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Il 7 dicembre 1941 il Giappone, costretto alla guerra dal ricatto americano, si lanciava all’attacco bombardando dal cielo la base navale di Pearl Harbour. Per la coraggiosa nazione nipponica, strangolata dalla piovra statunitense, iniziava la lotta per la vita: uno scontro mortale che avrebbe contrapposto due visioni del mondo assolutamente diverse e inconciliabili. L’una, quella americana, fondata sull’usura, sul bluff, sul cinismo e sul gangsterismo, rappresentava, nel peggior modo possibile, l’archetipo del mercante. L’altra, forgiata come le sue Katana sull’onore e sulla fedeltà, sul coraggio e sul sacrificio era la più sublime espressione dell’archetipo del guerriero: il Samurai.
Lo scontro fu impari né l’Impero del Sole mai aveva supposto altrimenti. Di fronte ad un popolo in armi, a guerrieri decisi che avrebbero conteso ogni metro di terra all’invasore usuraio facendolo tremare e rendendolo letteralmente pazzo, la cieca, informe e difforme rabbia dell’omuncolo d’affari indusse quest’ultimo ad utilizzare l’atomica contro le città di Hiroshima e Nagasaki suggellando, con quell’atto d’infamia, di viltà e di sordida ferocia, l’inferiorità ontologica prima che culturale del modello vincente, quello stesso che ai nostri giorni ha ridisegnato l’intera mappa mondiale sulla base dell’economia del Crimine Organizzato.
In quest’anniversario nel quale non si può non festeggiare la grandezza giapponese non possiamo neppur dimenticare che, ben dopo l’olocausto atomico consumato in Giappone, gli americani incontrarono più volte soldati nipponici come Onoda che erano sopravvissuti per venti o trent’anni in atolli sperduti del pacifico dove ancora tenevano le posizioni e da dove accolsero i marines sparando loro addosso.
Nel nome e nel segno dei kami kazé: il vento divino che sospinge, nel sacrificio supremo e gioioso, i fiori di ciliegio.
Banzai !

 

 

 

 

 

 

Noreporter Dicembre 2004