frammentazione, settarismo, petulanza, lamentela o ideologizzazione.
Mentalità fascista e neofascista
L’enorme distanza che incorre tra fascismo e neofascismo è sicuramente politica ma si condensa innanzitutto nella mentalità e nello spirito.
Partiamo dalla mentalità: i fascisti, come abbiamo notato, erano al contempo pragmatici, reazionari, interventisti, rivoluzionari ed avanguardisti.
Se viene meno anche una sola di queste categorie non si è fascisti ma altra cosa: quale non ha in fondo molta importanza.
Da tutti questi fattori politici e dall’intervento di valori morali di prim’ordine, quali il senso del dovere, la dignità, la lealtà, il coraggio e l’onestà, nasce quella formula magica, quella sintesi che il nostro popolo ha potuto vivere per oltre venti anni.
Perché questa possa aver luogo sono però indispensabili l’ entusiasmo, la generosità, la fiducia nell’avvenire, a prescindere dalle nubi e dai venti di tempesta. È dunque una questione di spirito.
Un esempio emblematico di questo vero e proprio spartiacque antropologico ce le danno le canzoni della RSI. Anche le più disperate tra esse (“Hanno ucciso Ettore Muti”, “Decima”, “San Marco”, “Le donne non ci vogliono più bene”) sono gioiose, allegre, solari. Per non parlare poi degli stornelli delle Brigate Nere o di “È partita una tradotta carica di diciottenni” o di “Qualcuno arriccia il naso” meglio nota come “E con in testa il nostro Comandante”. Canti solari, gioiosi, vincenti che nascono tra i fuochi di un esercito votato alla sconfitta, tra giovani che si sono offerti in sacrificio e che conoscono quotidianamente il pericolo, il sangue, l’agguato, la morte. Giovani senza un domani ma ciononostante ancora così pieni di avvenire.
Se invece ascoltiamo i nostri cantautori degli anni settanta e ottanta, pietà !
Con rarissime eccezioni costoro cantano al proprio ombelico, si compiacciono della propria tristezza, delle comuni sciagure, della repressione, dell’incomprensione, si fanno grandi per la sofferenza patita e per le ingiustizie subite.
Sono lamentosi e si pongono individualmente al centro dell’universo, innamorati come sono dei propri nervi, delle proprie viscere, delle proprie sensazioni, in altre parole del proprio borghesissimo io. Un vero e proprio antifascismo militante, nello strimpellio e nel vocalizzo cui, a parte quegli degli Janus, si sottraggono poche decine di canti (citiamo, di getto, “Amici del vento” e “I nostri canti assassini” o, per la sobrietà, la dignità e la forza che esprimono pur nel rimpianto “Ritorno” e “Generazione ‘70”).
La colonna sonora del tardo neofascismo tradisce più d’ogni altra cosa la differenza spirituale dal fascismo.
Tristezza, debolezza, autocompiacimento, autocommiserazione, amor di ghetto, ricerca di indulgenza per le proprie debolezze e di alibi per le proprie incapacità, a questo difatti si riduce gran parte della poetica (e dell’ideologia, specie negli anni ottanta) dell’ultimo neofascismo che sarebbe infine divenuto per autoconsunzione cosa così diversa dalle proprie premesse da doversi orientare all’esterno alla ricerca frenetica di idee forti intorno alle quali trovare giustificazione: integralismo cattolico, fascinazione islamica e chi più ne ha più ne metta.
Fortunatamente negli ultimi dieci anni, non soltanto negli spunti metapolitici ma anche dal punto di vista dello spirito musicale, si sono registrati notevoli sintomi di raddrizzamento di tendenza.
Per chi sceglie l’avvenire
Il primo e più grave difetto del neofascismo è stato quello di pretendere d’ispirarsi al fascismo senza riuscire a farne proprio né l’insegnamento né lo spirito.
Il sostanziale fallimento politico del movimento neofascista, al quale è giusto offrire tutte le attenuanti che gli vengono dai rapporti di forza impari, dalle repressioni violente di cui è stato oggetto, dalle ingiustizie subite, è stato sicuramente determinato dalle proibitive condizioni storiche nelle quali si è trovato a doversi esprimere. Ma probabilmente è ancor più dipeso proprio dalle carenze dello spirito e della mentalità che lo hanno caratterizzato. Un fallimento dal quale si è invece sempre salvato il fascismo, la cui grandezza imperitura è palese.
L’adesione comune, al di là dalle zone geografiche, dalle classi, dal sesso e dalle età, al culto silenzioso di Mussolini ed al contempo la totale estraneità delle schegge destroradicali rispetto alla società civile attestano incontestabilmente sia la grandezza dell’originale che i limiti angusti della sua replica.
Il popolo ha il senso delle cose e non s’inganna mai.
Sicché dobbiamo dire che oggi il neofascismo è morto mentre il fascismo, perennemente in grado di estrarre dal suo vaso di pandora insospettabili risorse, è ancora vitale, quantomeno per la fertilità del suo seme.
In questo frangente storico, allorché le ideologie sono defunte o imbalsamate, ci troviamo in un periodo di incubazione anche convulsa nel quale si deve scegliere dove orientare il proprio sguardo.
Se si sceglie l’avvenire, cioè l’ottimismo, cioè la speranza, cioè la sfida esistenziale e dunque si rifiutano automaticamente le ghettizzazioni e le stampelle di cui sovrabbonda ogni sottocultura e qualsiasi parrocchia, bisogna giocoforza imparare dal passato in cui si ritrovano tutti gli insegnamenti necessari per una silenziosa e radicale mutazione tipologica, unica garanzia di padronanza del domani.
Il compito è particolarmente difficile perché coloro che rappresentano l’archetipo certo sul quale modellarsi, cioè i fascisti, furono innanzitutto figli della trincea e non di una presa di posizione ideologica: il che significa che in condizioni di palude esistenziale, per poter acquisire e metabolizzare le caratteristiche - antropologiche prima che ideologiche - che li contraddistinsero, si incontrano difficoltà sovrumane.
Ma non vi è alternativa: per fuoriuscire dallo stadio di narcotizzazione e di prostituzione nel quale langue la società contemporanea, va compiuta un’opera quasi alchemica di affermazione di sé che si realizza soltanto nell’annullamento tanto dell’egoismo quanto dell’ego, un’opera di chiaro stampo eroico e guerriero, nel segno del frugale realismo romano.
È nella sfida con se stessi che si trova la risposta al malessere contemporaneo. Una sfida per vincere la quale si deve innanzitutto armare lo spirito e forgiare il carattere. La disciplina interiore, l’intransigenza verso di sé e solo verso di sé, lo stile asciutto, essenziale e vigoroso, sono le premesse necessarie perché la volontà dapprima si imponga dominando le tante scomposte pulsioni viscerali che incontra sul suo cammino per quindi passare ad un altro stadio, assurgendo da quello della potenzialità ad un vero e proprio stadio dell’essere, producendo così la costante presenza a se stessi e la piena padronanza di sé.
Questo cammino non può assolutamente compiersi nello stravaccamento, nella sciatteria e nell’indisciplina, cioè nell’ état d’esprit sedizioso e presuntuoso che accompagna troppo spesso la risibile tracotanza di molti presunti ribelli postmoderni ma neppure nella gravosa seriosità di cui si agghindano i finti, gli artificiali, i costruiti di ogni risma; tutti coloro che, poiché non sono intimamente seri, s’illudono di divenirlo recitando, cioè prendendosi sul serio.
Né stupidità da gradassi, né nevrosi puritana da parvenus ma autenticità e gioiosa spontaneità nella più rigorosa, autoimposta disciplina: questo segreto si trova alla base di quel vigoroso mutamento radicale che il fascismo operò ed il cui senso esatto il neofascismo purtroppo captò solo a sprazzi.
Lo spirito giusto, che contrassegnò l’intero fascismo squadrista, interventista e repubblicano, è quello scanzonato di chi ha scalato le più alte vette ed ha esplorato le profondità più estreme con uno slancio che i superficiali e i prudenti definirebbero incosciente, così quasi per gioco, mantenendo in tutto ciò adamantina la consapevolezza tipica dei fanciulli e di quelli che la gente comune chiama pazzi, di coloro, cioè che i Greci consideravano i più vicini agli Dei: la consapevolezza che la vita, specie nei suoi risvolti più tragici, è un gioco e che dunque nulla esiste di più serio del gioco. Lo spirito di chi ha affrontato e dominato se stesso nei frangenti più ardui e perigliosi e, proprio per questo, ha la forza e la gioia di ridere di cuore di tutte le tragedie e di tutte le commedie.
Come del resto insegnano inequivocabilmente l’inno ed il credo del fascismo, il quale era indiscutibilmente irriverente ed iconoclasta nel suo quotidiano e terribile tendere alla trascendenza.
L’inno, spensierato nella combattività, non a caso si chiamava “Giovinezza” perché della gioventù che resiste gaia ed irridente sia alla gravità dei moralisti sia alle codificazioni sociali dei conformisti, il fascismo volle essere – e fu – la costante espressione.
In quanto al suo credo, ebbe a dire Mussolini che la filosofia del fascismo si riassume in tre parole scritte col proprio sangue sulle bende delle proprie ferite: “me ne frego!”
Il resto, tutto il resto, è secondario: quando si è fatto proprio questo spirito viene da sé, con tutta naturalezza.