01/02/2016 | Anna Zefesova (ilfoglio)
Staremo a vedere
La notizia è apparsa venerdì sul sito del Financial Times, per venire smentita mezz'ora dopo dal Cremlino e sparire nel vortice di altre news. Diceva che Vladimir Putin avrebbe proposto al rais siriano Bashar el Assad di farsi da parte. Il latore dell'offerta era altolocato come l'occasione richiedeva: il colonnello-generale Igor Sergun, capo dello spionaggio militare, il famoso Gru. Assad avrebbe “reagito con sdegno”. Una missione finita malissimo: il 4 gennaio è uscito un accorato necrologio di Sergun, firmato da Putin. La morte di un personaggio top secret – di alcuni suoi predecessori non veniva pubblicata nemmeno la foto – è stata celebrata dai media russi con interviste ai compagni d'armi addolorati. Uno dei quali, Serghei Stepashin, ex capo del controspionaggio, si è fatto sfuggire che il compianto generale è “morto in servizio”. La versione ufficiale resta che un infarto ha stroncato il 59enne Sergun il 3 gennaio nel resort “Moskvich” dell'Fsb, l'ex Kgb. Secondo il sito americano Stratfor, sarebbe invece spirato il primo dell'anno nell'ospedale americano di Beirut, e un giornale siriano indica come causa del decesso una pallottola nel petto.
E' più probabile che il generale abbia avuto un incontro ravvicinato spiacevole sulle strade siriane invece che essere rimasto vittima dello “sdegno” di Assad. Resta il fatto che il Cremlino si è giocato uno dei suoi uomini chiave, che aveva organizzato l'operazione aerea in Siria e l'infiltrazione di agenti in Ucraina. Uno che si scomoda solo per missioni di massimo livello. Così come il misterioso Vladislav Surkov, considerato l'ideologo di tutta l'operazione ucraina. Che il 15 gennaio si è visto a Kaliningrad con il sottosegretario di stato americano Victoria Nuland. Una coppia apparentemente impossibile: lei aveva distribuito biscotti sul Maidan e aveva sbottato “F... the EU” in una memorabile intercettazione, lui ha la fama sulfurea del Karl Rove russo, prima puparo della svolta antieuropea di Viktor Yanukovich e poi inventore della rivolta del Donbass. Due “falchi”, che insieme hanno fatto un brain storming di sei ore, secondo la definizione di Il brain storming di solito è un lavoro di squadra, non tra due avversari. Segno che su Kiev e Damasco Mosca potrebbe aver compiuto due svolte clamorose, lontano dai riflettori. Il ritorno della diplomazia segreta ai più alti livelli segna anche il primo negoziato diretto in due anni tra russi e americani. L'idea che le crisi andavano risolte nell'ambito di negoziati multilaterali, con la partecipazione obbligatoria dei diretti interessati, appare accantonata a favore della buona vecchia abitudine delle superpotenze di giocare a risiko a quattro mani. Esattamente quello che Putin chiedeva agli americani, anche quando nel suo discorso all'Onu aveva evocato nostalgicamente Yalta come modello ideale del mondo che fu. L'aveva ripetuto per mesi e anni, di esigere dagli occidentali “un trattamento da pari” e “rispetto”. Niente lezioni, bacchettate e rimproveri. Al punto da sfidare e mimare l’America in Siria, perfino nell'estetica televisiva di bombe sganciate in diretta, modello Cnn a Baghdad.
La ricerca del rispetto è costata cara. La guerra nel Donbass non è stata vinta, e con la recessione e le sanzioni Mosca non poteva permettersi di proseguirla. In Siria quello che era stato immaginato come un irresistibile blitz non è riuscito a far riconquistare ad Assad che l'1,5 per cento del territorio perduto. Quando il prezzo del barile è sceso sotto i 30 dollari la necessità di un “reset” con l’occidente è stata evocata perfino da esponenti del governo russo. Ma lo spazio per fare una marcia indietro per un leader che deve il suo 86 per cento dei consensi alla fama di duro era molto stretto. La tradizione politica russa non contempla l'ammissione dell'errore. Il negoziato diretto con Washington permette di presentarlo come vittoria, dopo che per due anni americani ed europei avevano insistito che Kiev era sovrana nelle sue scelte e le parole di Obama sulla Russia come “potenza regionale” erano risuonate come un insulto.
Anche Putin, quando parlava di Assad, insisteva sul fatto che “deve essere il popolo siriano a decidere”. Il Cremlino si era lanciato in Siria non solo per far dimenticare il fallimento ucraino, ma soprattutto per ribadire il principio della non ingerenza negli affari interni. Come aveva fatto con Milosevic, con Saddam, con i vari Kim, ritenendo non del tutto a torto di poter diventare un giorno a sua volta bersaglio di una “guerra umanitaria”. L'unica volta che aveva lasciato fare era stato in Libia, e Putin rimase sconvolto dalla fine di Gheddafi. Avrebbe difeso Assad a oltranza per non fare la stessa fine. A meno che non gliel'avesse fatta fare lui stesso.
Il “cambiamento dei toni ancora prima che dei contenuti”, rilevato con soddisfazione dalla diplomazia russa dopo il viaggio di John Kerry il 15 dicembre scorso, ha portato aria di “reset”. Un jet della presidenza russa è atterrato a Kiev dopo mesi di interruzione di voli con Mosca, portando Boris Gryzlov, putiniano di alto grado, con inusuale carica di ottimismo per rilanciare il negoziato sugli accordi di Minsk. Kerry a Davos non ha escluso la cancellazione delle sanzioni contro la Russia entro la fine dell'anno, a condizione dell'applicazione dei dettami di Minsk (che prevedono il ritorno del Donbass a di Kiev).
Prima che Putin possa presentarsi come un vincitore che ha costretto gli americani a spartirsi il mondo con lui dovrà però convincere Assad, che comprensibilmente non ha nessuna voglia di trasformare la sua testa in merce di scambio. La proposta di Mosca, come era parso di capire da una serie di indiscrezioni dei mesi scorsi, era una transizione in cui Assad si faceva da parte con la garanzia che le leve del potere militare sarebbero rimaste al suo clan, in attesa di elezioni che, secondo Putin, “avrebbe potuto anche vincere”. Un'operazione che Putin stesso aveva compiuto con Dmitri Medvedev, cedendogli per quattro anni il Cremlino. Ma il medio oriente non è la Russia e un altro Medvedev è introvabile. Bisognerà anche procurare una casa e una pensione ai falchi di Donetsk, che ogni tanto tornano ai mortai per alzare il prezzo di quello che i nazionalisti russi temono da mesi come lo “scaricamento del Donbass”