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Perché si ottenga questo risultato, con il Centro Studi Polaris già da tempo abbiamo fornito non
poche soluzioni perché ci si appropri dello strumento anziché esserne ipnotizzati e annientati
(www.centrostudipolaris.org).
La constatazione dell’attuale – e, ci auguriamo, momentaneo – slittamento esi-stenziale e mentale
nel regno dell’epidermico, del superfciale, del fast mood, dell’eritema, dell’esibizionismo a
sveltina, è comunque d’uopo quale premessa se si vuole fare qualcos’altro che non esprimersi per
eruzioni cutanee e se s’intende almeno provare a incidere sui propri destini.
Se non si acquisisce questa consapevolezza e, sia pur cullando un’illusione antagonistica, ci si
lascia invece andare al modo d’essere, di vivere e di pensare pruriginoso del momento, non si può
concludere assolutamente nulla perché, come approfondiremo più avanti, quella che prevale
ovunque, non solo nella sfera sessuale, oggi è la cultura trans-gender.
Predomina l’individualismo estemporaneo: la pretesa da parte di ogni atomo prov-visto di un nome
e cognome (talvolta di un semplice nickname) e di una qualche seppur confusa funzione biologica,
di diventare qualsiasi cosa, anche e soprattutto quel che non è. Chi mai ha agito si arroga il diritto
di giudicare chi agisce, di sputare sentenze sulla base di convinzioni che crede sue ma che ha
semplicemente mutuato e infne di compiere qualunque scelta dettata da capricci, desii, brame
dalla durata imprecisata, subito pronto ad abbracciare l’opposto di quello che aveva esaltato fno a
un attimo prima e con toni altrettanto scomposti.
L’individuo ormai ridotto alla memoria e alla portata mentale di una mosca, irascibile,
insoddisfatto, irrequieto, cerca una via d’uscita comportandosi come un mutante in ogni campo
del quotidiano.
Ed è quindi sempre un trans-gender.
La “teoria del genere” che nega di fatto l’identità sessuale, ultimo retaggio d’identità in un mondo
in cui sono state già negate quelle biologiche, storiche, culturali e comunitarie, sostiene che non si
è maschi o femmine, di tendenze omosessuali o mutati in transessuali, bensì che ogni giorno uno
può scegliere di trasformarsi in una cosa sessualmente nuova: identità passeggere e di consumo.
A ben riflettere anche nelle espressioni politiche ci troviamo appieno nello stesso schema: si può
essere a intermittenza sessisti e antisessisti, razzisti e buonisti, fautori dell’ordine repressivo e
libertari, uomini di parte e libri aperti da scrivere a piacimento, secessionisti e nazionalisti, fascisti
e frequentatori dei soviet antifascisti, antiparlamentari e portaborse, legalitari e delinquenti,
antisemiti e sionisti, religiosi e atei, arrivisti e moralisti. Lo richiede la cultura del tempo, lo
domanda l’ipnosi quotidiana, lo impone il linguaggio di oggi. Tutto è possibile senza che sia
richiesta alcuna verifca o che venga realizzato alcun approfondimento né assicurato alcun
radicamento nel proprio passato. Questo semmai è relegato all’estetica che spesso oggi, in
impressionante controtendenza rispetto alla nostra storia, è pure di un brutto sconsolante. Anche
in questo campo, poi, ovvero nell’identifcazione affidata ai simboli sulle magliette e ai logoi nei
blog, sull’insieme comunitario prevalgono la frammentazione, la tribalizzazione, l’atomizzazione,
perché parliamo pur sempre di un ambiente imploso come il resto del mondo.
Un ambiente di fascio consumatori, di fascio lamentosi, di fascio presuntuosi e di fascio bar con
alcuni concetti confccati nelle zucche senza che ci si sia peritato di soppesarli o di radiografarli.
Un piccolo mondo d’individui ammaestrati ai tempi e ai modi del Grande Fratello, alla ricerca
spasmodica del successo immediato, chiassoso, effimero, fondato sulle sabbie mobili e che deve
arridere andando frettolosamente incontro alle cosiddette leggi di mercato: ovvero alla presunta

domanda della massa. Così si deambula famelici, senza fare fatica, senza offrire prospettive a
medio o a lungo raggio, senza alcun’opera su se stessi o sul proprio pensiero.
Proprio? Pensiero?
Ma dai!


Se dagli anni Venti agli anni Settanta dagli ambienti delle rivoluzioni nazionali emersero le
avanguardie politiche, culturali, artistiche e persino intellettuali non solo dell’Occidente ma di
mezzo mondo, non fu certo per caso. Esse non detenevano ovviamente l’esclusiva delle
avanguardie perché ce ne furono altre di ideali e di orientamenti diversi, ma di sicuro le nostre
furono di alto livello, di grande valore, di forte capacità innovativa e persino nelle analisi
anticiparono di molto i tempi e lo fecero più di chiunque altro.
Da quasi quattro decenni in qua, invece, i residui di quel mondo ricorrono alle stampelle fornite
loro dalle generazioni precedenti senza riuscire quasi mai ad innovarne e ad attualizzarne il
pensiero al quale tolgono piuttosto ogni elemento vitale per sostituirlo con i lasciti mortiferi di altre
tradizioni politiche, di stampo reazionario, famose per la loro capacità incapacitante. Questo
accade perché così non si fa fatica: aggrappandosi a stereotipi d’inerzia si passa dalla culla alla
tomba senza essere stati artefci di qualcosa né aver messo in campo un’alternativa.
Si borbotta, si ringhia, ci si rifugia in dogmi, si ulula inaciditi, inaspriti perché insoddisfatti di sé e
della vita, ma non ci si mette quasi mai in gioco.
Se le generazioni precedenti si erano comportate in tutt’altra maniera e avevano offerto tante
illuminazioni, tante scintille e tanti orientamenti positivi e vitali, un motivo ci sarà pure stato.
Anzi più d’uno.
Alcuni di questi dipendono dalle condizioni oggettive: una società non ancora atomizzata, una
vitalità quotidiana piena, un assai minore condizionamento esistenziale, la fsicità dei rapporti e
dei conflitti.
In altre parole non si era ancora entrati nella dimensione degli zombies, dei vampiri, e dei campi di
concentramento all’aperto con cui dobbiamo fare oggi i conti.
Ben poco si può fare per colmare questo gap oggettivo, ma già la presa di coscienza della nostra
distanza dalla vita reale sarebbe un ottimo punto di partenza per ricominciare a pensare e per
smetterla di essere pensati.
Una volta compiuto con un grande sforzo di volontà questo arduo passaggio, dobbiamo capire
perché quelle generazioni erano al tempo stesso geniali e attive e vedere di correggere tutto quel
che a noi manca per riannodarci a quella tradizione.
L’educazione, l’istruzione, la cultura e lo stesso senso comune imponevano a quei tempi di
verifcare, di soppesare, di approfondire quel che si proponeva. Un pensiero politico non può
esaurirsi nel tentativo d’imporre un postulato: è valido solo se lo accompagna una seria verifca
che si ottiene confrontando dati ed elementi utili soprattutto per aggiornarne la formulazione. Non
è, poi, un selfie: non deve andar bene per oggi e al massimo per domani, ma spaziare nel tempo,
a ritroso e in avanti.
Solo in questo caso si può parlare di pensiero politico.
Infne, o meglio in principio, esso dev’essere rivolto non solo ai contemporanei ma ai discendenti e
deve corrispondere alla storia, al gene, ai principi, all’ethos degli antenati e rispettarne le linee, le
scelte, le vie maestre.
Altrimenti non è radicato e men che meno identitario.
Per giunta è un assoluto nulla se non è animato da volontà di potenza e se non diventa prassi.
Va aggiunto che tutti gli uomini che dettavano la linea un tempo erano organici a un movimento, o
a un partito-movimento, coinvolti in ogni suo aspetto militante, dagli scontri in piazza fno al
martirio davanti ai plotoni d’esecuzione. Non si potevano defnire, come si suol fare oggi, ideologi,
un termine orribile e a dir poco inconciliabile con il portato ideale di un pensiero che è azione;
ragion per cui neppure è corretto liquidarli come intellettuali.
I teorici conferenzieri, partoriti su di una scrivania o su un divano ma non certo dalla lotta,
portatori parolai di soluzioni defnitive, miracolose e apocalittiche apprese a pappagallo da letture
sensazionalistiche o da studi accademici, sono apparsi abbastanza di recente e forniscono uno dei
più chiari ed evidenti segni del nulla che avanza impietoso e presupponente a mascherare il vuoto
e il disorientamento.
Sono stato forse eccessivamente sintetico nell’assunto, ma credo che possiate rendervi conto del
perché e del come si sia passati da quasi sette decenni di avanguardia a circa quattro di cortile.
Se vogliamo cambiare registro – e io penso che almeno una minoranza qualifcata voglia farlo –

allora dobbiamo saldare la spada spezzata e ripartire da quanto le generazioni precedenti avevano
anticipato e che, tutt’oggi, si trova ancora qualche passo avanti rispetto all’attualità.
Se avanti si trovava abbondantemente nelle analisi, cosa ormai oggettivamente comprovata e
condivisa, doveva esserlo obbligatoriamente anche nella sintesi e nella proposta dalle quali
dobbiamo ripartire assolutamente.
La sintesi e la proposta si chiamavano appunto Europa Nazione.

 

L’EUROPA COME NECESSITÀ


Già negli anni Venti si cominciò a ragionare in dimensione europea.
La Grande Guerra e la Rivoluzione bolscevica avevano fatto comprendere che la Vecchia Europa,
centro del mondo, era minacciata di decadenza, di emarginazione e forse di estinzione. Lo era
dalle rivoluzioni comuniste, dalla fnanza cosmopolita e dalla Società delle Nazioni.
Fino alla crisi che avrebbe originato la Seconda Guerra Mondiale, il recupero della centralità
europea era stato immaginato come consequenziale alla ripresa della propria potenza nazionale
da parte sia dell’Italia, sia della Francia, sia della Germania. Man mano però subentrò una logica
universale che se da un lato era favorevole alla decolonizzazione o, comunque, alle emancipazioni
nazionali nel Terzo Mondo, dall’altro, si accorgeva della necessità che l’Europa diventasse un
blocco compatto di potenza a difesa della sua civiltà e del suo ruolo nel mondo, dove America e
Asia si apprestavano ad irrompere da padrone.
Oggi si parla solo di un aspetto dell’europeismo, quello federale degli antifascisti di Ventotene che
rima con l’universalismo massonico parigino e mitteleuropeo, ma l’idea di Europa apparteneva
soprattutto alle potenze dell’Asse e alle loro avanguardie politiche.
In Germania, per esempio, la resistenza a questa nuova suggestione che ogni giorno di più si
faceva strada tra i giovani, era rappresentata dall’esercito, la Wehrmacht, mentre l’idea di
un’armata volontaria europea era maturata nelle formazioni giovanili, propugnata proprio dalla
Hitlerjugend e venne presto accolta dall’arma nazionalsocialista per antonomasia, la Kriegsmarine,
che aprì l’arruolamento ai non tedeschi. Di lì si procedé per l’istituzione delle Waffen SS europee
che, per inciso, furono gli ultimi difensori di Berlino.
Quest’idea aveva preso talmente piede in un partito nato sciovinista e pangermanico che il
Cancelliere Adolf Hitler, nel tracciare l’ordine postbellico, aveva deciso che avrebbe addirittura
ribattezzato la capitale tedesca con il nome, appunto, di Europa.
In Italia la Rsi espresse la sua vocazione europeista, forse un tantino meno spiccata che in
Germania o altrove a causa del fatto che il nostro spazio vitale era parzialmente in Africa e anche
perché quell’idea fondante dell’Europa, a differenza di quella della Ue, non piaceva al Vaticano
cosmopolita che rivestiva da noi una grande influenza sotterranea e che si opponeva
accanitamente alla Mistica fascista e a tutto quello che l’unità europea sottendeva di pagano, di
vitalista e di apertura della mente alla ricerca di un comun denominatore che non avrebbe potuto
dominare, quantomeno in toto.
Negli altri Paesi la crociata antibolscevica - e anticapitalista - non fu affatto l’unica motivazione per
l’adesione armata all’Asse di decine e decine di migliaia di volontari, lo fu altrettanto la
convinzione che si era a un crocevia: la salvezza e il dominio dell’Europa o il rischio del suo
defnitivo tramonto.
Ci rende come nessun altro l’idea di questa ferma convinzione Pierre Drieu La Rochelle, il grande
autore francese di stirpe normanna, collaborazionista irrituale e di carattere straordinariamente
indipendente che si sarebbe dato volontariamente la morte per non sopravvivere all’impresa
spezzata.


Noi siamo uomini d’oggi.
Siamo soli.
Non abbiamo più dei.
Non abbiamo più idee.
Non crediamo né a Gesù Cristo né a Marx.
Bisogna che immediatamente,
subito,
in questo stesso attimo,
costruiamo la torre
della nostra disperazione e del nostro orgoglio.
Con il sudore ed il sangue di tutte le classi
dobbiamo costruire una patria
come non si è mai vista;
compatta come un blocco d’acciaio,
come una calamita.
Tutta la limatura d’Europa vi si aggregherà,

per amore o per forza.
E allora davanti al blocco della nostra Europa,
l’Asia, l’America e l’Africa
diventeranno polvere.


Nell’immediato dopoguerra il binomio tra il fascismo in qualsiasi forma e l’Europa fu assoluto così
come lo fu la considerazione che la guerra mondiale era stata vinta dalle masse continentali più
scalmanate e informi mentre era stata persa dall’Europa nel suo insieme.
Lo capirono anche degli intellettuali che avevano operato ben altra scelta durante il conflitto,
come Curzio Malaparte.
L’ideale di Europa Nazione presso i meno nostalgici tra i vinti maturò come moto di riscossa.
Trovò addirittura un apripista nel collaborazionista belga Jean Thiriart, fondatore di Jeune Europe e
autore di L’Europa: un impero di quattrocento milioni di uomini.
Con metodologia leninista a modello mazziniano in quasi tutti i Paesi europei egli aprì sezioni di
quello che avrebbe voluto essere il partito-traino per l’unifcazione continentale.
Quel discorso fece presa un po’ ovunque e particolarmente in Italia che fornì quadri e militanti al
giovane partito e che fu talmente avvinta da quella prospettiva che più o meno tutti i circoli
universitari neofascisti assunsero il nome di Nuova Europa e adottarono la Croce Celtica che
dell’ideale europeo era considerata l’emblema.
Lo stesso Msi accolse appieno la suggestione che espresse nella formula “Europa Nazione delle
Patrie” e coniò il più bello ed esaustivo motto del dopoguerra “Fascismo, Europa, Rivoluzione”.
Talvolta, per aggirare le sanzioni legali, lo trasformò in “Italia, Europa, Rivoluzione” volendo
comunque intendere esattamente quello.
Avanguardie per avanguardie, nella Francia sciovinista coloro che avrebbero fondato il Grece –
conosciuto anche come Nouvelle Droite – in evidente rottura con i patriottardi e persino con i
maurrassiani dell’Action Française propugnarono l’idea-forza di Europa.
Un’Europa delle regioni, secondo la carta delle Waffen SS che non furono così estranee alla
dettatura della linea, così come non lo fu il grande saggista, giornalista e idealista Giorgio Locchi.
Il più solido ed elevato prodotto del Grece, l’organizzazione scoutistica che forma i suoi ragazzi da
oltre quarant’anni, si chiama non a caso Europe Jeunesse.


Europa come necessità, dicevamo.
Quello che intesero tutte le avanguardie nazionalrivoluzionarie, nessuna esclusa, almeno dal 1952
(frma del Trattato Atlantico) fno al 1989 (caduta del Muro di Berlino) era abbastanza chiaro.
Ricapitoliamolo.
1) I conflitti mondiali sono serviti a sconfggere, a dividere e ad assoggettare l’Europa e hanno
proiettato al dominio dello scenario mondiale due continenti diversi dal nostro e suoi nemici:
l’America impersonata dagli Usa e l’Asia dall’Urss (la Russia sovietica).

2) Il mondo mercantile, colonialista, economicista, è suddiviso in settori d’influenza da due rivali-
complici: Usa e Urss che con gli accordi di Yalta banchettano sui nostri resti.

3) L’Europa spartita e asservita è minacciata anche spiritualmente, culturalmente e
biologicamente.
Non è più possibile nell’era atomica e agli albori dell’era satellitare essere indipendenti e assumere
un ruolo storico se non si acquisisce potenza continentale.
4) L’Europa Nazione rappresenta la sola possibilità d’incrinare il duopolio di Yalta e, se si dota di
strumenti di potenza e di deterrente nucleare, potrà rinascere e svolgere di nuovo un ruolo da
protagonista nella storia mondiale.


Da notare, in questo senso, la posizione del Msi non a caso a favore del nucleare militare e la sua
opposizione ai trattati di non proliferazione degli ordigni. “No al diktat atomico” fu una delle sue
battaglie più interessanti e particolarmente invisa agli americani.
Questa prospettiva mitica e di destino dettava anche delle scelte politiche molto sagge che
sembrano del tutto dimenticate. L’anticomunismo non era considerato sufficiente perché favoriva
il capitalismo liberale; l’anticapitalismo non era considerato sufficiente perché favoriva il
comunismo; l’uno come l’altro aiutavano un blocco antieuropeo: bisognava essere al tempo stesso
anticomunisti e anticapitalisti.
Oggi con quell’immaginario di rigurgito che si è appropriato di un ambiente imploso tocca
ascoltare di quelle baggianate! Si sente addirittura rivalutare il comunismo in chiave

anticapitalista! Il che è totalmente privo di senso sia dal punto di vista strutturale (il vero
capitalismo e il mondialismo sono prettamente comunisti) sia da quello storico-politico. E, peggio,
viene sconsiderata, dimenticata o svalutata tutta l’alacre e fertile esperienza neofascista, liquidata
stolidamente e sconsideratamente come atlantista.
Chi accusa l’estrema destra del passato di non aver rotto i ponti con l’occidentalismo per fare
invece l’occhiolino ai soviet, non solo è preda di una credenza distorta e di un complesso
d’inferiorità nei confronti della sinistra ma non riesce più a pensare in prospettiva di autonomia e
di libertà, come era invece il caso un tempo. Allora si ragionava, si pulsava, si combatteva, per
essere protagonisti e non per scegliersi un padrone da servire.
Si voleva, seriamente si voleva, fare l’Europa come Terzo soggetto, come centro di resistenza, di
potenza e di rinascita.
Quell’Europa che si vedeva minacciata nella sua cultura, nelle sue tradizioni e nel suo dna, che si
prevedeva invasa e sottomessa e che s’intendeva affermare al fne d’impedirlo, per rovesciare i
rapporti di forza e cambiare radicalmente le cose.
L’Europa era una necessità storica e biologica: lo avevano capito agli inizi degli anni Quaranta i più
avveduti nazionalrivoluzionari; vent’anni dopo lo compresero tutti in quel flone storico-ideale e
militante.
L’Europa Nazione, una necessità assoluta, imprescindibile già cinquant’anni fa, vista lucidamente
come tale già allora quando ci si poteva ancora illudere di combinare qualcosa propugnando una
media potenza nazionale.

L’EUROPA COME IDENTITÀ


Le Termopili.
L’atto di nascita della coscienza europea venne fssato all’eroico sacrifcio di Leonida e dei trecento
spartiati, accompagnati peraltro da mille e più volontari greci di cui purtroppo ci si dimentica
sistematicamente.
Di fronte era schierato un esercito sterminato di genti diverse con un rapporto di forze che la
leggenda dice di uno a mille ma che per la storia era quantomeno di uno a duecento. Quei bravi
tennero il passo fno a che non vennero aggirati per tradimento. Che potessero fare altro che non
sacrifcarsi per far guadagnare qualche ora ai greci per organizzare la difesa della pur storica rivale
Atene era fuor di discussione: andavano incontro alla morte certa.
I persiani offrirono loro salva la vita e la libertà di andarsene se solo avessero ceduto le armi.
“Venitele a prendere!” Aveva risposto laconicamente il re spartiata. Parole immortalate che
troneggiano scolpite accanto alla sua statua d’oplite nel luogo dell’estremo sacrifcio.
“Scaglieremo così tante frecce da oscurare il sole” aveva ammonito Serse.
“Meglio, così combatteremo all’ombra” era stata la risposta del re lacedemone. Memorabile
quanto quella che aveva dato all’emissario del sovrano di Persia quando, a Sparta, aveva cercato
di accattivarselo offrendogli il controllo su tutta la Grecia da parte del Re dei re ma, nel caso
avesse rifutato, gli aveva dettagliato cosa ne sarebbe stato della sua città e del suo popolo,
completamente spazzati dalla faccia della terra, se i persiani avessero vinto.
“Se” – aveva risposto Leonida.
Quel momento, datato 480 anni prima dell’inizio dell’era volgare, segnava la na-scita delle
coscienza europea. Perché si opponeva all’invasione massiccia dall’Asia di un melting pot ante
litteram; perché esprimeva un coraggio non solo guerriero ma signorile, da parte di chi è signore e
muore per non essere schiavo; perché infne tutto questo non avveniva per imposizione o per caso
o perché fosse un fatto ineluttabile ma era una libera scelta, assunta consapevolmente.
Questa era l’Europa e in questo si differenziava dal resto del mondo.
Dalle Termopili in poi si cercò d’individuare gli eventi storici che espressero la co-scienza europea
o, quantomeno, la coscienza degli europei: Poitiers, Lepanto, Vienna, Berlino.
La difesa epica del Bunker fno al 2 maggio inoltrato fu concepita dai più come la nuova Battaglia
delle Termopili e vi fu persino un noto sceneggiatore di fumetti per ragazzi che lo pretese
chiaramente.
Alla necessità di formare l’Europa, quel blocco compatto invocato da La Rochelle, si sommava
l’idea dell’identità e, pertanto, la ricerca del comun denominatore, appunto di quell’identità
comune che univa tra loro popoli e clan storicamente rivali.
Lo si ravvisava, il denominatore comune, anche nello spirito espresso in queste rivalità.
Quale?
Come ha giustamente rilevato Jean Mabire in Drieu et le tempérament cotentinais, gli uomini del
Nord posseggono un innato senso di libertà ma sono anche e soprattutto uomini d’azione e sono
quindi disposti a disciplinarsi per adempiere al dovere che hanno scelto. Lontani dalla tirannia e
dalla massifcazione.
Uomini del Nord si diceva? Un forire di studi paleo-antropologici, di rilevamenti storici e preistorici,
lo studio comparato delle lingue, attestano che il tipo indoeuropeo ha un’origine situata a Nord
(sede iperborea) che precede lo scioglimento dei ghiacci e che, nella sua calata a Sud (tramite
Thule), ha incontrato altre popolazioni alle quali si è imposto.
Dori, Achei, Illiri, Latini e Germani provengono da un ceppo comune dal quale si sono differenziati
nei secoli ma senza perdere il proprio dna.
In diversi linguisti fecero notare che la parola Ari, con la quale gli indoeuropei chiamavano se
stessi, signifcava sia chiari, luminosi, che signori, signori di sé. Herr è una forma della parola ario,
gli uomini liberi presso i germani si chiamavano Arimanni. Il concetto era però comune ai diversi
rami indoeuropei. Fu proprio su questa duplice logica di libertà e di disciplina che nacquero le
Poleis troppo sommariamente liquidate come il luogo di nascita della democrazia – che comunque
vi nacque – quando furono piuttosto esempi di una partecipazione che in molti casi non intaccava
la libertà e l’autorità.
Non fu per caso se a Sparta i re erano due e rispondevano al consesso dei guerrieri, né se a Roma
la Res Publica si dotò di due consoli.
L’idea di sudditanza era estranea agli indoeuropei che si disciplinavano volontariamente. L’idea

della tirannia irrazionale, fondata sul timore quando non addirittura sul terrore di enti metafsici
che dettano la legge che va eseguita per evitare orrende punizioni, era per loro aliena e
inaccettabile.
Quando Giulio Cesare tentò di fare di Roma il centro dell’Impero, le genti dell’est reclamavano la
divinizzazione dell’Imperatore e quelle europee, in particolare la romana, la rifutavano.
Ci volle la grandezza incommensurabile di Ottaviano Augusto perché Roma riuscisse ad essere al
contempo la Polis consolare degli indoeuropei e il centro divinizzato per le genti d’Asia Minore.
Ciò avvenne, comunque, nelle mentalità tipica di quelli che oggi defniremmo occidentali e la
fusione tra unità e molteplicità fu contrassegnata dal Pantheon, emblema ineguagliato di pluralità
e di tolleranza.
La Lex Romana, la Pax Romana e i confni dell’Impero sacralizzarono gli spazi in cui si espresse la
nostra Civiltà.
La scissione intervenuta tra le sponde del Mediterraneo, la divisione dell’Impero tra Oriente e
Occidente e l’avvento delle religioni monoteistiche d’Asia Minore produssero un collasso dal quale
si riemerse solo più tardi con il Sacro Romano Impero.
A lungo si è disquisito su quali siano state le ragioni della riscossa spirituale e culturale che si
condensò nel monachesimo, nel feudalesimo e soprattutto nell’Ideale della Cavalleria.
Non sta a noi defnire quanto sia dipeso dal paganesimo e dal germanesimo saldatosi con quel che
restava della tradizione dei Padri. L’importante è il corpus che si è andato realizzando, nel quale
anche la Monarchia, a differenza ad esempio della Russia zarista, venne intesa come un bene
comune, tanto che la stessa idea di Monarchia popolare che si realizzò nell’Era Moderna (1492-
1789) riprese in parte le funzioni tribunizie che Augusto aveva esaltato nell’idea imperiale del
Princeps.
Nell’apogeo del dominio europeo (XVII – XIX secolo) tutte le caratteristiche al contempo
individualistiche e comunitarie, particolariste e unitarie, si manifestarono nella loro pienezza
mentre venne espresso uno Stile di vita aristocratico, contrassegnato da una nobiltà che molto
spesso si faceva strada da sola, non necessariamente per rango acquisito.
Aggiungo un dato sul quale ben poco si è riflettuto e che segna il passaggio dall’Età classica,
dall’Impero Romano, alla nuova miscela protesa alla sintesi.
Quando nel 476 (1.229 ab Urbe Condita) cadde l’Impero Romano di Occidente, Romolo Augustolo
fu deposto, almeno così sappiamo noi, da Odoacre re degli Eruli.
Il fatto è che Odowakhr non è come si crede comunemente un nome proprio bensì l’appellativo
che viene dato a colui che ricopre la funzione di Gran Maestro delle Rune. Gli Eruli poi sono i
custodi della sapienza runica alfabeticamente conosciuta appunto come Erilaz.
Non si può che concludere che ci troviamo in presenza di un momento che riveste signifcati
eccezionali e profondi: la trasmissione sottile in senso ancestrale: storico, preisitorico e
metastorico al tempo stesso. Da questa trasmissione romano-germanica – o dal riconoscimento
della medesima radice – nascerà la primavera ghibellina e ne scaturiranno in seguito le migliori
espressioni della storia europea.
Qualsiasi cosa ci si prospetti per il futuro ignorare questo legame sarebbe delinquenziale.


Cosa contrassegna l’unità fondamentale nella molteplicità europea? Come la si riconosce e come
la si stabilisce?
Da un lato abbiamo gli studiosi che si occuparono della ricerca delle radici. Costoro non si
limitarono a documentare i legami linguistici ma rintracciarono le tracce delle migrazioni dal Nord,
individuando diversi elementi oggettivi che comprovavano gli itinerari dei nostri antenati, tra
questi la betulla, l’ambra e il maiale. Le ascendenze biologiche vennero distinte da quelle di altre
etnie documentando le nostre dagli uomini di Aurignac e di Cromagnon.
Dopo il secondo conflitto mondiale tutte queste ricerche sono state negate e confutate
istituzionalmente per decisione ideologica, tuttavia basta seguire sulla stessa Repubblica le
evoluzioni in corso degli studi paleontologici per comprendere che sono fondatissime.
Questo insieme biologico/linguistico in sé non rappresenta, però, altro che un aspetto materiale
dell’identità, che potrebbe scadere nel positivismo materialista e con ciò non renderebbe
sufficientemente l’idea della specifcità europea, riducendola a un semplice fattore zoologico.
Le caratteristiche che ne fanno un’identità completa sono di altro tipo. Stanno nella mentalità che
abbiamo più su defnito: quella degli uomini liberi che si danno la disciplina, che sfuggono la
promiscuità e la sudditanza, che non si piegano a leggi basate sul terrore.
Più ancora degli studi materialistici, a comprovare l’identità indoeuropea nelle sue diverse

articolazioni sono le saghe, le fabe, le tradizioni orali. Che l’Iliade sia veramente il ricordo traslato
di un’epopea sul Baltico è possibile e, se fosse un fatto reale, chiarirebbe perfettamente quella
continuità di un’identità intimamente sentita che va oltre gli spazi e i vincoli temporali.
Non vi è però identità senza che intercorra limite e senza che vi sia separazione.
Cosa consentì agli indoeuropei di realizzare quella sintesi tra libertà e disciplina, tra Polis e
Imperium? L’assialità, la virilità spirituale. Quel che è contrassegnato dallo scettro, dall’ascia, dalla
spada, dalla lancia e dal fascio che per i nostri antenati era sinonimo del membro maschile.
Fascino indica letteralmente la seduzione emessa dalla virilità.
L’aspetto guerriero, virile, patriarcale, l’asse stesso che, interno prima che esterno, forniva l’anima
dell’Imperium, si scontrarono con il polo della promiscuità, dell’informità che Frithjof Schuon
identifcò nel culto meridionale della Grande Madre. Julius Evola andò oltre in questo percorso
d’identifcazione. Nondimeno fecero decine e decine di pensatori e la stessa Scuola di Mistica
Fascista che stabilì che lo scontro era tra due poli, impersonato l’uno da Roma e l’altro da
Cartagine, appunto il virile e l’antivirile. La Scuola non si fermò lì dichiarando anche che si
trattasse dello scontro tra l’Ariete e il Toro, tra Roma e Gerusalemme.
Fatto sta che la tendenza all’informità, alla promiscuità, all’annichilimento, alla sudditanza, allo
stato frenetico e tellurico, fu combattuta e vinta per secoli e fu questo il principale aspetto che
contraddistinse la civiltà europea, così come lo era stato la specifcità così unica del rifuto dei
sacrifci umani presenti praticamente in tutte le altre culture.


Questa polarità spirituale permane inalterata, sicché l’assalto all’Europa, al suo spirito, al suo
essere, quello che non a caso oggi si esprime nella teoria del genere che esalta l’informità, la
promiscuità, l’indisciplina esistenziale, non è che l’ultimo stadio di una lunga Sovversione
antivirile, antipatriarcale, antistatale, lanciata nel dopoguerra e accompagnata, in modo
consapevolmente provocatorio, dal simbolo hippie che altro non è se non l’Albero della Vita
volutamente rovesciato.
Di tutto questo bisogna essere consci. Negli ultimi decenni si ha l’impressione che ogni elemento
fondante e caratteriale sia stato rimosso. Un ambiente che in passato aveva avuto il torto di non
dedicarsi agli aspetti economici che considerava di ordine inferiore rispetto a quelli spirituali,
esistenziali e guerrieri, oggi ha rovesciato tutto. Si è fossilizzato su teorie economiche, non sempre
corrette e spesso digerite alla rinfusa, e si è impegnato esclusivamente sul terreno sociale,
stranamente dimentico che quest’ultimo non può essere sufficiente, visto che la partecipazione
agli utili è stata inglobata nelle grandi multinazionali e che il capitalismo sociale renano sempre
capitalismo è.
Limitandosi a rivendicazioni socioeconomiche, quelli che dovrebbero essere gli eredi di una linea
nazionalrivoluzionaria, hanno smarrito il senso del Nemico.
Quando accusano i politici di essere i portaborse dei banchieri hanno ragione ma questo non
spiega che in parte la situazione. Cosa vogliono quelli che dirigono, a quale polo spirituale
rispondono, come sono mentalmente e moralmente programmati, è il vero problema: per ripartire
bisogna affrontarlo e risolverlo, girarvi intorno non serve che a perdere tempo e dignità.
Le battaglie riformiste e moraliste che vengono invece mosse, perlopiù sono sterili e spesso
impostate male.
Ad esempio tutta la questione dell’omofobia che oggi funge da grimaldello per l’avanzata della
“teoria del genere” viene sapientemente impostata dal potere sovversivo giocando sull’indole
libera, rispettosa e tollerante dell’indoeuropeo ed è per questo che fa breccia, perché nel profondo
c’è disgusto per le leggi discriminatore.
Quest’impresa corrosiva andrebbe contrastata sui criteri anziché mediante la richiesta di leggi
proibizioniste che attestano il disorientamento di chi dovrebbe invece riorientare.
L’attacco congiunto (culturale, spirituale, economico e biologico) all’Europa e a tutto quello che
essa rappresenta, non trova che resistenza settoriale, parziale, scomposta, spesso manipolata e
controproducente e comunque quasi mai cosciente.
Eppure sono in gioco sia la nostra sopravvivenza sia la nostra Civiltà, da non confondersi con la
Civilizzazione che è, quest’ultima, un’espressione specifca e storicamente limitata della Civiltà e
sta a quella da relativo ad assoluto esattamente come i valori stanno ai princìpi.
Provando a difendere stadi di civilizzazione che spesso sono putrescenti di loro non ci si
contrappone alla Sovversione bensì, come ha constatato perfno Guénon, la si coadiuva.
Oggi, più ancora di ieri, l’Europa – ovvero tutti noi – è minacciata di estinzione e la sua unità di
potenza è al tempo stesso necessità e identità.

Bisogna esserne consapevoli e battersi per strapparla alla dittatura sovversiva, matriarcale,
cosmopolita di cui è preda.

 

L’EUROPA ABBOZZATA


La caduta del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989 rappresentò il compimento di un auspicio.
L’Europa si liberava della sua barriera interna e la Germania poteva fnalmente riunifcarsi.
Il sogno cullato da quarantaquattro anni dai nazionalrivoluzionari di ogni nazione diventava realtà.
E lo divenne davvero, grazie anche al fallimento del mostro comunista, dovuto in parte alle
influenze ecclesiastiche, molto di più alla perdita di convinzione delle classi dirigenti sovietiche e
bolsceviche, parecchio infne alla politica economica del Cancelliere tedesco Helmut Kohl che
aveva investito l’est e che era diventato il principale fnanziatore di Gorbaciov.
A realizzare il sogno non era stata una rivoluzione popolare, che del resto era impensabile che
potesse riuscire stanti gli accordi di Yalta e, dunque, i sostegni reciproci tra russi e americani nei
loro specifci settori d’influenza. Erano stati uomini di grande capacità che si erano mossi
all’interno degli schemi post-bellici e che avevano capitalizzato al tempo stesso la loro fermezza
nella guerra fredda e la loro apertura economica e diplomatica oltre la Cortina di ferro.
Furono il Cancelliere della Germania Federale Helmut Kohl e il Presidente francese, François
Mitterrand, con il sostegno di altri uomini politici di rilievo, quali il nostro premier Bettino Craxi, a
compiere il miracolo.
Essi andarono oltre: proposero la nascita di un esercito europeo e di uno spazio economico con la
Russia. La storia sembrava aver ripreso il giusto cammino.
Ma la storia la fanno gli uomini, la fanno le necessità oggettive, la fanno i centri di potere.
Il cammino era difficile perché il processo intrapreso era oggettivamente l’unico che avesse un
senso ed era guidato da uomini con una grande consapevolezza. I centri di potere però erano
un’altra cosa e, soprattutto, gli uomini si cambiano.
Sicché coloro che dell’emancipazione europea erano abbastanza preoccupati, che volevano che
essa avvenisse solo parzialmente, lavorarono sulla scelta degli uomini che avrebbero rimpiazzato
coloro che li avevano sorpresi.
Emblematico è quello che sarebbe accaduto in Francia con la promozione di Sarkozy, cui non
furono estranei la Cia e il Mossad, promozione accompagnata da una serie di profferte oscene
quali la compartecipazione francese al narcosistema latinoamericano e l’avvento di relazioni
privilegiate tra la Borsa di Parigi e quella di New York.
Il rientro della Francia nella Nato, cosa di per sé irrilevante, ebbe la forza di un segnale.
Un segnale forte fu anche l’arresto in Usa di Dominique Strauss-Kahn, direttore dell’Fmi e
candidato all’Eliseo, per una trappola montata dai servizi americani. Si accingeva, costui, a
proporre al summit dell’Fmi l’introduzione dell’Euro come valuta internazionale di scambio.
Quando si parla dell’Euro molte e diverse sono le considerazioni che si fanno e ho scelto in questo
enunciato politico di lasciare a ciascuno l’incombenza di dirsi pro o contro.
Di sicuro va tenuto a mente che l’ipotesi concreta che esso rivaleggiasse con il Dollaro nelle
transazioni internazionali ha spinto gli americani ad attaccare in un modo o nell’altro diversi Paesi,
come l’Argentina, l’Iraq e la Libia; che l’ipotesi di spostare investimenti da New York a Francoforte
da parte dell’Arabia Saudita ha freddato i rapporti bilaterali con Washington.
La City poi gioca di rimessa speculativa a fanco dell’Eurozona. La proposta di Strauss-Kahn la
impensierì al punto che da allora fnanzia partiti euroscettici in giro per l’Europa.
Emblematico è anche il comportamento russo. Finché l’ipotesi di alleanza eurorussa fu concreta, il
Cremlino si dichiarò a sostegno dell’Euro. Proprio Strauss-Kahn fu scelto da Putin come uomo
simbolo per il South Stream, il pipeline rivale del Nabucco nella contesa energetica russo
americana per il controllo dell’Europa meridionale. Quando l’avanzata americana e il voltafaccia
francese sparigliarono le carte e la Russia si trovò costretta ad accettare la logica di una nuova
Yalta energetica e a cercare alleanze altrove (Cina, Israele, Arabia Saudita), quando, insomma,
anche per Mosca l’Europa divenne più un oggetto di contesa e di spartizione che non un alleato
potenziale, anche il Cremlino prese improvvisamente a sostenere gli euroscettici.
Queste considerazioni non sono sufficienti per prendere posizione sull’Euro, ma non tenerne conto
sarebbe delinquenziale.
Ovviamente non si può neppure fare l’opposto e accettare la politica della Ue solo su questa base.
Non è un mistero per nessuno che essa sia a volte fallimentare e altre volte deleteria.

Constatarlo non serve però a niente; bisogna agire e, per agire, bisogna sgombrare il campo da
postulati frettolosi non sempre fondati e quasi sempre imprecisi.
Prima di passare alle proposte che saranno di due nature diverse – soluzioni programmatiche e
interventi diretti – riassumiamo quel che a nostro avviso non va nella Ue, suddividendo anche
questo in due parti. Innanzitutto ricapitoleremo i luoghi comuni, i dogmi; quindi proveremo a
vedere quanto delle critiche sommarie che sono mosse contro di essi è fondato, quanto va invece
rimosso e quanto, infne, è necessario aggiungervi per ottenere una critica politica reale e mossa
all’efficacia.

L’EUROPA CHE NON CI ENTUSIASMA


Sommariamente le accuse alla Ue sono le seguenti: essere un prodotto americano; una creatura
massonica; rappresentare una tappa del processo mondialista; essere poco democratica se non
addirittura antidemocratica; trovarsi nelle mani dei banchieri; rimuovere le sovranità nazionali;
promuovere una politica antisociale; rappresentare uno strumento tedesco.
A queste accuse si assommano quelle alla Bce: indipendente dalla politica, al di sopra degli Stati
sovrani, portatrice di una politica economica che paralizza, usurpatrice del diritto di emettere
valuta.
Alcune di queste affermazioni sono vere ma raramente sono messe a fuoco come si dovrebbe per
trarne qualcos’altro che degli slogan facili ma incapacitanti, alcune sono invece imprecise,
qualcun’altra è addirittura infondata.
Vediamole una per una.


L’Unione europea è un prodotto americano
e serve gli interessi di Washington?


Niente affatto. Gli Usa controllano il processo europeo con sospetto e circospezione e
v’intervengono perlopiù per frenarlo e per condurlo in vicoli ciechi. Lo fanno con le speculazioni,
con il rating, con i diktat commerciali, con le ingerenze dirette. Il principale timore americano,
chiaramente espresso dai suoi principali politologi, è proprio l’emancipazione europea; il grosso
della strategia statunitense, che è stata ampiamente defnita da Brzezinski prima e da Cheney in
seguito e che viene perseguita pedissequamente, punta a tener debole l’Europa e ad allontanarla
dai suoi partner a sud e ad est.
L’era dei satelliti e delle aperture spaziali, l’era dei mercati estesi, ha reso oggettivamente
necessario l’accorpamento europeo. Su quest’accorpamento agiscono come controllori, come
contenitori e come devianti, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Ovviamente lo fanno anche tramite quelle
influenze dirette e indirette che possono esercitare nel complesso e contraddittorio corpus della
Ue.


La Ue è una creatura massonica?


Né più né meno di ogni altra. La Massoneria è ovunque, a cominciare dal Vaticano. Ma cos’è la
Massoneria? E’ necessario distinguere. Se parliamo di uno scontro spirituale, se ci riferiamo a
dimensioni metafsiche, tutto questo trascende le organiz-zazioni umane che ne sono strumenti,
consapevoli o inconsapevoli. Se ci caliamo a un piano più terreno allora dobbiamo tenere presenti
due affermazioni illuminanti, la prima è di Julius Evola che ci spiega che il sensazionalismo
massonico è il solo modo in cui la borghesia riesce ad avere una propria parodia sacrale; la
seconda è quella con cui il Maresciallo Pétain commentò la sua legge di scioglimento delle Logge.
“Non per ragioni religiose, ma perché la Massoneria è un’organizzazione mediante la quale i
mediocri, sostenendosi tra loro, fanno strada ai danni degli eccellenti e a detrimento della
Nazione”.
Va aggiunto un ulteriore elemento: la Massoneria è stata per oltre un secolo il Cavallo di Troia
britannico nel mondo, uno strumento di cui si dotarono anche i prussiani e soprattutto i francesi.
Poi è divenuto anche uno strumento americano.
In conclusione la Ue non è più massonica di quanto lo siano l’Italia, la Francia o il Vaticano. I conti
con le influenze di Loggia vanno fatti ovunque.
Se c’è una differenza, questa sta nel fatto che la Ue, troppo democratica e quindi troppo priva di
autorità, è preda dei compromessi e ricorre a scorciatoie decisioniste svincolate ed è per questo
che è più agevole che uomini mediocri, appartenenti a organizzazioni lobbistiche (massoniche o
non massoniche) assumano influenze eccessive. A metà del guado sguazzano i piranha.


La Ue è una tappa del processo mondialista?

Sì assolutamente e no assolutamente. Qui va fatta chiarezza superando l’emiplegia ideologica e
concettuale destra/sinistra che si ripercuote ovunque con le rispettive liquidazioni sommarie che,
nella fattispecie, possiamo defnire complottismo e determinismo.
Per i reazionari contano solo i decisori, per i progressisti sono invece gli eventi che li obbligano a
decidere. In ogni polo di questo dualismo si è condannati all’impotenza. E’ solo la presa in carico di
entrambi gli elementi e la ricerca della sintesi che consente di cambiare il corso della storia.
Per i reazionari quindi la Ue è la tappa di un complotto mondialista. Per i progressisti è una fase
della Globalizzazione. Hanno ragione entrambi così come hanno torto tutti e due.
La storia materiale è la congiunzione continua di due assi, l’uno, verticale, è quello che comprende
le gerarchie, le strutture; l’altro, orizzontale, è quello che esprime l’evolvere dei fattori tecnici,
economici, culturali ecc.
Se ci limitiamo all’asse verticale va da sé che qualsiasi cosa sia la Ue (e qualsiasi cosa sia ogni
altro soggetto) essa subisce l’influenza delle poche famiglie che detengono la ricchezza mondiale,
dei centri di potere fnanziario, energetico e strategico e della loro ideologia che è mondialista e
non solo: è antivirile ed antitradizionale. Il che vale tanto per la Ue quanto per l’Italia, il Vaticano,
l’intero Occidente ma anche, con dosaggi diversi, l’Oriente cinese e russo.
Se passiamo all’asse orizzontale, la Ue è soprattutto il prodotto di un divenire storico e della
necessità di farvi fronte. In quest’asse s’incontrano e spesso si scontrano interessi e centri diversi;
in particolare tedeschi e inglesi.
Chi crede che siamo alla fne della storia, alla fne dei tempi, non può che avere di tutto ciò una
visione apocalittica e arrendersi al’ineluttabilità della Globalizzazione nel segno del Mondialismo.
Chi ha invece un approccio vitalistico e attivo all’esistenza è in grado di distinguere, di riconoscere
nell’asse verticale le linee di faglia tra centri di potere, di confdare poi nelle varianti dell’asse
orizzontale e quindi di provare ad agire, non per fermare il corso della storia, che è impossibile, ma
per cambiargli segno.
Sull’asse orizzontale è questione di metodo, su quello verticale si tratta di molto di più.
In Nuovo Ordine Mondiale tra imperialismo e Impero, edizioni Barbarossa, 2002, ho fatto notare
come dal 1945 in poi non ci siano ideologie e men che meno interpretazioni politiche diverse dal
Mondialismo ma ho anche sostenuto che esistono spazi e modi per tornare a contrapporgli l’ideale
universale delle Rivoluzioni nazionali e dell’Imperium.
In mancanza del quale ideale non ci si può lamentare soltanto né aggrapparsi al fenomeno di
reazione sociopsicologica dei populismi che non andranno da nessuna parte se non saranno dotati
di una concezione strategica, attiva, positiva, rivoluzionaria e se non saranno guidati da autentiche
classi dirigenti militanti.


La Ue è poco democratica o addirittura antidemocratica?


E’ vero l’opposto. Non soltanto dal punto di vista ontologico per il quale la democrazia,
contrariamente alla comune convinzione, non è affatto un potere partecipativo bensì una tirannia
totalitaria livellante, ma anche dal punto di vista espresso nel concetto più diffuso, cioè quello di
una gestione sottomessa a discussione e a condivisione che, nella Ue è addirittura eccessiva.
Proprio quando l’allargamento degli spazi, la contrazione dei tempi, la concentrazione dei mezzi di
potere, dettano ovunque una riduzione dei cerimoniali assembleari e un aumento dei poteri
decisionali, è paradossalmente la ricerca del compromesso in una logica di partecipazione equa
tra i membri che fa della Ue un potere dimezzato che impallidisce nel confronto con i poteri
autoritari in vigore in Usa, in Russia, in Cina, in Israele e nella gran parte delle potenze emergenti
come la Turchia o il Kazakhstan.
All’opposto del luogo comune è precisamente quest’egalitarismo federato, sommato ai pregiudizi
ideologici imperanti, che paralizza l’Unione Europea offrendo il destro a interventi di commissari o
di esperti che, proprio in quanto non soggetti a decisionismo gerarchico, ma liberi di sguazzare in
una democrazia confusa, sono quasi sempre uomini che rispondono a lobbies, a logge o a partiti
trasversali multinazionali organizzati.


La Ue è nelle mani dei banchieri?


Non è una prerogativa della Ue bensì dell’intero sistema mondiale. La casta dei banchieri è
predominante e bisogna farci i conti. Quando si dice casta dei banchieri non ci si deve però
astenere pigramente dall’approfondire. Se o si facesse ci si renderebbe conto di almeno tre cose:

la prima è che l’Eurozona e le economie europee subiscono più le manovre dei banchieri
angloamericani che non di quelli europei; la seconda è che intorno alla Bce infuriano liti tra
banchieri tedeschi, inglesi, francesi, ecc; la terza è che ci troviamo anche in presenza di un
conflitto tra grandi e medi banchieri, particolarmente per effetto degli Accordi di Basilea.
Questo signifca a sua volta altre cose. La prima è che se la Ue è sinonimo dei banchieri l’inverso
non è altrettanto vero. La seconda è che si trovano delle linee di faglia all’interno della stessa
casta dei fnanzieri. La terza è che esistono, almeno teoricamente, le possibilità di modifcare il
quadro e i rapporti di forza.
Tutt’altro ragionamento è quello che attribuisce alla Ue e all’Euro la fne della sovranità monetaria.
Il discorso è ampio e variegato; nel farlo non si deve dimenticare che in realtà la Bce persegue la
politica di stabilità monetaria, che ad emettere moneta in effetti è il Sebc, con base a Francoforte,
composto dalle 27 Banche Nazionali e dalla Bce la quale ultima ha esclusivamente diritto di
emissione dell’8% della massa valutaria. Il fatto è che le Banche nazionali sono istituti privati da
tempo (l’italiana, una delle ultime a svincolarsi dalle leggi volute da Mussolini lo è dal 1981).
Il problema è quindi a monte della Bce la quale assomma ad esso due aggravanti: il fatto di essere
svincolata dal potere politico (e ritorniamo all’eccesso di democrazia) e di non avere l’obbligo di
sottoscrivere il debito.
Un’ultima chiosa sulla sovranità monetaria, recentissimo totem dell’estrema destra. Fondamentale
lo è sicuramente ma non è vero che sia sufficiente: in Italia dal 1945 al 1981 era totale: eppure
della sovranità nazionale non vi fu traccia.


La Ue rimuove le sovranità nazionali?


La realtà è un po’ diversa. Le sovranità nazionali hanno letteralmente ricevuto un colpo mortale
dall’avvento dei satelliti. Già negli anni Novanta la Francia si fece scippare sul flo di lana una serie
di contratti con i Paesi africani dagli americani che, appunto grazie ai satelliti, conoscevano le loro
offerte in tempo reale e potevano intervenire al ribasso. L’informazione, il commercio, la guerra, si
svolgono ormai per via satellitare e vi si svolge anche l’intera comunicazione sociale (google,
facebook, twitter ecc).
Quel che avevano predetto le avanguardie nazionalrivoluzionarie fn dagli anni Quaranta si è
realizzato. Inutile piangere (per chi avesse ragioni per piangere) o strillare. Non vi è sovranità
possibile se non a livello di potenza continentale e senza un’autonomia satellitare.
La Ue, né carne né pesce, vivacchia in questa terra di nessuno, provando a trovare un equilibrio
tra i residui desueti delle sovranità nazionali e un decisionismo centrale che non c’è e che viene
quindi assolto surrettiziamente da commissari speciali.
Le sovranità nazionali dunque sono morte? Non necessariamente: a patto di resuscitare una logica
sociale, territoriale e un ideale imperiale e confederato, esse possono convivere con una sovranità
europea. Allo stato attuale non abbiamo né queste né quella.


L’Unione Europea ha una politica antisociale?


Ancora una volta non ci dobbiamo soffermare ai quadretti riduttivi che abbiamo abitualmente
davanti agli occhi.
Lo Stato sociale è prerogativa comune in Europa anche se le logiche sociali sono diverse nazione
per nazione. La politica d’austerità che è stata dettata dalla crisi mondiale e dalla politica di
stabilità dei prezzi sta in effetti minando le società europee colpendo salario, proprietà, risparmio e
impresa.
Cause di tutto ciò sono sicuramente quelle che vengono identifcate dai più: la cocciutaggine
tedesca, lo strapotere dei banchieri. Ad esse se ne devono aggiungere però almeno altre quattro.
Innanzitutto lo scarso potere della Ue che, vaso di coccio tra i vasi di ferro (Usa, Cina), non ha
grandi margini di manovra nei confronti delle altre potenze le quali scaricano su di esse le proprie
crisi. Emblematico è quanto hanno fatto gli Usa a partire dal 2009 per ottenere di farci pagare i
loro buchi e i loro debiti.
Quindi subiamo la concorrenza mondiale di economie extraeuropee che ignorano o minimizzano lo
Stato sociale. Questa concorrenza, sommandosi all’indiscutibile piaga putrescente che si è aperta
nell’area del Mediterraneo per via dell’opportunismo individualista e delle sbracate politiche
sindacali, rende necessarie delle vere e proprie riforme strutturali.
Qui interviene il terzo elemento: dovendo obbligatoriamente effettuare copiosi tagli, sono le classi

più potenti e le centrali più organizzate che s’impongono per farne scaricare i costi sui meno
potenti e sui meno organizzati. Dunque salariati e pmi.
Infne il quarto elemento è il clientelismo. Senza entrare nel merito del Fiscal Compact che 25 stati
membri, Ungheria compresa, hanno sottoscritto e che 24 hanno poi ratifcato ma che non essendo
una normativa europea può essere più facilmente refutato, va sottolineato che non c’è stato
assolutamente nessuno che, nell’imporci di sborsare cinquanta miliardi all’anno, abbia sostenuto
che questi si dovevano ottenere tassando i ceti produttivi e tagliando la sanità anziché andando a
smantellare il sistema clientelare parassitario che si aggira intorno ai duecentocinquanta miliardi
totalmente sprecati. E’ stata la piaga putrescente di una partitocrazia e di un associazionismo
parassitario che ancora una volta ha prevalso in Italia.
Dobbiamo concludere da tutto ciò che assistiamo allo scatenarsi dell’offensiva di classe in un
quadro politico eccessivamente democratico e troppo poco sovrano nella contesa economica
mondiale. E’ quest’offensiva di classe e di casta che sta producendo la contrazione sociale e la
proletarizzazione di massa.
Nel caos però le diverse nazioni europee si muovono differentemente: l’Ungheria, i Paesi
scandinavi, la Germania, non vanno così chiaramente incontro alla dissoluzione sociale come lo
stanno facendo altri Paesi, in particolare quelli che hanno approfttato dell’assistenzialismo.
Infne non è affatto vero che l’assistenzialismo sia sinonimo di Stato sociale né che quest’ultimo
debba essere smantellato necessariamente, a patto però che torni ad essere quello che fu quando
venne ideato.
La risposta è un tutt’una: solo un coordinamento organico ma autoritario della politica interna ed
estera europee ci può consentire di respingere il duplice attacco della concorrenza antisociale
straniera e dell’offensiva di classe internazionale, mediante una ristrutturazione completa che
comprende il rinnovamento dello Stato sociale nell’ambito di una società nuovamente integrata.


La Ue è uno strumento tedesco?


La Germania è la locomotiva europea, lo è sia economicamente sia per la politica che accompagna
le trattative economiche ed energetiche e che ha determinato le relazioni euro russe e le aperture
all’Asia.
Ovviamente la Germania ragiona sul proprio modello ed è convinta che questo determinerebbe
l’avvento di una Ue più compatta. La politica dell’austerità è dettata esattamente da questo
ragionamento, visto che per i tedeschi è primario il contenimento dei prezzi.
Le accuse che si rivolgono ai tedeschi di voler fare di testa loro e di essere decisi a stritolare i Paesi
mediterranei sono però incaute.
Sobbarcandosi il grosso del sostegno fnanziario essi sono particolarmente diffidenti verso i Paesi
mediterranei che da troppo tempo hanno prodotto parassitismo, clientelismo e corruzione in
misure massicce. Con l’acqua sporca (che per colpa nostra continua a ristagnare nella vasca)
viene però gettato via – da noi! - il bambino, ovvero i piccoli imprenditori e i salariati. La nostra
ricchezza sono le pmi che, in ogni caso non sopravvivranno alla concorrenza mondiale se non
faranno sistema. In questo le pmi (piccole e medie imprese) sono carenti e i governi italiani sono
disertori.
La politica monetaria ed economica della Ue va assolutamente modifcata ma non se ne può fare
una croce agli unici che tentano qualcosa di fattivo. Né è vero che i tedeschi vogliano fare da soli
visto che hanno chiamato alla gestione sia Parigi che Londra nell’edifcazione di una Kerneuropa,
ovvero di un’Europa nocciolo duro, che viene però osteggiata dagli Usa e dalla City.
Né sono condivisibili le accuse rivolte ai tedeschi di essersi fatti pagare da noi, con il cambio
Marco-Euro, l’unifcazione nazionale. Non lo sono in quanto la Germania era già allora la nostra
locomotiva economica e fnanziaria e, qualora non lo fosse stata, quel che avrebbe signifcato per
tutti noi l’unione e la coesione tedesca sarebbe stato sufficiente per considerare l’esborso come un
investimento.
In quanto all’impennarsi dei prezzi all’avvento dell’Euro, non è di certo responsabilità tedesca ma
dei commercianti dei singoli paesi. Il mercato reagisce psicologicamente: non è un caso se un
articolo di 10 euro circa viene offerto a 9,90 perché così, sembrando economico, il consumatore lo
compra. Le cifre lavorano sul subconscio. Quindi il crollo del valore d’acquisto dopo l’avvento
dell’Euro si è manifestato in misura diversa nazione per nazione. Laddove 1 euro stava per 1
marco non ha prodotto danni. In Francia dove 1 euro valeva circa 6 franchi l’abitudine mentale a
considerare spendibile una cifra apparentemente bassa o che passa per tale (poniam a 8 euro che

prima sarebbero stati circa 50 franchi) aiutò i venditori a far spendere di più i consumatori senza
che ci fossero corrispondenti crescite salariali. In Italia, dove 1 euro stava a quasi 2.000 lire,
ovviamente il contraccolpo è stato devastante. Ma lo è stato per la psicologia di massa e per gli
interessi bottegai. Colpevole è stata l’assenza istituzionale di un organismo che avrebbe potuto

impedire o quantomeno contenere lo scempio del quale non è corretto neppure ritenere re-
sponsabile Prodi per avere accettato un cambio sbagliato.

In conclusione la Germania va da sola più per l’inerzia altrui, o per gli ostacoli che le frappongono,
che per scelta o per avidità. Non tutto quello di cui l’accusiamo è fondato.
Nel suo modello esistono elementi discutibili e adattabili, elementi positivi ed elementi negativi.
Proviamo a riassumerli.


Cosa rappresenta la Germania?


Vediamo gli aspetti positivi e quelli negativi della locomotiva europea.
La coesione sociale, la partecipazione, l’ancoramento locale che, come vedremo più avanti,
impedisce la delocalizzazione del lavoro, l’efficienza del sistema sociale e fscale, sono dati che si
iscrivono all’attivo del bilancio tedesco. Più ancora lo è la funzione estera, in primis dell’economia
che si estende ad est traendo seco la politica (non a caso agli incontri asiatici della Sco vengono
invitati spesso i think tank ufficiali tedeschi, unici soggetti europei) e che apre prospettive di
bilanciamento al dominio americano. Su questo punto la politica non è inerte visto che la dottrina
Schäuble, detta “di reciprocità”, intende esplicitamente proprio emancipare e rafforzare l’Europa
per indurre gli Usa ad accettarla come interlocutrice e non come feudo. Anche nella forbice tra
TTIP e Comunità Economica Eurasiatica la Germania gioca di bilancia avendo in vista
l’emancipazione.
Negli States e alla City ne sono consapevoli al punto che il Financial Times ammette chiaramente
di essere in conflitto con Berlino; del resto la crisi ucraina ha avuto come bersaglio più la Germania
che la Russia.
Tutto considerato, la campagna antitedesca che si accompagna non solo all’euro-scetticismo ma
anche alla demagogia lamentevole dei partiti clientelari è fuorviante e indica come nemico proprio
chi più imbarazza il nemico.
Di qui a sostenere la Germania a spada tratta ce ne vuole. Non soltanto perché non è possibile
farlo senza interventi sistemici a difesa delle pmi e delle migliori specifcità socioeconomiche
mediterranee ma perché se da un lato i tedeschi sono l’unico traino possibile per la salvaguardia e
la ripresa europee, dall’altro sono all’avanguardia anche nel modello culturale e ideologico intriso
di dissoluzione e di sovvertimento e lo sono con l’aggravante di un sentimento di colpa che non
solo li paralizza ma si trasforma sovente in una pretesa predicatrice che li spinge a crociate
esistenziali e ideologiche inaccettabili. Come, ad esempio, l’introduzione di Genitore 1 e 2 o
l’offensiva contro la Corrida.
Jekyll und Hide.


Euroscettici, eurofans o una terza via?


Terminata la panoramica non possiamo non concluderne che la maggior parte delle critiche mosse
alla Ue sono impostate male, basate su ignoranza e superfcialità, e che, alquanto distorte, fanno
spesso il gioco angloamericano. Questo non signifca che si debba diventare eurofans. Se è falso
che la Ue sia all’origine delle crisi sociali, economiche, culturali che si manifestano in Europa e
perfno che essa sia poco democratica, se non dalla Ue dipende il tramonto delle sovranità
nazionali e se essa non ha l’esclusiva del potere bancario e di quello massonico, se, infne, la
coesione europea è l’unica possibilità di sopravvivenza che abbiamo avanti a noi, questo non
signifca che la Ue non abbia delle tare proprie che si sommano a quelle di ognuno dei suoi
componenti.
Il problema è che la Ue, somma compromissoria e confusa delle nostre società, ne è lo specchio.
Essa presenta gli stessi difetti, le stesse distorsioni, le stesse sovversioni di tutti i nostri Paesi, alle
sua fondamenta ci sono le stesse patologie, gli stessi veleni, le medesime febbri e vi sono sempre
e comunque una struttura mercantile e un’ideologia deformante.
La risposta però rischia di essere dello stesso genere.
Nel pieno dell’industrializzazione e della lotta di classe fnanzieri e speculatori foraggiarono
ovunque e molto a lungo i comunisti nella loro azione contro i padroni industriali e imprenditoriali.

Avevano convenienza a sostenere quel processo d’internazionalizzazione e di smantellamento
sociale.
Stare con i comunisti contro gli industriali signifcava all’epoca paralizzare e scompaginare la
società e la nazione; difendere i padroni contro le maestranze voleva dire essere crumiri e servili.
Senza via d’uscita, così sembrava. Intervenne allora la folgorazione fascista che fece allentare la
presa ad entrambe le ganasce, interiorizzò nello Stato la lotta di classe e la risolse – almeno in
gran misura – con la partecipazione e con il socialismo di azienda e di trincea.
Fino ad allora le accuse rivolte al padronato erano abbastanza corrette ma l’impo-stazione della
battaglia era sbagliata, non mirava ai veri responsabili che, al contrario, benefciavano dell’azione
socialcomunista.
Ho l’impressione di ritrovarmi in presenza del medesimo dispositivo quando oggi si critica la Ue.
Le accuse sono rivolte tutte alla Germania che, né più né meno del padronato imprenditoriale del
XIX secolo, ha le sue responsabilità, ma non si pensa se non di sfuggita alle compagnie di rating,
agli usurai e al gotha Wasp che sono il nostro nemico principale, né ai piani Morgenthau e Kalergi
per la neutralizzazione e l’estinzione dell’uomo europeo.
Allora non ci si batteva contro lo spirito capitalistico ma contro un preciso aspetto della sua
struttura e non per modifcarlo bensì per aiutare sfruttatori, vampiri e parassiti a banchettarci su.
I dispositivi dell’euroscetticismo di oggi mi sembrano esattamente gli stessi, non solo perché sono
oggettivamente utili alla City ma perché non sono rivolti a imporre giustizia e logica alla potenza,
bensì a depotenziare una società che poi resterebbe ingiusta ed illogica.
La reazione alla Ue è comprensibile e giustifcata, ma è orientata male, quasi sempre da chi è il
maggior responsabile dello scempio in atto e che ha tutto l’interesse di mantenerlo in atto,
impedendo però che ne nascano anticorpi.
Il punto è cosa fare della reazione popolare oggi in fermento, se incanalarla nel vicolo cieco di un
no sloganistico e di un nostalgismo sterile, che oltretutto è così assurdo che viene a proporci oggi
la corruttela democristiana come una passata età dell’oro, o se vogliamo invece condurla
all’avanguardia per rivoluzionare l’Europa sia per fedeltà al Mito, sia per coerenza ideale, sia per
necessità storica, sia per brama d’identità, sia, infne, per volontà di autonomia e di potenza.
In quest’ultimo caso ci sarà molto da fare. M’impegno direttamente con proposte e linee che
vanno soppesate e integrate parecchio e che richiedono lunghi approfondimenti da parte dei
quadri migliori di tutta Europa.

L’ALTRA EUROPA POSSIBILE


L’Unione Europea non è il mostro che agitano alcuni né è la causa dei mali che ci piovono addosso,
ne è, tutt’al più, una concausa. Tuttavia ha delle tare di fondo, alcune sul piano funzionale, alcune
su quello strutturale, altre, quelle più gravi, le ha nell’anima.
Che non sia questa l’Europa che sogniamo è palese. Che la soluzione sia di paralizzarla, di
sgretolarla per costruirne un’altra in seguito è un’affermazione stolta e superfciale, fglia di una
sorprendente ignoranza della storia che c’insegna come nessuna reazione sia possibile se non è
una insita in una correzione radicale della dinamica in atto, ovvero se non è una rivoluzione o
quantomeno una controrivoluzione.
Ulula contro Bruxelles chi gioca a scaricabarile perché ha delle colpe da farsi perdonare, come i
nostri politici dell’area paragovernativa, o chi all’opposizione sceglie di capitalizzare in fretta il
malcontento popolare nella competizione locale o chi, infne, non sa che proporre e costruire.
Se la Ue va avanti così è indubbio che ci trascinerà in un baratro ma, se si dovesse bloccare,
paralizzare, sgretolare, l’abisso in cui verremmo inghiottiti sarebbe molto più profondo e non
avremmo più possibilità di riprenderci.
Ancora una volta ci troviamo tra due poli opposti che non sono incoraggianti: sopravvivere malati
fnché si può o morire male.
Che di morire male si tratterebbe non è così arduo da comprendere. Se fosse possibile un ritorno
alle singole sovranità nazionali esse si realizzerebbero intorno alla medesima gente e alle
medesime tare dell’insieme europeo, solo con molto minor potenza. Nell’era globale se non si fa
potenza si muore: la Grecia, per esempio ha un Pil annuo equivalente a quello di sola mezza
giornata della Cina.
Inoltre, quali sinergie ci porterebbero a conquistare il nostro ruolo nello spazio, nel satellitare?
Che questa non sia la nostra Europa è pacifco, ma questa non è neanche la nostra Italia (o la
nostra Francia, la nostra Spagna, la nostra Grecia); nessuno parla di disfare l’Italia ma tutti sperano
di cambiarla. Come se fosse più facile che cambiare l’Europa.
Ma perché i poli devono essere due? Perché accettare lo schema incapacitante del dualismo?
Esiste un’altra possibilità: rivoluzionarla l’Europa, pressandola in ogni campo, istituzionale,
culturale, sociale, per uscire da quest’impasse.
Le tare maggiori dell’Unione Europea sono il suo taglio esclusivamente mercantile e uniformatore,
la sua ideologia sovvertitrice, antivirile e quindi, paradossalmente, antieuropea, il suo eccesso di
democrazia che permette ai commissari delle oligarchie di usurpare il ruolo della politica e il suo
trovarsi in balìa dell’offensiva di classe e di casta. In altre parole la Ue è troppo debole dove
dovrebbe essere forte, mentre è stupidamente forte laddove incontra debolezza.
I cambi che è necessario apportare al corpus europeo, anche nelle sue istituzioni e nelle sue
funzioni, sono quindi profondi, non si possono limitare al funzionamento degli organi, ma devono
contribuire a far emergere lo spirito identitario e la solare tradizione dei padri; devono condurre a
sinergia nella complementarietà, ovvero esaltare le differenze che entrano in armonia; si deve
assumere Auctoritas e Imperium e, infne, rappresentare tutte le classi anziché prestarsi
all’offensiva dall’alto che tende a eliminare i produttori e a schiavizzare i salariati. Ci si deve,
infne, dotare di piena consapevolezza, di autonomia militare, di potenza satellitare, per entrare in
gioco tra i players del multipolarismo asimmetrico della nostra era globale.
“Si vis pacem para bellum”.


Partiamo da alcune ristrutturazioni istituzionali che, ovviamente, possono assumere soltanto forma
di proposta programmatica fn quando non saranno imposte da forze organizzate con quella giusta
miscela di avanguardismo e di lobbying che rappresenta la versione attuale dello squadrismo e
dell’organizzazione leninista.


Poiché camminiamo con i piedi in aria, partiamo da quanto non dovrebbe stare in alto ma oggi vi si
trova: la Banca e il sistema valutario.
Chi scrive è da sempre favorevole al mantenimento dell’Euro ma a parametri rivoluzionati.

Trattandosi però, qui, di una proposizione dinamica, eviteremo di fossilizzarci, lasciando spazio
aperto a soluzioni differenti, purché rispondenti al medesimo spirito.
Partiamo dalla Bce e dal Sebc che abbiamo visto rappresentare, la prima, il traino reale della Ue e,
il secondo, di cui anche la Bce fa parte, l’organo di emissione valutaria del quale sono partecipi le
Banche nazionali, ormai tali solo di nome.
E’ inaccettabile che la Bce sia un organo indipendente dalla politica e che non abbia l’obbligo di
sottoscrivere il debito pubblico delle varie nazioni europee non assorbito dai mercati.
Per la sua riforma facciamo nostre alcune proposte di Alberto Micalizzi.
Si può proporre ad esempio l’elezione della maggioranza dei membri del direttorio della centrale
da parte dei parlamenti nazionali, il che farebbe cessare la farsa dell’indipendenza della Banca
centrale, che altro non è se non la dipendenza dai soliti club fnanziari. Ricordiamo che la Banca
centrale della seconda più grande economia del mondo, la cinese, è totalmente a nomina
«politica».
E’ altresì opportuno spingere affinché l’obiettivo di fondo della Banca centrale si sposti dalla
«stabilità fnanziaria ed il controllo dell’inflazione» alla «crescita del Pil» ed includa anche «l’equità
sociale». In realtà l’equazione dovrebbe essere tridimensionale: crescita economica, stabilità
fnanziaria ed equità sociale. Il peso dei coefficienti dovrebbero essere in ragione di 50:30:20
(badare che oggi questa equazione è abnorme e mostruosa ed è: 0:100:0) .
Va proposto infne che la Banca centrale garantisca tutte le emissioni in valuta.
Andremmo oltre proponendo la nazionalizzazione effettiva di tutte le Banche nazionali e di
conseguenza della stessa Bce che ne rappresenta di fatto il Consiglio d’Amministrazione,
essendone le Banche centrali le azioniste, quest’ultima fnirebbe con l’appartenere
automaticamente al popolo dell’Europa Nazione che sarebbe il caso vi fosse però rappresentato
non soltanto della singole Banche nazionali ma anche dall’espressione delle categorie sociali.
Una logica corporativa e confederata dovrebbe appropriarsi della Banca centrale la quale, come
abbiamo già affermato dovrebbe avere come uno degli scopi primari il riacquisto dei titoli del
debito pubblico in mano estera al fne di rendere l’Europa in tutte le sue singole componenti
indipendente dall’usura e dalla dittatura cosmopolita di casta.


L’indipendenza si basa sulla sovranità monetaria ma anche su quella militare, energetica,
satellitare, ambientale e della salute e non è possibile che tale indipendenza si ottenga senza che
il potere sia l’espressione organica delle componenti dell’intero corpus.
Con la medesima logica e struttura con cui si dovrebbe rivoluzionare la Bce, si dovrebbe allora
istituire un esercito europeo a leva obbligatoria, con comando integrato e alto potenziale
nucleare. Sua punta di diamante dovrebbe essere il settore aerospaziale.
A latere andrebbero sviluppati tre pilastri essenziali. In primis quello per l’indipendenza della
cultura e della comunicazione, con la creazione di uno spazio informatico europeo che
soppianti non solo la Cnn ma google, twitter, facebook ecc al fne di creare un grado
d’impermeabilizzazione al Big Brother.
Quindi il rating: l’Europa deve dotarsi di strumenti e criteri di rating del tutto indipendenti che si
occupino delle nostre economie e che vadano a valutare anche quelle straniere anziché restare in
balìa dell’attuale strumento d’imperialismo con il quale gli Usa sono riusciti a scaricare su di noi i
costi dei loro fallimenti.
Infne un settore della salute e dell’ambiente, con forte articolazione localizzata, è
assolutamente necessario se vogliamo uscire dai vicoli ciechi in cui ci relega l’Oms che risponde
agli interessi, spesso gangsteristici, delle multinazionali farmaceutiche e della ricerca che ci
propinano vaccini inutili, c’inchiodano a terapie costosissime e inefficaci quando non deleterie
avendo in pratica frenato l’evoluzione della medicina da oltre mezzo secolo impegnandosi a
mettere la museruola a qualsiasi ricerca le cui conclusioni consentono di non morire agonizzando
dopo aver speso capitali che entrano nelle tasche degli Al Capone dal sorriso dottorale.


Fare dell’Europa un corpus compatto signifca anche garantirne e svilupparne le singolarità
nazionali, etniche, culturali.
Si tratta quindi di proporre un nuovo modello socioeconomico e di rappresentanza politica ma
signifca anche esaltare e integrare le specifcità andando a formare, in una logica a matrjoska, le
aree che possano assumere una relativa indipendenza interna, riversandosi poi sull’asse imperiale
come soggetti primari in una logica confederata.
Proponiamo dunque l’articolazione dell’Unione in diverse zone ad omogeneità culturale,

commerciale e sociale.
Le zone ad omogeneità culturale e sociale o comunque secondo dinamica commerciale e
diplomatica, dovrebbero svilupparsi su tre direttrici:
1. Parigi-Berlino-Riga/Mosca (offrendo in questa veste alla Russia un partnerariato alla svizzera)
2. Roma-Vienna-Budapest-Kiev
3. Madrid-Roma-Atene
Si tratta della direttrice nord-est, dell’area mitteleuropea e dell’area mediterranea.
Ciascuna di esse, sull’esempio della Costituzione Ungherese, avrebbe facoltà di organizzarsi
secondo le proprie tradizioni e i propri modelli sociali rispettando comunque i parametri imposti,
fssati però, come abbiamo visto, non tanto dalla parità di bilancio quanto anche dalla crescita e
dall’equità sociale cui andremmo a sommare nello specifco anche lo sviluppo delle politiche
ambientali e quello delle autonomie locali e regionali. Questo comporta che esistano politiche
fnanziarie e fscali differenziate e concordate.
Ogni area dovrebbe defnire le sue politiche fscali in coordinamento con l’Unione Europea e
potrebbe munirsi di valute locali ad uso interno per facilitare la propria economia.
Su questa strada, come vedremo tra breve, andremmo oltre proponendo, ancora una volta con
Alberto Micalizzi, la Moneta di Complemento.
Tutto ciò permetterebbe di garantire le autonomie e le particolarità senza far retrocedere l’Europa
e il suo peso politico ed economico nei confronti non solo degli Usa ma del BRICS e di ogni economia emergente, nonché del Giappone e della Corea.


Un’ulteriore riforma strutturale che sarebbe il caso di perseguire dovrebbe tener conto
dell’organicità sociale e dello sviluppo locale (logica etnoregionalista o völkische non contrastante
con la sovranità nazionale, con quella confederale e con quella imperiale).
Il modello migliore in questo campo ci viene fornito dai länder tedeschi che non soltanto riescono a
sviluppare la piena autonomia senza mettere in discussione il governo federale ma hanno una
cultura partecipata talmente ampia da sottoporre le locali imprese di punta ad azionariato
popolare. Ed è questo che fa da ostacolo alla chiusura delle aziende in patria per la riapertura
altrove: cioè il fatto che tra azionariato popolare e partecipazione agli utili delle maestranze, per
delocalizzare defnitivamente le maestranze comproprietarie dovrebbero licenziare se stesse.
Anche dal punto di vista ambientale i länder sono esemplari.
A questo modello, che ovviamente non può essere copiato pedissequamente ma adattato, si
devono aggiungere degli elementi necessari. Alla logica partecipativa e armonica del Land va
aggiunta una nuova struttura sociale e politica che possa produrre una società non atomizzata e
quindi non più in preda all’usura e alle lobbies.
E’ dal locale che si deve ripartire con logica corporativa, iniziando a trasformare i parlamenti
regionali in Camere etnoregionali delle corporazioni.
Infne nella sfera locale sarà opportuno fare sistema soprattutto a sostegno delle piccole e medie
imprese – in particolare dotandole di fnanziarie di cui siano azioniste e socie – e creando sistemi di
scambio interni che non vadano in conflitto con quello unitario e che incoraggino lo sviluppo delle
genialità.
Ancora una volta, in questo campo, ci appropriamo di una proposta pratica di Micalizzi.
“Il sistema di moneta complementare (MC) che abbiamo messo a punto si basa su un certifcato
denominato RAS (Ricevuta Autoliquidante da Sottoscrizione). Di fatto, è la ricevuta emessa da un
consorzio di aziende che certifca l’apporto di un bene aziendale da parte di un associato. Il RAS
viene poi accreditato in un conto corrente e diventa moneta spendibile all’interno del circuito degli
aderenti (altre aziende, personale, negozi al dettaglio etc.)
La MC che ne deriva è quindi totalmente garantita dal controvalore periziato di beni aziendali quali
scorte di magazzino, crediti verso clienti, crediti verso l’Erario, autoveicoli, immobili, che vengono
conferiti nel consorzio, pur restando in uso all’azienda.
Dal punto di vista fnanziario la MC circola all’interno dello Stato come valuta estera che affianca
l’Euro. Le banche sulle quali operano i conti correnti di MC offriranno anche un borsino del cambio,
che stabilisce quanti Euro si possono scambiare contro la MC. Il cambio di riferimento può oscillare
liberamente senza influire sul funzionamento dell’economia soprattutto perché mentre l’Euro
diventerà sempre più una moneta di accumulo la MC sarà una moneta di scambio pertanto la
domanda e l’offerta delle due monete seguirebbe principi diversi”.

Si verrebbero in questo modo a creare livelli differenti di rappresentanza e di potere.
Le autonomie locali, incentrate su economia solidale, struttura corporativa e fnanza
complementare, esprimerebbero i rappresentanti di categoria nella Camera delle corporazioni,
delle arti e dei mestieri che sostituirebbe il Parlamento nazionale, asettico e depotenziato,
gravoso presente-assente oggi in questa post-democrazia.
Gli Stati nazionali, rispettosi degli stessi princìpi enunciati dall’Ungheria, interverrebbero a
regolamentare le autonomie al fne di non atomizzarle e invierebbero a loro volta rappresentanti
nell’Assemblea Confederata corrispondente tra le tre esistenti (Nord-est; Mitteleuropa;
Mediterraneo). A dettare il numero dei rappresentanti di ogni Paese dovrebbero intervenire
parametri legati non soltanto alla demografa ma anche all’equità sociale, alla difesa del
patrimonio culturale, arti-stico e ambientale e infne alla produttività.


A garantire infne l’Unione e la Centralità non più un altro Parlamento inutile e un forire di
commissioni dalle cui pieghe saltano fuori come topolini gli incaricati di lobbies e di poteri alieni,
bensì un Senato delle eccellenze.
In quanto all’esecutivo centrale, di espressione confederata, esso dovrebbe assumere i poteri più
larghi possibile e produrre una Res Publica Consolare. Vale a dire un potere di lunga durata, non
sei mesi ma almeno tre anni, in cui due Consoli lavorerebbero gomito a gomito ma, come avveniva
a Roma, si alternerebbero al comando, l’uno della questione interna, l’altro della politica estera e
militare.
Ovviamente se non fosse possibile raggiungere l’optimum ci accontenteremmo di una Repubblica
Presidenziale.
A fanco dei Consoli (o in subordine del Presidente) alcuni gabinetti di emergenza dovrebbero
coordinare le politiche nazionali concernenti le emergenze sanitarie, climatiche, demografiche
e, ovviamente, migratorie.
Consci che la soluzione in tutti questi ambiti si ottiene non soltanto dando voce – al contrario di
quanto oggi accade - al buon senso popolare e la precedenza a chi è direttamente coinvolto nelle
questioni d’emergenza ma anche e soprattutto mediante cooperazioni con i Paesi d’emigrazione
fnalizzate a svilupparli in loco spezzando il monopolio delle grandi banche e delle compagnie
multinazionali e aiutandoli a fuoriuscire dalle settorializzazioni che queste hanno loro imposto.
Un forte incentivo alle nascite dovrebbe infne essere obiettivo primario da perseguire
contemporaneamente alla rettifca della politica migratoria.
Così come lo scompaginamento del sistema del narcotraffico, dovrebbe essere impegno
imprescindibile dell’esecutivo centrale; ma in fondo è un tutt’uno nella lotta all’anarchia
gangsteristica delle grandi banche e delle multinazionali che sono all’origine dei traffici di uomini,
di armi, di stupefacenti e di organi e che spesso addirittura li coordinano.


Ovviamente questo è un prospetto ideale, una linea di tendenza sulla base della quale condurre
una battaglia articolata per poter centrare almeno alcuni tra gli obiettivi enunciati.
La realizzazione anche solo di parte di questo programma e persino in un solo Paese avrebbe una
portata rivoluzionaria.
Tutto ciò poi, o anche parte di ciò, più magari quello che verrà proposto da altri in seguito,
consentirebbe di cambiare radicalmente rotta e di assurgere a potenza ma solo a patto di aver
lavorato sull’anima e sullo spirito, ribaltando l’inversione dell’Albero della Vita e facendo
dell’Europa non l’ultima propaggine di un Occidente ammalato ed evirato ma la spina dorsale di
Ercole e di Apollo.
Il che si ottiene sia con la coscienza apollinea della luce che non si lascia ottenebrare sia con la
forza erculea che si assume l’onere di qualunque impresa e che non la smette fnché non l’ha
condotta a termine.
Le Termopili come storia, mito e coscienza primordiale, dicevamo. Non è forse un caso se esse si
trovano adiacenti all’Euripo, nella costa orientale della Locride, parallele in linea d’aria al santuario
di Delf in Focide dove Apollo trionfante domina radioso l’Omphalos celeste ai piedi dell’Oracolo e
dove la sua montagna domina l’altra distesa marina, quella del Golfo di Corinto. Tra le due
espressioni della solarità virile, Delf e le Termopili, si erge maestoso il Parnaso.

NESSUNO LO FARÀ AL POSTO TUO


Quasi tutti si accontentano di avere un programma, di proporlo, di metterlo in palio nella fction
elettorale e pensano che la soluzione si trovi lì: convinta la maggioranza esso poi si applicherà.
Nulla di più falso; crederlo signifca non aver capito niente della democrazia delegata,
dell’oligarchia e della sociologia del potere.
Espresso un programma lo si può far entrare in gioco soltanto se si è minoranze organizzate e se,
contemporaneamente, si ha intorno a sé un’organizzazione sociale (di classe o di popolo)
che assurge a potere autonomo, o se vogliamo a contropotere, e consente quindi di
entrare in lizza fattivamente e non nel virtuale.
Bisogna creare potere per poter incidere sul potere già esistente. L’azione necessaria e profcua si
riassume in liberazione, organizzazione e sacralizzazione degli spazi intorno a sé.
Di sicuro mi sfuggirà qualcosa, e ne faccio ammenda con chi avessi dimenticato, ma di esempi
concreti ne abbiamo in Italia e in Grecia.
Nella Penisola lo ha fornito Casapound, innanzitutto con le Osa (Occupazioni a scopo abitativo),
quindi con l’operato in Abruzzo durante il terremoto aquilano e poi con il volontariato organizzato
cui si aggiunge la penetrazione gramsciana delle sezioni sportive sorte intorno al suo Blocco
Studentesco. In tutt’altro ambito ha proceduto nel suo impegno diretto ed efficace contro le spire
mondialiste la Comunità Popoli. In Lombardia Lealtà Azione si muove sulla falsariga del
radicamento territoriale.
Siamo, ovviamente, ancora a piccoli abbozzi di organizzazione di popolo.
Molto più ha fatto Alba Dorata in Grecia che adopera le auto blu come ambulanze popolari, che
rigira la metà degli stipendi e degli emolumenti degli eletti per fnanziare supermercati per poveri,
che ha liberato alcuni quartieri popolari dagli spacciatori. Il suo risultato elettorale, di per sé già
notevole, ha un peso specifco molto maggiore di quello di classici partiti nazionali che si basano
sull’emozione di folla ma che non hanno costruito nulla di concreto e di duraturo su cui fare perno
né alcun potere effettivo da rappresentare in contenzioso con quelli dominanti. Sicché ringhiano,
fanno la faccia scura, pronunciano slogan roboanti ma, carriere individuali a parte, battono il passo
nell’inerzia più totale, neutralizzati in partenza.


Come hanno insegnato le rivoluzioni bolsceviche e quelle nazionali, non c’è possibilità di
alternativa a un potere stabilito, soprattutto se è di classe e/o di casta, se non si parte da
un’organizzazione di classe (i comunisti) o da un’organizzazione di popolo, dunque interclassista (i
nazionalrivoluzionari).
Non c’è programma che tenga né risultato elettorale che valga se non si è prima realizzata
l’organizzazione di popolo. La quale, in un certo senso proletaria in quanto in contrasto con la
classe/casta dominante e con la sua offensiva in atto, essendo interclassista si apre però a tutte le
categorie produttrici e si dota così del potenziale necessario alla creazione di un potere autonomo,
sinergico e autogestito (più su abbiamo parlato per esempio delle fnanziare autonome) e quindi
anche alla realizzazione di capisaldi da cui poter trattare effettivamente e perfno competere con
le lobbies dominanti.
Altrimenti restiamo nel gossip, nella farsa, nella fction e nella nevrosi ideologica. Oppure scadiamo
nella truffa e nel parassitismo.
E’ facendo perno sull’organizzazione di classe che si sviluppa la strategia leninista. Essa non
varrebbe senza la prima che, però, non porterebbe a nulla se non ci fosse la seconda.
Per chi è fglio di un’altra mentalità, maggiori sono gli spazi da lasciare all’inventiva e
all’improvvisazione ma queste devono intervenire su quelle (l’organizzazione e la strategia) e non
provare a mascherarne l’assenza o a sopperirvi perché questo artifcio cialtronesco non funziona
per null’altro che per la fction astratta: si può andare anche lontano ma senza poter concludere
assolutamente niente.
Ed è questa la lezione che va tratta dalle destre nazionali: sono andate crescendo e ingrassandosi
ma senza uscire dalla ragnatela e anzi assomigliando al ragno ogni minuto di più.
Per andare in tutt’altra direzione è primario assumere una mentalità militante e intraprendere un
impegno totalizzante che si faccia portatore dell’autonomia contro l’eteronomia: ovvero che
dia voce al popolo e gli dia le possibilità di organizzarsi al fne di non dipendere da chi decide per
esso contro di esso. Alcuni defniscono questa come democrazia diretta che si contrappone alla

democrazia delegata.


Soltanto partendo da questa premessa e dallo sforzo fatto per essere all’altezza del compito si può
anche immaginare un coordinamento europeo tra coloro che perseguono i medesimi fni.
Impegnandosi sulle questioni sociali e tutto quello che vi corrisponde, a partire dalla minaccia della
guerra tra poveri insita nella tratta di schiavi che si defnisce immigrazione; ma facendo anche
leva su argomenti di sensibilità comune, quali la salvaguardia del patrimonio storico, artistico,
demaniale, faunistico e ambientale, di quello linguistico e culturale, di quello, infne, delle
tradizioni.
A latere dell’impegno militante sulla linea del fronte sociale si dovrebbero organizzare le
autonomie socioeconomiche, partendo dalle fnanziare compartecipate, ma sarebbe opportuno
anche lanciare campagne di sottoscrizione per il riacquisto da parte degli europei, con priorità dei
cittadini della singola nazione di volta in volta interessata, degli asset strategici e del patrimonio
storico-culturale oggi in vendita o in svendita, dall’Enel al Porto del Pireo. Un vero e proprio
azionariato europeo di riconquista.
Si potrebbero inoltre sviluppare delle piccole punte di diamante impegnate nel pressing
sull’ambiente e sulla salute; essendo queste campagne particolarmente potabili in quanto
appaiono politicamente corrette, sarebbe necessario non soltanto controllare che siano
sufficientemente chiare da non impantanarsi nel pensiero debole corrente ma sarebbe opportuno
affiancarle con altre, dedite allo scontro esistenziale in atto contro le rimozioni del patrimonio
ancestrale.
Faccio un esempio: ci sono degli imbecilli che dai vari Paesi europei, con fondi altrui, vanno
regolarmente a provare ad impedire, anche violentemente, le corride in Spagna. Sono così poveri
di spirito da non capire che, se prevalessero loro, l’alternativa che si presenterebbe al toro sarebbe
quella di smetterla di correre libero e di accoppiarsi a volontà con le mucche per venire castrato
quasi subito e fnire a pezzi e in gelatina in qualche scatoletta Simmenthal. Andrebbero
contrastati, questi scemi, da forze comuni europee.
Non sarebbe per esempio male che le ragazze esponessero nell’occasione di questi contenziosi
degli striscioni con scritto qualcosa come: “Avete castrato i nostri uomini, non castrerete anche i
nostri tori”.
Alternare campagne seducenti (ambiente, salute) a campagne provocanti, quale quella appunto
della corrida, sarebbe un buon modo per imporsi all’opinione pubblica anche al di là
dell’ancoramento sociale e di quella creazione di potere che deve restare comunque lo scopo
primario da perseguire, ostinatamente, senza troppi riflettori, quasi in silenzio.
Da tutto quest’insieme può partire una controffensiva che si può defnire, impropriamente ma
comprensibilmente, ideologica.


Si potrà allora passare dalla protesta sterile alla proposta sconvolgente e coinvolgente.
Ma è necessario che tutto questo accompagni sia la formazione militante sia la propaganda
politica e popolare, che diventi respiro, automatismo e non semplice etichetta.
Con l’accortezza di rompere gli schemi ai quali siamo abituati, consapevoli che tutto il dibattito
politico e ideologico, anche nelle espressioni che ci sembrano più radicali, oggi è falsato,
avvelenato, imprigionato negli schemi della Sovversione antivirile, anti-identitaria e anti-europea.
Quando si contrappone alla demenza travolgente un apparente buon senso, spesso non si tratta di
un vero buon senso ma solo di una forma di cautela, della difesa di un gradino precedente della
discesa.
Se i presupposti ideologici, culturali, mentali e soprattutto spirituali non vengono messi in causa
alla radice, qualunque battaglia non ha un senso compiuto.
Non è quindi per un semplice caso se ormai lo scontro di civiltà è scaduto nel grottesco, se la sua
linea di demarcazione è diventata quella delle chiappe: il matrimonio gay.
In questo emblematico segno dei tempi, da una parte, da quella sovversiva, si gioca sulle
mistifcazioni e facendo leva sulla magnanimità indoeuropea e sul suo rifuto delle
regolamentazioni eccessive, ci si spinge canagliescamente oltre ogni criterio.
Perché altro è il riconoscimento dei diritti civili (e ne approftto per dire che io, da puro
indoeuropeo, vi sono favorevole fn dagli anni Settanta quando non andava certo di moda) altro è
defnirli matrimoni, altro ancora è parlare di adozioni, altro poi pretendere che dei maschi abbiano
il diritto di essere mamme e magari di partorire e così via fno al mercimonio di ovuli e uteri.
Ma anche la controparte svalvola. Perché se è vero che questa campagna s’iscrive nell’offensiva

sovversiva e controiniziatica in atto da tempo, non dobbiamo prendere cantonate.
La famiglia sotto attacco. Quale famiglia? Quella delle coppie slegate dal clan che restano sposate
per qualche anno se tutto va bene; che intendono il matrimonio come un contratto fondato sui
propri diritti e sulla limitazione di quelli del partner? La famiglia o è patriarcale, clanistica, oppure è
un surrogato. Non è affatto vero che sia la famiglia tradizionale a subire oggi l’attacco, lo è il suo
surrogato deformato. Che va anche difeso, non dico di no, ma con ben altro trasporto.
Vanno rivoluzionati, in senso ovviamente tradizionale, la stessa famiglia e, per intero, il suo
rapporto con il tessuto sociale. Altrimenti non posso che citare Drieu anche a questo proposito:
“Né la proprietà, né la famiglia, né la persona possono essere restaurati secondo l’utopia del
passato”.
Idem per l’adozione dei bambini. Si osteggia quella ad opera degli omosessuali ma che immagine
dà la famiglia eterosessuale in cui i coniugi si ammazzano allegramente, sovente sopprimono la
prole e le mamme addestrano baby-squillo? E non mi si venga a dire che si tratta di eccezioni
perché non mi sembrano tanto migliori le mamme cloroformizzatrici e castratrici. Non serve chissà
quale sforzo per rendersi conto dello sfacelo caratteriale, psicologico e perfno sessuale delle
ultime generazioni, specie nei maschi, se si possono ancora defnire così.
Fosse per me, i bambini li toglierei a tutti all’età di tre anni e li educherei spartanamente fno alla
maggiore età.
Non si combatte la vertigine provando ad appigliarsi a un po’ meno vertigine.


Questo per ribadire che la reazione non ha senso se non è illuminata da una co-scienza superiore e
se non è guidata da dei rivoluzionari rettifcatori.
Alla variante nazionalrivoluzionaria, vincente, del leninismo va aggiunta anche un’azione
gramsciana che non è, né può essere, la ricerca del consenso salottiero, può e dev’essere invece
affermazione barbara, sottomessa a stile e disciplina ma pur sempre profondamente selvatica,
trainante il buon senso nella direzione giusta e cruda per farne virus ed epidemia.
“Ricorda sempre che il primo nemico sei tu e lo sei quando assomigli agli altri e peggio ancora
quando cerchi di somigliare a loro”.
Vogliamo un’azione e un pensiero che siano nemici delle concezioni comuni, liberi da ogni
complesso di colpa, d’inferiorità, di accettazione, nauseati da ogni conformismo e dall’idea di
piacere alle vestali del moralismo, del buonismo, dei codici linguistici e comportamentali che fanno
da scudo alla corrosione in atto contro Ercole e contro Apollo, contro Sparta e contro Roma, contro
la Germania e contro la Cavalleria, contro il Pater e contro il Vir.


L’Europa è una necessità assoluta ma essa non sarà mai se non è dapprima identità cosciente e
combattente all’altezza del suo Mito.
La giusta risposta sta interamente in quelle tre parole che, unite tra loro, rappresentarono il
programma di lotta messo assieme nel dopoguerra dalle nostre avanguardie e fornirono la loro
ragione di vita, il loro lascito a noi e quindi il nostro impegno con il destino:
Fascismo. Europa. Rivoluzione.
O per dirla altrimenti, con i nostri antenati: “Hic manebimus optime”.
E se voi tutti, eurofans ed euroscettici, progressisti e reazionari, nemici e quinte colonne,
volete a tutti i costi spogliarci delle nostre storie, delle nostre tradizioni, delle nostre libertà
delle nostre anime, offrendoci in cambio di risparmiare le nostre vite terrene, la risposta
l’avete già, viene da Sparta, risuona dalle Termopili e la suo eco si trasforma in un coro:
“Venitele a prendere!”