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05/01/2016| Francesco Meneguzzo (ilprimatonazionale.it)

 

 

 

Debito pubblico globale: uno scenario agghiacciante

 

 

 

 

 

 

 

Il nuovo anno sarà un banco di prova più unico che raro: mai nella storia finanziaria moderna, infatti, è stato accumulata una quantità tanto gigantesca di debito in rapporto alla ricchezza reale, cioè al prodotto interno lordo (Pil).
Mentre nel 1994, infatti, il debito globale ammontava appena al 140% del Pil, nel 2014 lo stesso rapporto era salito al 560%, portandosi all’astronomica somma di 225 trilioni di dollari a fronte di un Pil attestatosi intorno a 78 trilioni. La stessa tendenza è proseguita, sebbene probabilmente in tono minore, nel 2015.
La divergenza, nello stesso ventennio, tra la crescita del debito (+9% di incremento composto annuale) rispetto al Pil (+5,3%) è abbastanza rappresentativa dell’immane schema-ponzi messo in opera per sostenere una crescita che si credeva e voleva infinita e che invece si è scontrata con i limiti delle risorse, primo tra tutti il solito petrolio i cui costi di estrazione hanno subito un’impennata finora inarrestabile a partire dal 2000.
Nessuno schema-ponzi dura per sempre, anche se fare previsioni precise sarebbe quanto mai azzardato, sebbene qualche indicazione sia stata data proprio su queste colonne.
 
Nel frattempo, l’inefficienza nell’allocazione dei capitali sia sul versante della domanda di materie prime (commodities) sia su quello degli investimenti pubblici e privati ha raggiunto livelli sovietici, in particolare - semplificando un po’ - con il risultato di scavare un abisso tra l’offerta e la domanda. Un esempio eclatante è stato l’incredibile incremento degli investimenti di capitale nell’estrazione di petrolio e gas naturale, passati da 250 miliardi di dollari nel 2005 a 700 miliardi nel 2014, con il risultato di un aumento delle rispettive produzioni costituito per la gran parte da segmenti caratterizzati da alti costi di estrazione, aumento che a sua volta si è scontrato con l’incapacità della domanda di reggere il passo, cioè di sopportare i prezzi altissimi necessari a far quadrare i bilanci.
Conclusione: fin dagli ultimi mesi del 2014 sono collassati i prezzi, nel 2015 questi investimenti sono crollati del 20%, e l’occupazione del settore ha subito un bagno di sangue con centinaia di migliaia di licenziamenti.
Lo stesso dicasi per il settore delle esplorazioni ed estrazioni minerarie non energetiche, i cui investimenti sono cresciuti di sei volte dal 2004 al 2013, per contrarsi successivamente di oltre il 25% a fronte del calo della domanda, soprattutto dalla Cina e da altre economie emergenti.
 
Il cerino più acceso sta per il momento nelle mani dei produttori di materie prime, nessuno escluso e Arabia Saudita in testa, così come gli altri paesi del Golfo, l’Australia, e - per rimanere in Europa - la stessa Norvegia comincia a sentire i primi acuti dolori. Con un denominatore comune: i fondi sovrani dei paesi produttori ed esportatori di materie prime, gonfiati dall’oceano di liquidità, sia direttamente sia indirettamente per mezzo dello stimolo artificiale alla domanda - si stanno avviando a una pericolosa fase di liquidazione finalizzata a compensare i mancati introiti delle esportazioni tradizionali, che minaccia di travolgere con un effetto a cascata tutti i mercati finanziari, inclusi quelli europei. Tra i quali i valori azionari dei titoli quotati sulla borsa italiana, che nel 2015 hanno fatto segnare un record sia di crescita che di capitalizzazione complessiva.
Sommando a tutto questo la cronica diminuzione dei posti di lavoro più qualificati e conseguentemente delle retribuzioni, che rinforza la depressione della domanda, e la stagnazione del commercio mondiale ai livelli più bassi dell’ultimo trentennio, non è affatto scontato che in questo nuovo anno una ulteriore probabile recessione non possa assumere dimensioni assai superiori a quella del 2008-2009.
Di fronte a questo scenario, l’Europa si trova praticamente disarmata, sebbene finora abbia più o meno galleggiato con l’eccezione della Grecia e in parte del Portogallo, sia sul versante delle banche centrali - che con la politica degli interessi zero e le altre misure monetarie espansive hanno esaurito le armi a propria disposizione - sia su quello delle politiche industriali, che non hanno saputo approfittare prima dell’amplissima liquidità disponibile, quindi del beneficio temporaneo dei bassi prezzi delle materie prime.