Le opzioni sono poche: addormentarsi, lasciarsi prendere dalla vertigine del vuoto o cercare nel proprio gene, nella propria memoria, la capacità di procedere felicemente.
In epoca di bambagia, di smobilitazione, di noia e di assenza di valori vissuti, in un clima tiepido tiepido, probabilmente è così che si spiega la ricerca indefessa delle origini, che non solo i meno giovani ma anche i giovanissimi, compiono ogni giorno nei confronti del Ventennio, della Repubblica Sociale e di Benito Mussolini.
Calendari, agende, videocassette, memorie librarie imperniate su queste tematiche, sfondano i grafici delle vendite facendo felici editori, militanti e bottegai.
Un cinquantennio abbondante di antifascismo, che pure ha raggiunto punte di stile polpottiano, non è stato in grado di annullare questa sorta di incantesimo che lega gran parte degli italiani all’unico padre della patria che mai abbiano avuto, ad un’era certamente epica per la gioventù che nei giovani suscita un particolare richiamo.
Questo sentimento non può oggi definirsi nostalgico e differisce dal passato.
Nell’immediato dopoguerra l’ancoraggio a detti riferimenti fu più che altro un atto di fermezza e di amore della giustizia, la rivendicazione della dignità per i propri cari, caduti o reietti di una fedeltà senza premio. Si trasformò in nostalgia durante il boom consumistico, ma durante la contestazione studentesca esso fu invece l’effetto della riscoperta di valori ben più radicali di quanto non lo fossero quelli del marxismo-leninismo. Negli anni dell’omologazione tangentopolitana si ridusse infine ad un rifugio, ad una nicchia per pochi eletti, chiusi in se stessi.
Oggi per i giovani e per i semplici è si un atto di amore ma non più compiuto per una scelta polemica: più consono alla specificità mussoliniana, esso si rivela un insegnamento vissuto, un riferimento etico e di pensiero su cui fare perno nel cammino altrimenti confuso di tutti i giorni.
Senza fronzoli, senza pennacchi, con sobrietà, completamente metabolizzato e liberato dagli infantilismi settari di un recente passato.
Il che va compreso se si vuol dare il suo significato, la sua piena valenza politica, ad una tendenza memorialistica che non sa di museo né di revanscismo bensì di più autentica affermazione del sensato, del coerente, del normale, dunque dell’autenticamente alternativo.
Queste riflessioni, probabilmente già sul punto di prendere forma, mi si sono espresse ben chiare alla lettura del libro edito dal Settimo Sigillo “La Decima flottiglia Mas e la Venezia Giulia, 1943-45” scritto da Sole De Felice.
L’opera è il frutto della tesi di laurea in Scienze Politiche dell’Autrice, allieva dell’omonimo e ben noto professor Renzo.
Ottima tecnicamente essa scorre piacevolmente, come comprovano le numerose vendite ed i riconoscimenti ottenuti dalla stessa Marina Militare.
Questo saggio esauriente e particolarmente documentato ripercorre le gesta della X fino all’estremo sacrificio in terra giuliana.
Quel che più si nota è l’assoluta sobrietà della prosa, la totale assenza di retorica, ma, soprattutto, la mancanza di qualsiasi tentazione per scelte di campo ideologiche o di parte (come ad esempio la nota polemica tra X e Brigate Nere).
Vi è un’ingenuità genuina da parte di Sole nel tenersi spontaneamente lontana da questa diatribe che pur hanno contraddistinto e contraddistinguono tuttora le riunioni reducistiche che a volte si avviliscono in frammentazioni, e che hanno accompagnato l’intero neo-fascismo da Salò al dopo-Fiuggi.
E’ pur vero che queste diatribe non sono prive di connotazioni valevoli che tengono conto sia del comportamento di fronte ai diversi nemici, sia delle scelte di campo operate nel dopoguerra, motivazioni che, personalmente, mi hanno da sempre fatto privilegiare le Brigate Nere; ma restano, comunque, polemiche sterili, da neo-fascisti, da prigionieri del dettaglio e dell’irrilevante, in quanto estromessi dal reale cui non si aderisce se non sotto veste di attivisti o di vittime sacrificali.
Ricordo un marmocchio biondo che giocava a piedi scalzi nel cortile oltre vent’anni fa, quando il sottoscritto doveva vedersela non solo contro avversari politici e mestatori di loggia ma con un ambiente conformista che non accettava che noi si fosse non più un’espressione neo-fascista ma la prima esperienza protorivulozionaria che dal fascismo traeva ispirazione.
Ebbene, il sottoscritto ha attraversato innumerevoli peripezie mentre quell’esperienza protorivoluzionaria (Terza Posizione) si è conclusa drasticamente, per la repressione, ma si sarebbe comunque esaurita, fisiologicamente.
Quel marmocchio biondo è intanto cresciuto in un mondo normale ed in un clima naturale, laddove la sacralità non ha bisogno di involversi in ritualismi eccentrici né la religiosità di delimitarsi in setta.
Laddove la radicalità non ha bisogno di autoesaltarsi in misticismi che possono portare al delirio e laddove le certezze non necessitano di affermazioni categoriche ed assolutistiche per impregnare di sé l’esistenza e per farsi naturalmente esempio.
Quel biondo marmocchio è divenuto il giovane autore, o meglio la giovane autrice, di un saggio dalla portata notevole che ci permette di apprezzare, stimare, amare i Teseo Tesei, gli Junio Valerio Borghese, le migliaia di volontari del meraviglioso autunno italico, con quella sobrietà che da tempo si andava cercando.
Un autore giovane, nemmeno trentenne, è riuscito a riportare il ricordo nell’attualità contribuendo non poco a quella rettifica dell’approccio alla storia che da più parti si richiede con forza.
Un contributo all’innovazione nella normalità, a quella traslazione del passato nell’avvenire che permette di compiere l’atto più forte perché più naturale: quello della rivoluzione spontanea, silente, inesorabile.