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12/01/2016| Adriano Scianca (ilprimatonazionale.it)

 

 

sta solo leggendo Nietzsche su Marte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È stato un marziano. È stato il Duca Bianco. Forse l’essere morto è solo un’altra delle sue trasformazioni, una trovata di marketing presa troppo sul serio. Da lui dovevamo aspettarcelo ed è solo il suo ufficio stampa a non aver colto la provocazione. “Oggi David Bowie è morto serenamente, circondato dalla sua famiglia, dopo 18 mesi di coraggiosa battaglia con il cancro”, si legge sulla sua pagina facebook.
David Robert Jones (poi Bowie, per evitare confusioni con una meteora omonima allora abbastanza in voga) nasce a Brixton, Londra, nel 1947. Diploma alla Bromley High School, lavoro in un’agenzia di pubblicità. Non è decisamente la sua strada, anche se forse l’esperienza nel campo del marketing non si rivelerà estranea rispetto ad alcuni colpi di genio mediatici che costelleranno la futura carriera del cantautore. Primi gruppi musicali, prime esperienze artistiche: i King Bees, in cui c’è anche George Underwood, quello che da lì a breve litigherà con il futuro Duca Bianco, procurandogli (si dice per una ragazza) una lesione permanente alla pupilla sinistra. Poi i Konrads, i Feathers. Poi solo David Bowie. Scrive Space Oddity. L’ispirazione arriva dalla visione di 2001, Odissea nello spazio. È il 1969, il film di Kubrick è uscito l’anno precedente. Il singolo esce pochi giorni prima dell’allunaggio americano. Quando si dice fiutare lo Zeitgeist. I seventies sono alle porte e David Bowie vi fa un ingresso da gran signore. Il personaggio arriva prima dell’artista: magro, algido, androgino, glam, bizzarro, Bowie sa far parlare di sé quanto basta. Gioca abilmente sulla sua, del tutto artificiosa, ambiguità sessuale («Ho conosciuto mia moglie perché entrambi andavamo a letto con lo stesso uomo», dichiarerà). Interpreta Ziggy Stardust, alieno giunto da Marte per portare sulla terra il suo sound rock e decadente.
In questi anni, scrive Thomas Jerome Seabrook in Bowie. La Trilogia berlinese (Arcana), l’artista di Brixton era «il personaggio più sovrannaturale e camaleontico del pop britannico». I primi album, anche quando non sono baciati dal successo, determinano comunque uno stile assai originale così riassunto dallo stesso Seabrook: «Il magistrale connubio di arte “alta” e “bassa”, una sensibilità pop stemperata nel cabaret, l’ambiguità sessuale e i testi ispirati a Nietzsche». Bowie, pian piano, comincia a dominare la scena. Anzi no, non è Bowie. È Ziggy, Ziggy Stardust. Personaggio e artista si sovrappongono, si fondono. David è diventato Ziggy, Ziggy fa la fortuna di David. Fino a che non rischia di fagocitarlo. «Quello stronzo non mi ha lasciato in pace per anni», dirà poi Bowie.
Il prossimo progetto si chiama 1984. Sì, quello di Orwell. Bowie decide di realizzarne un musical e per promuoverlo va praticamente nel cuore dell’incubo orwelliano. Negli Usa l’artista comincia ad avere un certo successo, occorre cavalcare l’onda. Il tour a stelle e strisce è devastante. Bowie consuma cocaina come fosse acqua fresca. È magrissimo e sconclusionato, nelle sue apparizioni televisive alterna imbarazzanti silenzi a preoccupanti deliri paranoici. La macchina dello star system losangelino lo divora in solo boccone. Non dorme anche per una settimana di fila, tira continuamente su con il naso, mangia solo latte e peperoni, una dieta che lo riduce in breve tutto pelle e ossa. Approfondisce l’interesse per l’occultismo, legge Crowley, la Blawatsky e Il mattino dei maghi. Passa notti intere a disegnare pentacoli, le sue paranoie si dilatano a dismisura (è convinto che Jimmy Page voglia rubargli l’anima o qualcosa del genere). La città degli angeli lo sta spremendo come un limone. Ha bisogno di cambiare e in fretta. «È troppo tardi per essere odiosi, il canone europeo è qui», canta in “Station to Station”. Il tour che promuove l’album omonimo lancia altrettanti segnali emblematici: Bowie è diventato il Sottile Duca Bianco, «un Sinatra nietzscheano», spiega Seabrook, ovvero un «crooner ariano e crudele, che il cantante in seguito avrebbe sintetizzato con la definizione “aspirante romantico privo di qualsiasi emozione”». L’atmosfera scenica è altrettanto significativa: «Anziché un gruppo di supporto, agli spettatori dei concerti dello Station to Station tour fu offerta una proiezione di Un chien andalou, il film del 1929 di Luis Buñuel e Salvador Dalì, celebre per la sequenza in cui la lama di un rasoio taglia in due un occhio, con in sottofondo le note del recente Lp dei Kraftwerk, Radio-Activity». C’è un prepotente, assillante bisogno d’avanguardia, in tutto ciò. C’è sete d’Europa.
Nella tappe sul Vecchio Continente ne accadono di tutti i colori. Ad un controllo di frontiera viene pizzicato con libri su Goebbels e Speer. In questo momento il Terzo Reich è per lui un’ossessione. Il 2 maggio 1976 viene beccato in una foto mentre, in Gran Bretagna, saluta la folla con il braccio teso in quello che viene interpretato come un saluto romano. Definisce, in alcune interviste provocatorie e allucinate, Hitler come «la prima rockstar» e il nazionalsocialismo come «una splendida iniezione di morale». Dichiara: «Per come la vedo, io sono l’unica alternativa al premier in Inghilterra. Credo che la Gran Bretagna otterrebbe grandi benefici con un leader fascista. Dopo tutto il fascismo in realtà è nazionalismo». Il tutto mentre nel tempo libero dipinge ritratti di Mishima. In “Quicksand”, brano inserito in Hunky Dory, del 1971, aveva scritto: «Sto vivendo in un film muto raffigurante il sacro regno di Himmler», accennando anche alle «bugie di Churchill». Ora, intendiamoci: in queste parole c’è un terzo di cocaina, un terzo di provocazione iconoclasta e un terzo di fascinazione estetica. Lettore bulimico e spirito teatrale, Bowie ama mettere in scena personaggi, stili e linguaggi di volta in volta diversi, a seconda delle letture del momento. Il fascismo, in questi casi, è del tutto avulso da ogni considerazione storica è politica. È lama che taglia la cattiva coscienza e il perbenismo, come l’occhio del film di Buñuel. È divertissement estetizzante. Il Duca Bianco non è un ideologo, è un dandy. Tempo dopo, Bowie chiarirà di non aver fatto alcun saluto nazista e preciserà: «Non sono fascista, sono apolitico». Negli anni ’90 i Tin Machine, gruppo in cui Bowie si eclisserà per voglia di impersonalità, scriveranno anche “Under the God”, un testo antifascista molto duro contro il movimento skinhead.
La seconda metà degli anni ’70 è caratterizzata dalla famosa trilogia berlinese: Low (1977), “Heroes” (1977) e Lodger (1979). È, quella di Bowie, una Germania che sa di piume di struzzo, Bauhaus, Freikorps, Fritz Lang e kosmische musik. Berlino Ovest, che ne è il cuore, incarna alla perfezione la città tragica ma spensierata, tetra ma vitale, decadente ma avanguardista, sempre sul punto di cadere per poi costantemente ritrovarsi. In Europa, Bowie si porta un Iggy Pop in via di disintossicazione dall’eroina. Forse la città dei “ragazzi dello zoo di Berlino” non era esattamente il posto più adatto. Bowie sopravvive all’ondata iconoclasta del punk e passa indenne anche gli anni ’80, dove anzi si dedica, seguendo come sempre lo spirito del tempo, a un pop raffinato che regala hit entrate nell’immaginario, come “Ashes to Ashes”, “Let’s Dance”, “China Girl”, “Loving the Alien”. Sempre più frequenti le sue apparizioni al cinema: solo negli anni ’80 saranno nove. A fine anni ’90 riuscirà persino a farsi incastrare dallo sfigato cinema italiano, facendo il cattivo nel dimenticabilissimo Il mio West, di Giovanni Veronesi, dove il buono, tanto per farsi un’idea, era Pieraccioni. Con l’Italia non è fortunato: vedasi la comparsata in una trasmissione di Celentano, dove l’artista italiano lo sottoporrà a una surreale intervista sulla pace nel mondo che Bowie vivrà come una specie di incubo (l’intervista, non la pace nel mondo, su cui peraltro non avrà idee particolarmente originali da suggerire al Molleggiato). Negli anni ’90 si re-inventa ancora una volta, spaziando da tentazioni hip hop a sonorità industruial. Negli anni 2000 le apparizioni si diradano. Nel giorno del sessantanovesimo compleanno dell’artista, l’8 gennaio 2016, era uscito Blackstar, il suo il ventisettesimo album in studio. Poi quello stronzo di Ziggy Stardust è tornato per portare Bowie sul suo pianeta. Chissà se su Marte ci sono libri sul Terzo Reich…