L’onore della grandezza, o onorare chi è maggiore di noi, è l’eredità dell’uomo secondo Roma, ed è
per noi moderni un’eredità da far riemergere e comprendere, per noi genti italiche qualcosa che
dovremmo avere la capacità di rievocare in noi.
Non Magnorum, tutti i grandi, perché non è nostalgia del passato, e nemmeno Maximorum cioè i
principi eterni, perché non è una meta ideale irraggiungibile, bensì Maiorum, i migliori tra, i più
grandi tra, i maggiori tra coloro che ci hanno preceduto.
Avorum avrebbe significato la mera provenienza genetica, Patrorum avrebbe ristretto alla sola
eredità storica e culturale, si usò Maiorum, quindi tutti coloro che nello spazio e nel tempo,
tramite il loro esempio, ci hanno indicato la strada per seguire la via di una esistenza retta,
elevata, degna, giusta.
Non l'Abitus, cioè le facoltà di cui è possessore un individuo, né
l’Usus, o la Consuetudo, (benché in ambito legale spesso ad esso
equiparati), cioè la via seguita dalla società o dalle masse, ma il Mos, cioè la condotta
personale, il comportamento, l’etica, la misura con cui i grandi si approcciarono all’esistenza.
Un viatico per migliorare sé stessi e su cui si deve reggere l’uomo e la società.
Sul Mos si fondarono poi le Leggi romane le quali avevano il limite di dover sopperire alla
necessità ed ai tempi, ma i Mores, in ambito sacro, militare, politico, civile e familiare,
rimasero superiori ad ogni norma giuridica, poiché emanazione di ideali immutabili e di una eredità
intangibile.
Essere esempio e seguire gli esempi che precede la legge ed è più in alto di ogni norma scritta,
poiché, a differenza di ogni costituzione umana, il Mos è allo stesso tempo eterno e contingente.
Il Mos, quindi, non come usanza o moda, ma come più alta realizzazione di sé, non il prodotto delle
masse e delle maggioranze ma di un’aristocrazia, come qualcosa che deve sempre guidare gli uomini
attraverso il loro cammino nella storia.
Proprio perché attinge al sostanziale e all’archetipico, il Mos Maiorum ci spinge all’azione
disinteressata, ad ascendere, a migliorarci, a saper affrontare il divenire e il cambiamento con lo
spirito vivo con cui fu edificata e fatta grande Roma.
Festo ci dice al riguardo: "Il Mos è ciò che fu istituito dai padri, è la memoria vetusta degli
antichi riguardante sopra ogni altra cosa la cura delle cose sacre e gli atti da compiere."
Non si può prescindere da una visione sacra, spirituale: essa si realizza nella storia attraverso
la prassi quotidiana che deve guidare l’esistenza di un vero patrizio.
Il frammento di Festo parla di “Sacra”, le cose sacre, ciò che dall’uomo viene riservato al divino,
il tempo e lo spazio che dedica ai principi eterni, che si perpetua nel rito, nella festa, nello
spirito del sacrificio: tutto ciò che trasforma, trascende, trasfigura la nostra condizione terrena
per elevarla al divino e trasmetterla nel culto.
Per i nostri antenati ogni azione doveva principiare con una invocazione agli Dei patrii, essere
mantenuta secondo lo Jus e il Mos, infine terminare con un ringraziamento. Orazio nelle sue Odi
canta: “Se ora (o romano, n.d.r.) domini ancora incontrastato è soltanto perché ti sei mantenuto
fedele agli dei: pertanto ad essi devi attribuire l’origine e la fine di ogni cosa”.
Il Mos spinge a dominare sé stessi, a trasformare in rito ogni gesto, in culto ogni occupazione, si
realizza nell'ordinare spazio e tempo, rinnovandosi nel compartecipare della ciclicità, nella vita
come
sacrificio che riconnette, eleva e finalizza, nel fare propria la visione tragico/eroica
dell'esistenza.
Da questo la necessità dell’azione, degli atti da compiere, perché solo tramite l’agire retto è
possibile percorrere la strada della grandezza.
Una memoria viva quindi che indica soprattutto le cose da preservare, coltivare, i gesti elevati e
che elevano, una profonda fedeltà alla giustizia, all’ordine, all’armonia e alla bellezza, e il
modo in cui ciò vada ottenuto.
Una memoria che affonda le sue radici nell'eternità emergendo dalla sostanza stessa universale, ma
si realizza nei popoli, nelle culture, nelle varie stirpi perché ha insita la volontà di radicarsi
nel molteplice per arricchirsi della complessità.
Questa Idea volle prendere dimora nell’Urbe, nella quale la Robur (la forza), da cui Romolo e
quindi Roma, si impose sulla Remora (la debolezza, il dubbio, l’inazione), da cui prende il nome
Remo e la città di quest'ultimo che sarebbe nata sull'Aventino. Questo ultimo fu colle di Caco
gigante, brigante, tiranno espressione del disordine che venne sconfitto da Ercole: l’Aventino fu
il colle dove per tutta la storia di Roma abiterà ciò che è alieno, estraneo alla città, ospite
(nelle sue molteplici accezioni, sia positive che negative) e quindi estromesso dal pomerio.
Questo ideale di forza ordinatrice che deve imporsi sul mondo ha natali divini, emerge infatti
dall'incontro tra il sangue di Venere (l'amore) e di Marte (la lotta).
Dodici uomini si riunirono intorno al fondatore, dodici fratelli luperci, pastori e guerrieri,
dodici come i caratteri dell’uomo, come i mesi dell’anno, le fasi della vita, come i 12 anni del
viaggio di Giove nelle case del cielo. Questo cerchio rituale fungerà da polo di attrazione per
realizzare il mito civilizzatore in quel crocevia della storia.
Romolo inscrive nel pomerio il cardo e il decumano, fa discendere nell’utero della Saturnia Tellus
(umbilicus urbis) il seme celeste, lì mescola le terre di origine dei padri fondatori, perché si
riuniscano in un solo sangue, accendendo il fuoco sacro di una nuova stirpe in grado di accogliere
la Vittoria alata.
I fratres divenuti patres, devono esercitare la Potestas, dominare sé stessi e proteggere ciò che è
loro affidato, condizione per essere uomini liberi, primo grado del cursus honorum nell'esercizio
delle sacre magistrature a cui deve seguire l'Auctoritas, capacità di far prosperare ciò che gli è
affidato, fino ad assumere su di loro l'Imperium, il compito di portare l'ordine divino sulla
terra, rappresentato dall'aquila di Giove.
Così le verghe dei dodici si legano attorno all’asse della scure, formando il fascio littorio.
Nasce la Res Publica nel vincolo istituito tra guerrieri delle Gens primigenie, S.P.Q.R. sarà il
ricordo costante del patto sacro vivificatore reso di fronte al nume della fedeltà (Dius Fidius) e
padre della giustizia (Jus Pitar), di mantenere il vincolo tra tutti i cittadini e i principi
luminosi che reggono il mondo, il patto con gli Dei, la Pax Deorum.
Il primo Rex, ha tracciato la retta, ha dato la direzione, ha stabilito il confine tra ordine e
caos, ha siglato il patto perché, questo legame tra sangue e suolo, questo nuovo popolo, possa
essere la guida delle genti.
Questo privilegio frutto della volontà Romulea va conquistato di generazione in generazione col
sacrificio.
All'operosità dei Cives (coloro che abitano), al sangue dei Miles (coloro che si muovono),
all’esempio dei Magistratus (coloro che ammaestrano), alla cura dei Flamines (coloro che
custodiscono la fiamma), alla guida dei Patres ed alla devozione delle Matronae si deve la
grandezza di Roma.
Sul colle di Pales si riunisce l'insieme dei Quiriti, la Curia, (co-viria), cioè unione dei Vir.
Vir è colui che segue ed esercita la Virtus, la forza che fiorisce in chi governa la propria anima.
La virtù è la strada dell'eroe, dell'asceta guerriero, di colui che accetta l'eredità del
sacrificio e che incarna lo spirito tragico, il "vita militia super terram".
Il mos maiorum è l’axis mundi dei figli della Lupa, ultimo ricordo dell’età degli eroi, che indica,
agli uomini dell’età del ferro, la strada del cielo sotto l’insegna dell’Aquila imperiale.
"Sebbene la natura abbia destinato per tutti la morte, la virtù, che è propria della stirpe e della
gente romana, è solita respingere la crudeltà e il disonore della morte. Conservate dunque questa
virtù, Quiriti,
che i vostri antenati vi hanno lasciato in eredità. Tutte le altre cose sono false, incerte,
caduche, instabili: la virtù soltanto è fissa con radici saldissime;
la quale mai può essere scossa con alcuna forza,
mai essere smossa dal posto."
[Cicerone]
Solo il Vir è l'uomo libero! La dea Libertas non è, come si pretende oggi, un diritto da esigere o
pietire, ma un principio da manifestare, affermare, coltivare, onorare. Essere liberi significa
emanciparsi dai vincoli dell'essere per guadagnare l’essenza, non vivere in balia degli eventi, dei
desideri disordinati, dei vizi, della paura ma con forza opporsi alle tendenze basse e contrarie
che si manifestano dentro e fuori di noi.
Affrontare la decadenza interiore permette di agire contro il nemico da combattere, allo stesso
tempo lottare, senza alibi o giustificazioni, contro l’ingiustizia e la bassezza, ci consente di
rettificare la nostra interiorità.
Chi è libero imprime la sua volontà ordinata in ogni suo atto: il gesto si fa arte, si dirige al
bene, si imprime una direzione al destino nell’accettazione della propria sorte, che implica essere
degni del proprio tempo affrontando il dolore e la morte, percorrere il cammino dell'esistenza per
affermare l’origine Eroica e Divina dell’uomo.
La virtù non si acquista con mezzucci, non si dissimula, né si può imporre al popolino, si
autoimpone ed emerge in chi la esercita, nell’uomo retto che con cura intransigente la stabilisce
su di sé e su ciò che gli è affidato.
Questo è lo sforzo, ad imitazione dei Maggiori, per realizzare il mondo ideale partendo da sé
stessi. Invocare le forze numinose, traendo dal Sangue degli eroi e dallo Spirito degli immortali,
il coraggio e la sapienza per compiere il proprio destino.
Come Ercole si devono affrontare i dodici mostri che sbarrano la strada del cielo.
Solo attraverso la costanza e l'esercizio si ottiene la Virtù, solo attraverso l'esempio, l'impegno
e l'abitudine la virtù può emergere in chi la coltiva, solo la lotta consente di cingere il proprio
capo di Alloro e di raggiungere i campi Elisi.
La virtù è un mero esercizio della volontà o di una forza bruta e disordinata se non si orienta
verso il retto agire per elevare e liberare l'uomo dai vincoli schiavili del vizio e della viltà.
Per fare questo è necessaria la Pietà, Pietas.
Pius proviene dalla radice “PU-“ che indica purezza, il divenire chiari, limpidi, bianchi, di
conseguenza sciolti da vincoli, macchie, distorsioni.
Nella accezione Latina, Pio significa colui che indirizza le proprie azioni con amore, dovere,
responsabilità, coraggio verso ciò che mantiene il proprio agire ordinato, slegato da bassi e
distorti attaccamenti. Questo, secondo i romani, si realizza in chi indirizza le proprie azioni
verso tre soli legami sacri ed inscindibili, per i quali sia non solo possibile, ma anche
necessario affermare la propria volontà e giustificare l'uso della forza: il sacro, la società e la
famiglia.
La pietà è quindi il vincolo di religione che emerge e viene esercitato dall'uomo puro, il Pio, che
agisce non per sé stesso o per un capriccio ma per la difesa dei principi spirituali, per i vincoli
sociali, per i legami di sangue e d’amore.
Solo agendo con distacco e per tali legami secondo giustizia è possibile compiere un’azione
realmente disinteressata e quindi affrancarsi da desideri disordinati che generano la degenerazione
e la decadenza.
Virgilio definisce Enea, Pio, per sottolineare che la sua fuga da Troia non fu conseguenza di un
atto vile, (paura di morire o egoistica ricerca di salvezza), ma scaturì dal dovere di preservare i
propri Dei, la propria cultura e la propria stirpe.
Properzio nelle Elegie afferma: “Siamo potenti tanto per la spada, quanto per la Pietà”.
Una società anche se fondata su uomini forti e retti non può sussistere senza che vi sia alla base
l'affetto reciproco e l'amore, il desiderio di unità che si sviluppa tra anime affini, l’amicizia.
La fedeltà ad una visione del mondo che unisce su uno stesso suolo differenti uomini da cui prende
forma la razza. L’amore non solo come scelta estetica o sentimentale ma come condivisione d’ideali,
perché il desiderio di unione scaturisca dalla volontà di dare alla luce qualcosa che ci trascenda.
Fondarsi nell’amore, ricercando l’unità con persone valide e affini con cui aderire a un destino
comune è una virtù fondamentale. La rinuncia all’amore è manifestazione di fragilità interiore, è
il cedere alla paura che spinge all’individualismo, al disinteresse, alla sterilità.
La vita non ci appartiene, sia ben chiaro, ma possiamo decidere come spenderla. Se l’amore ci dà la
forza vivificante è altresì necessario sapere incontrare la morte. Il guerriero non è solo colui
che dà la morte all’avversario ma anche colui che sa come morire: solo se si è disposti a morire
per i propri ideali si è in grado di difendere, dalla ferocia dei nostri nemici e dalla stupidità
dei miseri, il mondo che amiamo.
Non solo sarà necessario accogliere l’idea della morte, ma ricercare l’ambiziosa morte, cioè una
fine degna di un uomo. Consapevoli della eternità dell’essere e della finitezza del corpo
affrontare l’esistenza con ardimento. L’esistenza è come una candela che una volta accesa va
incontro alla consunzione, sta a noi decidere, nel tempo che ci è concesso, cosa illuminare e cosa
riscaldare con la nostra fiamma.
Il romano si accosta alla morte come ad una festa, con distacco e serenità. Alla base del suo
rapporto con la morte, oltre alla consapevolezza dell’eternità dell’anima, vi è il comprendere che
coloro che cedono al male per viltà o interesse, danno il mondo in mano alla decadenza, quelli che
sono disposti ad arrendersi o ad accettare le condizioni del nemico per avere salva la vita,
condannano il proprio sangue alla schiavitù.
Orazio ci ricorda attraverso le parole di Attilio Regolo che non è con la resa che si può salvare
la patria e che una volta perso l’onore non si può riscattarlo né con l’oro, né col compromesso, ma
col sangue: “Credete che soldati riscattati con l’oro ritorneranno in patria impazienti di
combattere?
Volete dunque aggiungere il danno al disonore!
Come la lana intinta nella porpora non tornerà mai più al colore di un tempo, così il vero valore,
una volta perduto, di certo non si affretterà a rinascere nell’animo dei vili.
Come se una timida cerva, sciolta la stretta delle fitte reti, ritrovasse il coraggio di
combattere.
Sarebbe allora prode e vigoroso chi si è arreso al perfido nemico? Dovrebbe così schiacciare i
Cartaginesi in battaglia chi ha sentito i lacci stretti sulle braccia legate rimanendo inerte e
colui che ha temuto di affrontare la morte?
Costui, che non sapeva come fare a salvarsi la vita, arrendendosi ha scambiato la pace con l’onore.
Quale vergogna!”
Ora la paura della morte porta con sé l’idea di tempo lineare e progressivo. Questa emerge dalla
perdita del centro e si fonda su una visione materialista ed ego centrata dell’esistenza,
dall’illusione
fenomenica di essere incatenati ad un inizio ed una fine a cui speriamo di sottrarci attraverso un
continuo progresso (materiale o spirituale), che interrompa il dolore, la morte e il divenire per
eternizzare la condizione esperienziale dell’Io.
Questa visione quantitativa causa attaccamento, desacralizza l’esistenza, occulta l’Archetipo,
sostituisce la Tradizione, assolutizza vita e morte nella ricerca di sottrarsi ad un destino subito
e fuggire alle prove dell’esistenza di cui, il moderno, non comprende più il senso.
L’uomo tradizionale, custode di un’autentica visione spirituale, comprende la natura ciclica ed
impermanente del tempo, sublima la corporea paura della morte attraverso la consapevolezza
dell’eternità dello Spirito. Egli vive in connessione coi ritmi naturali emanazioni eterne del
divino, e vede nei cicli cosmici la manifestazione della sua sostanza ordinatrice, lo Jus.
Il calendario è l’eterno presente con cui si esperiscono i cicli lunari (Kalendae) e solari, le
stagioni (nascita, vita, morte, purificazione), le fasi planetarie con cui ci si accorda. Si
contempla, in questa musica delle sfere, la manifestazione dell'ordine divino e dell'armonia
universale: vivere in consonanza con i cicli significa partecipare di un ordine più grande. Nulla è
statico, tutto fluisce continuamente intorno all’Uno: nascita, crescita, declino e morte sono fasi
di un unico respiro.
Questa consapevolezza libera dall'attaccamento alle cose materiali e transitorie, consente la
liberazione dell’essere dalle catene della paura e della morte: non più avvinti disperatamente a
ciò che è effimero e passeggero, si comprende che vi è un asse eterno ed immutabile attorno al
quale tutto ruota.
I rituali, le feste, i miti tramandati non sono memoriali del passato, ma l’eterno rinnovarsi di
eventi primordiali, di archetipi divini.
Rivivendo, rinnovando di generazione in generazione, giorno dopo giorno, nelle festività
l’Archetipo, la Comunità, compartecipa dell’eternità, si riunisce intorno al fuoco di Vesta
ricollegandosi alle proprie origini identitarie e celesti.
La morte non è percepita come definitiva e terrificante, ma come una fase naturale di transizione
all'interno di qualcosa di più grande, proprio come l'inverno è una fase del ciclo annuale che
prelude al ritorno della primavera.
La morte è il ritorno alla "fonte", al "grembo cosmico" da cui la vita emerge per poi rinascere in
nuove forme: allora l’"immortalità" non è più una aspirazione egoica o individuale, ma simbolica e
spersonalizzata. Attraverso la partecipazione alla comunità, alla
propria tradizione, alla natura, l'individuo sente di trascendere i limiti della propria esistenza
individuale.
I maggiori, in questa prospettiva, non sono ignoranti e vetusti cavernicoli, ma custodi della
sapienza primordiale, figure rispettate e tramandate. La consapevolezza di essere parte del tutto
ridimensiona l’ego perché ci si percepisce come organici all'interno di un sistema più vasto e
complesso, soggetto a leggi e ritmi che trascendono la volontà personale, ai quali ci si accorda,
conforma e con i quali si collabora.
La virtù, per il Mos Maiorum, non consiste quindi nell'innovare rompendo con il passato, ma nel
rispettare e tramandare la saggezza ed i valori superni, poiché l’uomo tradizionale non avverte,
nel mutare delle forme esteriori, alcuna sostanziale trasformazione. Le virtù stesse non sono
concepite come astrazioni morali scollegate dal mondo, ma come qualità radicate nell'ordine del
tutto: la giustizia può essere vista come l'equilibrio armonico dei cicli, il coraggio come la
forza di affrontare le fasi difficili, la saggezza come la capacità di comprendere i ritmi e di
agire in armonia con ciò che ci circonda e così via.
Ma noi non chiediamo né potere, né ricchezze,
ma la libertà, che nessuno che sia un vero Vir perde
se non insieme con la vita.
(Sallustio)
Per giungere ad una più alta consapevolezza è necessaria la disciplina personale (disciplina
maiorum): governare sé stessi, moderare i propri desideri ed appetiti, evitare gli eccessi,
esercitare l’autocontrollo, rifiutare il superfluo. La Virtù dell’astinenza, cioè la rinuncia al
possesso, al guadagno, al tornaconto personale è fondante poiché il desiderio di possedere porta
con sé l’attaccamento alla materia che non consente il distacco necessario ad affrontare il
combattimento.
Bisogna vegliare, perché spesso si maschera con l’ideale solo la ricerca di propri interessi,
magari elevati, ma che nascondono il desiderio di ottenere dal mondo ciò che desideriamo per noi,
dimenticandoci di essere noi a dover incarnare i principi di cui siamo dimora in potenza.
Non agire per un premio ma per ciò che è giusto, per ciò che è bene: in questo il romano trova il
primo più grande compenso. Quando farà affidamento sul valore dei mercenari Roma conoscerà la sua
fine.
Una società ordinata non è guidata dagli appetiti degli individui, ma dalla dirittura dei suoi
uomini e dalla coesione che essi dimostrano di fronte alle avversità, alle limitazioni, alle
carestie, alle battaglie per la preservazione della propria visione del mondo, della propria
stirpe, della propria libertà e unicità.
Disdegnare il lusso e le comodità quindi, non per mero pauperismo, ma per vivere seguendo natura,
apprezzando ciò che si conquista con la fatica e coi propri mezzi: in questo c’è la Vittoria.
Non essere dipendenti dalle mode, dalla pubblicità, dal consumo ma ricercare le cose essenziali al
vivere bene, in modo sano, bello, buono.
La felicità è in noi stessi, non nelle cose che pensiamo ci servano, ma che in realtà ci rendono
servi, questa non è una frase facile, ma è la difficile arte di saper cogliere la bellezza nascosta
nelle piccole cose di ogni giorno che non si comprano, si contemplano: ecco il lascito degli avi.
Perché si realizzi un reale distacco dalla materialità bisogna mantenersi equidistanti anche nei
giudizi, ricercare sempre l’equilibrio, una posizione terza, non cadere in tifoserie,
partigianerie, facili estremismi, non scegliere ciò che più ci piace, ma ciò che è vero, bello,
importante, alto. La peggiore forma di attaccamento materialista è l’ideologia che si maschera da
principio spirituale.
Essere giusti al di là delle fazioni senza cedere al desiderio di successo, di vittoria a tutti i
costi, senza semplificazioni di comodo, senza indulgere in privilegi settari e favoritismi.
Comportarsi in modo onesto, imparziale ed equidistante, sfuggendo alla faziosità, rifiutando ogni
visione rigidamente dottrinale per sostituirla col retto agire.
Una volta usciti dai recinti mentali degli schieramenti, si può realmente farsi autori della storia
e del proprio destino, si può seguire la Verità ovunque essa ci conduca, guardare in faccia la
realtà, puntare alla costruzione di un mondo ideale.
L’uomo emancipato da attaccamenti ed egoismi può veramente essere libero e mettere a disposizione
della comunità la propria esperienza e le proprie capacità, rispondere alla chiamata e dimostrarsi
degno del proprio ruolo nella storia. Saper accrescere nel bene ciò che ci è stato affidato, avendo
prima di tutto cura di noi stessi, dei nostri sodali e del contesto di cui facciamo parte.
Non fuggire le responsabilità aspettando che qualcun altro agisca al posto nostro, ma con l’esempio
indicare la via. Questo implica che non si possa manifestare solo a parole l’ideale, vivendo nel
compromesso e nella accettazione passiva di una realtà imposta, ma vivere è realizzare l’ideale in
ogni atto della propria esistenza, nel quotidiano, nel proprio lavoro, nella propria famiglia,
nella propria condotta: solo così si può cambiare il mondo.
Per fare questo bisognerà smettere di accontentarsi di riconoscere e contestare il male che ci
circonda, per ricercare invece il bene che si può trarre da ogni cosa e che si può realizzare.
Compiere per inedia, rassegnazione, o comodità ciò che è contrario al bene e ai propri ideali
significa uccidere giorno dopo giorno tutto ciò in cui si crede e quindi sé stessi. Questo genera
persone grette, false, rancorose, vuote, scontente, lamentose.
Bisogna invece agire per il bene (quello vero) proprio e dei propri “Coviri”.
Nutrire la benevolenza verso il mondo e gli altri, non significa accettare e non combattere il male
che vediamo, ma esattamente il
contrario, ricercare il bene e lavorare perché esso si accresca. Ciò si traduce nell’agire
amorevole, cortese, nobile, disinteressato sapendo trovare gli aspetti positivi anche nelle
sconfitte e nelle difficoltà. Avere attenzione per ciò che ci circonda, per i bisogni dell’altro,
sostenere in ogni ambito la realizzazione del bene, senza gelosie o invidie, questa è benevolenza,
cioè volere il bene, la buona volontà in tutte le sue accezioni, ovvero la forza interiore ordinata
che rende capaci di edificare il mondo ideale di cui tanto parliamo.
Odisseo Outis, dopo una gioventù passata espugnando castelli ha preso il largo con una ciurma per
fare ritorno alla sua isola. Ha rifiutato i fiori del loto, accecato il ciclope, amico del vento,
ha combattuto coi giganti, ha visitato gli inferi e rifiutato l'immortalità, ha udito il canto
delle sirene, lottato coi mostri dell'abisso, si è liberato della prigionia del nascondimento ed è
naufrago in terra straniera. Attende di riprendere il viaggio per liberare la sua isola
dall'invasore e riabbracciare la sua amata.
Attualmente lavora per il ritorno della Tradizione e anima il progetto comunitario Nova Saturnia.
I nostri maggiori, non mancarono mai né di raziocinio né di audacia;
né v'era superbia che impedisse loro di imitare istituzioni straniere, se erano valide; ciò che
presso alleati o nemici appariva buono,
cercavano di replicarlo con grande perizia in patria: preferivano imitare piuttosto che invidiare i
buoni esempi.
(G. Cesare)
Per ricercare il bene si dovrà saper comprendere le ragioni dell’altro, persino del nemico: la
rigidità è una semplificazione della realtà tipica delle anime deboli. Ciò richiede l’attitudine
alla clemenza che comporta la forza necessaria ad accettare l’imperfezione del mondo. Anche
l’accanirsi contro un nemico in difficoltà o sconfitto è una cosa vile e animalesca, come ci
insegna l’Eneide.
Properzio sempre, afferma: “dall’ira si astiene la mano della Roma Vittoriosa”.
Al culmine del foro, ai piedi del Campidoglio, accanto alla Curia, sorgeva il tempio della
Concordia nel luogo dell’incontro e delle decisioni, del culto e della memoria fondativa, a monito
ché nulla può sussistere senza l’unione dei cuori. L’essere un cuore solo, condividere comuni
ideali, obiettivi, speranze, principi, senza imporre il proprio ego, ma cercando l’unità con
l’altro senza mai uscire fuori dalle direttrici della verità, della giustizia, della realtà.
Concordare non significa sottomettersi all’opinione degli altri o della maggioranza, ma piuttosto
ritrovarsi intorno al medesimo fuoco per contribuire tutti a mantenerlo acceso.
Intorno ai fuochi ci si siede a consiglio, si tace insieme cioè, per mettersi in ascolto, saper
chiedere e darsi il tempo per comprendere e far maturare le idee. Confrontarsi e cercare di
giungere a strategie condivise non implica il compromesso, ma fa parte della forza con cui si
difendono e si realizzano le proprie idee. Quiriti sono coloro che si riuniscono in un consesso di
virtuosi e sanno motivare le proprie scelte e valutare le proposte, sanno accogliere gli
insegnamenti dei sapienti e rifiutare i vaneggiamenti degli stolti.
Questa capacità di confronto presuppone una coerenza interna, poiché solo chi è centrato può
difendere le proprie idee e valutare le idee degli altri.
I contesti mutano, le persone vanno e vengono, le difficoltà non si fanno attendere, se ci si
lascia sopraffare si diviene bandiere che seguono sempre l’ultimo vento che soffia, il forte invece
resta constante nei propositi e mantiene la posizione, indipendentemente dai risultati o dal
successo: il più grande guadagno è conquistare in sé la virtù. Saper cambiare idea, accettare gli
insegnamenti della vita, adattarsi ai contesti non inficia la nostra fermezza. L’uomo tradizionale
non è rigido, la sua rettitudine si fonda sui presupposti dell’atto, sui suoi fini alti e sulla
capacità di perseverare nella lunga marcia verso il fronte.
Per mantenersi fermi anche in un mondo liquido in continua oscillazione è necessario saper
coltivare la propria interiorità, il campo dello Spirito va arato, mondato, seminato, accudito,
mietuto e raccolto. Occuparsi della propria spiritualità, curare la propria interiorità attraverso
la costanza, nutrire l’anima con principi luminosi, preservare la ritualità feconda e mantenere un
rapporto con il divino sacralizzando la propria esistenza, è parte fondamentale di ogni ascesi.
Onorare Dio, gli Antenati e la patria fa parte del lascito della civiltà e deve essere la colonna
che sostiene la persona nelle lotte della vita. Cotta nel “De natura deorum”, contro ogni filosofia
nuova e dottrina allogena, sentenzia: “io devo difendere gli insegnamenti sugli Dei immortali, le
sacre cerimonie e la religione che ci sono stati tramandati dai Maggiori”.
Quel patto degli antenati stretto col divino non può essere mantenuto se non nella Giustizia e
nella Tradizione, attenersi a tali direttrici è il metro di ogni ideale, ogni azione, ogni sforzo
sul piano fisico, psichico, spirituale, poiché se anche ci si dovrà confrontare
col proprio contesto storico, non si dovrà mai prescindere dal perseguire il bene superiore.
Ogni nostro intento venga, dunque, valutato per la sua bellezza ed armonia!
Cos’è la bellezza, se non il riconoscere in essa l’ordine divino? E l’armonia, se non l’equilibrio
tra tutte le parti?
Un metro estetico è allora un badare alla forma e non alla sostanza? La sostanza è ciò che conta,
si obbietterà: ma come può essa manifestarsi se non emerge e si realizza nella forma e nell’atto?
Così il curare la propria persona e le cose a noi affidate anche nell’estetica e la formalità può
divenire una palestra etica per il Vir. Il gusto, l’ordine e l’essenzialità in ciò che traspare
sono riflesso di romanità.
E se Roma richiede in noi un richiamo alla forma, sia chiaro ai moderni, che questo non è mai per
dare sfoggio di sé, mettersi in mostra, ma ciò va fatto proprio in controtendenza con
l’esibizionismo moderno: preservare una propria intimità, disprezzare l’esposizione, amare
l’impersonalità, sono i valori del Pudore. Questa virtù perduta ci insegna a conservare il nostro
mondo interiore solo per noi senza svendere tutto ciò che ci riguarda per vanità, in pubblico, sui
social, o nel circo mediatico. Ci insegna anche a saper stare in silenzio, a essere custodi di
segreti, a preservare le confidenze, a non parlare di cose che non ci riguardano, di persone
assenti, non indulgere in cose volgari e superflue. Non nei proclami o nell’ostentazione ma nel
retto agire è l’unica affermazione.
Se gli Avi ci invitano ad essere sinceri, questo non coincide con l’essere incontinenti, ma persone
senza piega, che non si piegano alle circostanze, cioè senza macchie, maschere, quindi lineari,
diretti, incuranti del pensiero altrui: persone che avanzano rivestite solo dei propri principi.
Non vivere dietro ad una immagine falsa e costruita di sé, ma mostrarsi per ciò che si è, essendo
tutti d’un pezzo.
L’unione tra pudore e sincerità porta ad avere in ogni situazione un atteggiamento dignitoso,
questo non è maschera, o dissimulazione, ma presentarsi con franchezza austera mantenendo il
dominio dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Mantenere un atteggiamento distaccato di
fronte ai successi, ma anche di fronte alle avversità, alle sconfitte, agli errori (costantia in
adversis rebus): il non lamentarsi del dolore, delle fatiche, della noia, della
stanchezza, ma allo stesso tempo ammettere i propri limiti, impedimenti, difficoltà, problemi.
L’assenza di dignità è quanto mai visibile in chi sa solo lamentarsi e indulge nella polemica,
discute gli ordini, contesta ogni autorità, punta i piedi nel momento dell’agire, si piange
addosso. Ciò non serve, rallenta il gruppo, avvantaggia il nemico, fiacca la volontà, crea
confusione ed ammutinamento. Obbedire, rispettare gli ordini di chi, per merito o per dovere, ha su
di sé l’onere e la responsabilità di guidare l’azione è fondamento dello spirito Legionario e si
chiama disciplina. Una volta stabiliti i ruoli, intrapresa l’azione si resta fedeli e si portano
avanti le consegne senza discutere. La disciplina non è una imposizione dei superiori, ma un
obbligo di fedeltà che si esercita su noi stessi.
La critica e la correzione saranno utili, ma andranno svolte nel prima e nel dopo: nel durante,
l’indisciplina è solo frutto di orgoglio, debolezza, egoismo.
«Bisogna costruirsi la propria vita azione per azione,
e ricercare che ogni singolo risultato sia conforme alle proprie possibilità: nessuno può impedirci
di raggiungerlo. E se sorgesse qualche ostacolo esterno non sarà mai tale da impedirci di agire con
giustizia, distacco e discernimento.»
(M. Aurelio)
Come ci mostra il Mos Maiorum, le parole, le idee, i sogni, le promesse sono nulla se ad essi non
segue l’atto realizzatore. L’esempio è da seguire, l’esempio è da incarnare, l’esempio è ciò che
dobbiamo essere per chi lotta al nostro fianco, ma anche per risvegliare gli animi assopiti,
spaventati, confusi. Saper trarre fuori da noi e dagli altri il meglio per seguire la via
dell’ideale e della stirpe.
Seneca ci dice: “lunga è la strada per mezzo degli insegnamenti, breve ed efficace per mezzo degli
esempi […] la vita va plasmata sugli esempi luminosi”.
Questa è vera fedeltà, non quella delle parole, ma quella della risoluzione di vita che implica
l’adesione alla Verità di ciò che affermiamo: essere veri, affidabili e onesti, coerenti coi propri
principi, mantenere la parola data, portare a termine i compiti, sapersi comportare ed eseguire i
nostri doveri. Dare fiducia a chi se la merita, punire chi tradisce ed essere degni della fiducia a
noi accordata sono le tre componenti che realizzano la Fedeltà, essa deve essere il fondamento di
ogni etica guerriera.
La fedeltà si fonda sulla verità ed è sostenuta dal desiderio di imitare gli eroi, i miti, coloro
che ammiriamo. Compiere solo le azioni degne dei nostri Maggiori conduce alla Gloria, che non è un
orpello da ostentare, ma una conseguenza del donarsi e dell’incarnare gli ideali.
Se è necessaria l’azione perché si realizzi il mondo che sentiamo dentro di noi, il Mos ci ricorda
la necessità di agire solo dopo aver ragionato sulle conseguenze e solo dopo aver messo in atto
tutti i mezzi necessari al raggiungimento degli obiettivi senza compromettere il lavoro fatto, la
propria eredità materiale e culturale: non mettere a rischio se stessi e gli altri per l’impazienza
di agire, ma preservarsi per il momento in cui sarà richiesto il coraggio. Questa è la virtù della
Prudenza che ci impone di non seguire l’istinto e il desiderio, ma ponderare e rischiare solo
quando necessario, utile e richiesto.
Percepire il peso e l’importanza delle proprie azioni, quindi, ci insegna a non cedere alla
leggerezza, ma a capire l’importanza di mantenere l'autocontrollo in ogni situazione: essere lucidi
e imperturbabili. Avere un atteggiamento serio, calibrato, responsabile, attento, preciso,
puntuale, come richiedono le circostanze. Il vivere virtuoso è gravità nell’agire per il romano,
intesa sia come la percezione del peso delle cose, sia come capacità di centralizzazione e
attrazione che si esercita verso le proprie responsabilità.
Sarà necessario comportarsi quindi nel modo migliore possibile a seconda del ruolo che rivestiamo,
delle proprie capacità, del contesto in cui operiamo e della situazione in cui agiamo. Onore
significa, in pace o in guerra, con gli amici e con i nemici, comportarsi in modo giusto, degno ed
elevato.
Non è degno dell’uomo sguazzare nell’istinto, nella volgarità e nel bieco materialismo, insieme al
corpo sottoposto al duro esercizio, si devono nutrire l’anima e la mente. Non è proprio questo lo
scopo dell’umanità verso sé stessa?
L’ozio per i romani non era il poltrire, ma dedicare del tempo al silenzio, alla meditazione, alla
calma, allo studio ed alla contemplazione. Il forte non è il rumoroso, l’esagitato, l’irrequieto,
l’ignorante, il nevrotico, ma una persona centrata, che tacita le emozioni, che si ascolta e sa
ascoltare, che si documenta, ragiona e domina la mente. Solo concedendosi del tempo per lo studio,
l’elaborazione e la meditazione si può comprendere come, quando e perché agire.
Accanto all’ozio, la romanità ci invita all’industria, il rendersi operosi, sul piano fisico,
intellettuale e spirituale, lavorare perché l’idea prenda forma: la dedizione quotidiana ad uno
stile e ad un’etica che deve trasformarsi in lavoro costante e quotidiano per l’edificazione di ciò
che crediamo, che deve convivere e coincidere con il lavoro con cui ci sostentiamo. Non cedere alle
logiche dei mercanti: lo scopo del nostro lavoro non è arricchirsi o avere successo ma arricchire
il mondo in cui viviamo e fare ciò che è giusto, bello, importante.
Agire incuranti della quantità, tornando al dominio della qualità, affinché sostentarsi sia il
mezzo per manifestare bellezza e tendere all’elevazione.
Dovere di ogni uomo è ricercare la sostanza delle cose, comprendere le ragioni dell’esistenza,
difendere l’ordine universale nel particolare e riflettere sul piano terreno i principi che
promanano dalla dimensione spirituale. Da ciò deve emergere la nostra legge, per l’affermazione di
ciò che è bello, buono, armonico, luminoso.
Questa è la Giustizia che può anche non coincidere con le norme scritte di uno stato ma che è
l’unica a doverci guidare.
Non possiamo piegarci se non all’impero di agire per i più alti principi, insorgere ogni qual volta
si renda necessario per difendere i focolari e gli altari della patria: libero sarà colui che
percorrerà il sentiero dell’esistenza seguendo la via che porta alla vetta.
La grandezza di quest’anima rinnovata, rende capaci di condivide la propria forza con chi ne ha
bisogno per elevarsi tutti.
Temperare e temperarsi, darsi sempre una misura, divenire padroni del tempo, comprendere i nostri
difetti, i nostri limiti, i nostri vizi e le nostre debolezze per dominarli, acquietare le passioni
disordinate, limitarci per liberarci da ciò che ci limita. Vincere sé stessi è la vera Vittoria. Si
faccia della propria coscienza come si fa di una spada, forgiandola nel fuoco, modellandola col
martello e l’incudine, temprandola nell’acqua.
Solo allora questa nostra Era potrà rivedere la Maestà che è la luce che promana dai Maggiori, che
deve essere incarnata dal Rex, dal Pater, dal Vir, in essa risplende la fierezza dell’appartenenza
ad una stirpe, una storia, una cultura, il desiderio di ascendere, la volontà
di ritornare ai regni iperborei ed indicare la via del cielo alle generazioni future.
La Nobiltà del patrizio allora non sarà, come oggi, solo un titolo ereditario ma tornerà ad essere
Spirito da perpetuare, virtù guerriera e legionaria da seguire, perché si sia dei Princeps, cioè
primi tra pari, coloro che per primi accorrono alla chiamata.
Tu, o Romano, ricordati
di reggere i popoli con autorevolezza
e di imporre pace con giustizia,
di risparmiare gli sconfitti
e debellare i superbi.
(Virgilio)
Nessun cambiamento che auspichiamo nel mondo può partire da qualcosa che sia esterno a noi. Bisogna
passare dall’essere Uomini (humus, fatto di materia) all’essere Virili (forza frutto dello spirito
e della volontà).
Colui che non è Virile si rivolge all'esterno per cercare soluzioni ai propri problemi: si affida e
spera in forme di governo, istituzioni, leggi, leader carismatici, ideologie, compromessi, sperando
che siano questi elementi, subiti dall’esterno, a guidarci verso un cambiamento o un ritorno.
La vera riemersione di una “Aurea Aetas” non può che germogliare da dentro di noi. È un seme che
discende dal mondo dello spirito e che va piantato nel nostro Humus, infine deve germogliare dalla
Volontà. Questo tesoro perché si possa trasmettere nella stirpe deve essere nutrito con costanza e
dedizione.
Siamo noi l’avanguardia del mondo che vogliamo vedere risorto. Perché avvenga questa trasformazione
interiore, è fondamentale dare una direzione alla vita, riconnetterci a qualcosa di più grande di
noi, fare in modo che la nostra esistenza sia guidata dai principi eterni, celesti ed elevati che
promanano dalla via indicata dai nostri antenati. Ricercare di attingere dall’esempio dei Maggiori
sarà utile per nutrire gli aspetti divini che devono orientare ognuno di noi.
I maggiori, gli eroi fondatori, i padri della patria, i grandi della storia hanno trasformato il
mondo sacrificando sé stessi alla causa, hanno coltivato una visione interiore, che li ha spinti,
nel bene o nel male,
a seguire i propri ideali indipendentemente da tutto, agendo con coraggio e determinazione.
Questa fase necessaria e preliminare di costruzione di sé stessi, di una comunità, di una propria
realtà, non significa rinunciare all'impegno politico o sociale, anzi è il presupposto
irrinunciabile di ogni azione concreta che possa incidere nella storia. Ogni iniziativa volta ad un
cambiamento di ciò che ci circonda ha bisogno di solide fondamenta interiori, ma anche di
realizzare per gradi le strutture ed i mezzi pratici perché le nostre peregrinazioni mentali
possano concretizzarsi.
Perché possa risorgere Roma, la Roma eterna, devono prima rinascere i romani e perché rinascano i
romani c’è bisogno di un mito unificante che susciti le forze in grado di guidare le coscienze
attraverso le prove e i sacrifici che qualsiasi impresa richiede. Una volta edificatici intorno a
dei valori fondanti in grado di imporre dedizione e ardimento, sarà possibile e necessario
costruire nel reale tutte le strutture in grado di sostenere la loro perpetuazione e di affrancare
questo popolo rinato dai ricatti della contingenza e dalla dipendenza dalle strutture aliene.
Si costruirà un “Castrum”, una “cittadella fortificata”, che possa sostenersi e far fronte a tutte
le esigenze della comunità, renderla autonoma dai paradigmi del nemico sul piano spirituale,
sociale, pratico (politico, economico, ecc.). Sarà necessario poi tramandare l’opera, renderla
credibile, all’altezza dei propri obiettivi, farla avanzare nello spazio e nel tempo.
Riteniamo che tutto questo debba attingere alla Tradizione che ci insegna che solo attraverso una
ortoprassi si può realizzare qualcosa di autentico e significativo. La virtù, di cui abbiamo fin
qui argomentato, è la forza di dare una direzione, una dignità ed una autentica nobiltà al nostro
esistere, per essere veramente liberi e realizzatori delle promesse a noi affidate.
Le forze divine che operano nella storia albergano nel cuore di ogni Uomo ed attendono di essere
corrisposte con la nostra adesione fedele e perseverante alle più alte aspirazioni dell’anima.
Perché il mondo torni a risplendere, dobbiamo fondare le nostre azioni su principi eterni come la
giustizia, la bellezza, l'armonia, l'ordine, l'equilibrio, l’amore e l’azione disinteressata, pura,
elevatrice.
Tutto ciò di cui abbiamo bisogno vive eternamente nello spirito, nel sangue e nel suolo.
Amiamo dunque, le nostre origini, la nostra storia, la nostra cultura, la nostra umanità, la natura
e la terra in cui viviamo.
Ogni azione orientata e retta, per quanto piccola ed insignificante porta con sé il seme del
ritorno e della bellezza.
Abbiamo più volte parlato del doversi rendere esempio, perché solo rendendosi esempi, si potranno
ispirare gli animi di chi ci è accanto, attirare a sé persone simili ed affini. Solo nell’atto
realizzatore si potranno mettere alla prova la volontà e la purezza di intenti dei nostri sodali,
solo manifestando il mondo che idealizziamo potremo fare i conti col reale e mettere le basi per il
cambiamento.
È necessario non chiudersi ed isolarsi, naturalmente, anche se si può avere la tentazione di
arroccarsi, è importante cercare la sinergia con altre persone che vivono ideali alti, puri e
lavorare per darsi una direzione e una guida.
La mentalità ideologica, dogmatica ed assolutista che ereditiamo da secoli di decadenza non aiuta,
perché ognuno ricerca nell’altro una ortodossia ed una uguaglianza irrealizzabili nella realtà,
questo fa sì che ogni progetto naufraghi a causa dei personalismi e di puntigli catari (di presunta
purezza). È necessario comprendere che tra uomini diversi ci saranno sempre diversità, la capacità
imperiale è quella di guidare in una direzione ascendente ed unificante le molte diversità e la
complessità del reale.
Diventiamo noi stessi ciò che vogliamo dal mondo per affermare con la nostra vita ciò che è giusto.
La luce che dobbiamo accendere in noi, può e deve illuminare il nostro cammino e quello di coloro
che incontriamo. Potremo ispirare il prossimo e le nuove generazioni solo se saremo ispirati, in
grado di ardere noi stessi del fuoco che discende dall’alto. Non si può dissolvere l’oscurità
sognando il fuoco e sperando in un miracolo, affinché nella notte tutti possano vedere è necessario
accendere una fiammella e portare ad essa legna da ardere: più la notte è oscura, più la luce, per
quanto piccola si vedrà da molto distante.
Ciò che fin qui abbiamo auspicato ed indicato è il lavoro primario di riacquisire potestà sulla
nostra vita e su ciò che ci appartiene. Una volta tornati padroni delle nostre scelte dovremo
riacquisire l’autorità, cioè la capacità di farci autori del nostro destino e costruttori di ciò in
cui crediamo. Solo allora ci si potrà offrire all’Impero, come missione ordinatrice di giustizia,
concordia e patto sacro tra gli uomini, perché la nostra stirpe possa offrire cittadinanza ed
accogliere le forze luminose che discendono dall’alto e guidano la storia.
Quando questo fuoco sarà riacceso, saremo pronti ad affermarlo e difenderlo contro le forze della
Remora che cercano di mantenere il mondo nell’oscurità?
La cosa più bella e gloriosa
è riporre la propria speranza nella virtù.
(Catone il Censore)
Abbiamo tentato in queste poche pagine un’impresa impossibile, condensare quelli che secondo noi
sono alcuni dei più importanti concetti giunti fino a noi da Roma, in grado di darci un’idea della
visione spirituale ed etica che proviene dall’Urbs. Riteniamo che al di là del realismo storicista,
sia il suo Mito il vero dono e il lascito da custodire che dal nostro passato giunge fino a noi.
È nostra convinzione che la romanità abbia cercato di preservare ciò che le giunse dalla Tradizione
primordiale, combattendo con le forze della decadenza e della sovversione. La Roma storica, come
sappiamo, non resse all’urto delle forze contrarie, quando anche i suoi Patrizi pian piano corrotti
dal fantasma di Remo lasciarono entrare nelle mura sacre dell’urbe la degenerazione, le sirene
delle idee lineari e progressive della storia, quando la moda per l’esotico dissolse il Mos ed i
culti iniziatici sostituirono il Cultus Deorum, quando le filosofie razionaliste portarono il
disprezzo per la sapienza originaria, quando al valore legionario si preferì l’interesse
mercenario: dimentichi della loro missione ed origine anche gli ultimi romani furono spazzati via
dalla barbarie e dal caos della emergente modernità. Ma sappiamo che il ciclo della storia deve
fare il suo corso, l’età del ferro deve portare a consunzione le scorie della decadenza, affinché
possa tornare il primo Re, Saturno.
Ci domanderemo da cosa emerse Roma, ultima casa del Mos Maiorum.
Da cosa se non da una visione spirituale, sacra, divina dell’uomo? Da cosa se non dalla coscienza
d’essere figli dell’amore e della lotta?
Bisognerà riconnettere in noi, spirito, sangue e suolo, silenzio, ritmo e forma, principio, volontà
e simbolo, fare della nostra coscienza un
centro ascensionale in cui convergano tutte le aspirazioni
dell’Essere in lotta contro le spinte basse.
La volontà è di ispirarci ai maggiori e di realizzare questi ideali eterni con lo sguardo verso la
vetta: pensare ed agire in modo degno, prendendoci cura della natura, fieri della nostra stirpe e
della nostra eredità culturale, elevarci nel particolare per farci custodi dell’universale,
incarnazione del Divino, saper vedere ogni cosa come parte di sé da proteggere, nutrire,
rettificare.
In questa fiamma interiore, in questa visione archetipica, in questa lotta per l’affermazione della
Luce, in questo grande onore di discendere da cotali uomini, risiede l’eredità della Roma
metastorica.
Sta a noi riprendere questa eredità, suscitare le medesime forze dentro di noi e vivere secondo i
suoi alti principi, non a chiacchiere, o nell’eccezionalità di eventi drammatici, ma nei piccoli
gesti della nostra quotidianità, per incarnare e trasmettere questa memoria viva, così che la Roma
eterna, come il Sole invitto, torni a sorgere sul Mondo!
Ad Maiora!