31/12/2015| Adriano Scianca (ilprimatonazionale.it)
Ora invece la gioventù è conformista e poliziotta
La morte di Lemmy Kilmister sembra aver lasciato un vuoto che eccede largamente il naturale cordoglio dei fan dei Motörhead. È, in un certo senso, un’epoca che si chiude. La retorica sul rock come esperienza rivoluzionaria è indubbiamente stucchevole, anche perché spesso esce dalla bocca di vecchi tromboni col codino incanutito che vanno in tv a fare i reduci degli anni ’70 e quelli che “un mio cugino conosce un tale che una volta ha dormito in un motel vicino Woodstok”. E tuttavia, personaggi come Lemmy danno davvero l’impressione di un’espressione di vitalità che ha rappresentato uno sfogo, un ripiego, in un periodo in cui non era possibile fare di più e di meglio.
Il ventennio ’45-65 (che coincide esattamente, peraltro, con i primi 20 anni di vita del leader dei Motörhead) è stato ovunque in Europa, e in Italia ancor di più, il periodo del ritorno all’ordine borghese, del ripristino della morale. Ogni velleità rivoluzionaria legata alla resistenza, in cui pure qualcuno aveva pur creduto, venne frustrata dal trionfo di un potere bigotto. Nella retorica dominante, i fascisti vinti non erano i reazionari nemici del progresso, come qualcuno sosteneva, ma i barbari che avevano sconvolto i buoni e onorati costumi. Il rock fu anche una reazione a tutto questo. È appena il caso di sottolineare il carattere costruito e superficiale di tale “epopea”, cosa che tuttavia non smentisce affatto il carattere “liberatorio” di questa ventata sottoculturale in un continente caduto sotto una cappa di conformismo soffocante.
La divinizzazione delle rockstar belle e dannate, aveva sin troppe riminiscenze storiche immediate. In quei divi al di sopra della morale e della legge, riviveva “l’esistenza eterogenea” che Georges Bataille aveva visto – denunciandola e ammirandola al tempo stesso – nella figura dei capi fascisti. Il rapporto diretto del leader carismatico con le folle, quella energia sprigionata in grandi appuntamenti di massa in cui nasceva un dialogo estatico senza intermediari, era una cosa inventata da D’Annunzio, resa poi tecnica politica da Mussolini e religione di Stato da Hitler. La differenza di contesto, di contenuti, di sostanza umana è palese, ma sociologicamente è difficile non riconoscere che i due fenomeni abbiano qualcosa in comune.
Così come sono sin troppo frequenti le affinità tra i racconti di due differenti generazioni uscite di casa sbattendo la porta per ribellarsi al conformismo e cercare l’avventura, anche se pure qui le obiezioni sono facili: a Fiume si andava per liberare una terra irredenta, rischiando la vita, e con la certezza di scrivere nuove tavole dei valori. Se poi qualcuno tirava fuori un po’ di cocaina, tutto faceva brodo. Ai concerti rock il secondo aspetto è dominante e il primo totalmente assente. Eppure quando Günter Grass racconta di essersi arruolato volontario con le SS perché era “un modo per girare l’angolo e voltare le spalle ai genitori” non sta solamente cercando una scusa per sminuire la portata politica del suo passato ingombrante: sta dicendo qualcosa che fu effettivamente esperienza comune di una generazione.
Insomma, è come se un tappo gigante sia stato messo sopra la vitalità di un continente, facendo in modo che tutte le energie uscissero altrove, in modo degradato e corrotto. Ma, quel che è più grave, è che anche questa forma compensativa e secondaria di scaricare l’esuberanza giovanile è ormai giunta al termine. Il bigottismo, la normalizzazione hanno ormai invaso anche quell’ambito. Il rock oggi è tutto un fiorire di “impegno sociale” e “cause umanitarie”. Qualche anno fa abbiamo visto le “riviste giovani” e i santoni autoproclamatisi del punk italiano insorgere contro la cinghiamattanza lanciata dagli Zetazeroalfa, che è forse l’ultimo vero fenomeno rock nato dal basso, senza esperti di marketing e consulenti delle multinazionali a dettare le strategie.
Ormai sono tutti guardiani delle ortodossie, fissano tutti in paletti da non superare, ribadiscono ciò che si può e non si può dire. Qualche rockstar passa ancora per maledetta, ma Amy Winehouse assomiglia più alla vittima di un ingranaggio più grande di lei, come un broker di borsa che si butta da un grattacielo, piuttosto che la semidea che vuole vivere poco ma intensamente. Gli ultimi fermenti studenteschi sono stati all’insegna della Costituzione, in favore dei magistrati, per far arrestare un presidente del Consiglio che ci faceva sfigurare con le grigie democrazie europee a causa del fatto che scopava troppo. Interi settori politici che si definiscono “antagonisti” sanno unirsi solo per reclamare la chiusura di sedi politiche altrui e l’abolizione dei diritti politici per gli avversari. La grande battaglia sociale di questa epoca è in favore del gigantesco meccanismo schiavistico e padronale chiamato “immigrazione di massa”.
È il grande riflusso del conformismo. Ma la storia insegna che non si possono tappare per troppo tempo le energie giovanili, da qualche parte, una nuova ondata di ribellione dovrà pur erompere. Alle élite al potere non resta che sperare che la nuova gioventù ribelle imbracci solo delle chitarre.